2023/12/01

Pubblicato il verbale dell'intervista della 9/11 Commission al principe saudita Turki bin Faysal Al Sa'ud

di Leonardo Salvaggio. Si ringrazia il giornalista Gerald Posner, autore di "Why America Slept", per la consulenza.


Nello scorso mese di giugno la Interagency Security Classification Appeals Panel, ente creato dall'amministrazione Obama nel 2009 con il compito di decidere sulla desecretazione di documenti sensibili, ha ordinato la declassificazione del verbale dell'intervista della 9/11 Commission al principe saudita Turki bin Faysal Al Sa'ud, che dal 1977 fino a dieci giorni prima dell'11/9 era a capo dei servizi segreti di Riyadh. La pubblicazione è stata ottenuta a seguito di una richiesta in appello dalla giornalista Robbyn Swan del 2019, dopo che una precedente richiesta FOIA (Freedom of Information Act) le era stata respinta.

Come accaduto anche nel caso dell'intervista a George Bush e Dick Cheney, non esiste una registrazione dell'incontro e il documento pubblicato è un memorandum e non una trascrizione completa. L'incontro si è svolto il 29 e il 30 ottobre del 2003 all'ambasciata saudita di Londra, in quanto al tempo Turki bin Faysal Al Sa'ud era l'ambasciatore nel Regno Unito; per l'occasione il principe ha incontrato Philip Zelikow, direttore esecutivo della commissione, e Dieter Snell che è anche l'autore del documento.

L'intervista ha lo scopo, dichiarato nell'introduzione, di sentire anche la versione saudita sugli eventi dell'11/9, contrariamente a quanto fatto dall'indagine governativa nota come Join Inquiry. L'intervista riguarda in gran parte la storia di al-Qaeda e i rapporti tra la Osama bin Laden e la famiglia reale. Il principe racconta di aver incontrato il terrorista circa cinque volte di cui una in Arabia Saudita e le rimanenti in Pakistan. Gli incontri risalgono al tempo dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, a proposito della quale il principe Turki specifica di non aver mai cooperato con al-Qaeda ma di aver fatto parte di uno sforzo congiunto con USA e Pakistan per respingere l'Unione Sovietica in cooperazione con fazioni di mujaheddin operanti sul territorio. A tal proposito il principe conferma che neanche gli USA abbiano mai cooperato con al-Qaeda.

Il racconto si sposta poi alla prima guerra del Golfo, quando bin Laden offrì il proprio aiuto all'Arabia Saudita per respingere con i propri guerriglieri l'invasione di Saddam Hussein in Kuwait. L'offerta del terrorista era in sostituzione del supporto americano e venne respinto dai reali di Riyadh. Poco dopo bin Laden trasferì al-Qaeda in Sudan e da lì inviò delle comunicazioni verso i reali sauditi in cui li esortava con toni bellicosi a espellere le forze americane dal loro suolo. A seguito di queste minacce rivolte al regime di Riyadh Osama venne disconosciuto dalla sua famiglia e gli venne revocata la cittadinanza.

Il principe aggiunge che l'Arabia Saudita non ha mai tentato di uccidere bin Laden e che il tentativo avvenuto in Sudan (non specifica quale ma è ragionevole pensare che si tratti di quanto avvenuto a Omdurman nel 1994) sia stato una messinscena per spaventarlo.

A metà degli anni 90 al-Qaeda tornò in Afghanistan, al tempo l'alleanza trinazionale finalizzata a respingere l'invasione sovietica si era allentata. Il principe sostiene che il quegli anni Osama avesse parte del proprio capitale fuori dall'Arabia Saudita: in Europa, Sudan e Stati Uniti. Al tempo, aggiunge Turki, divenne un problema il controllo dei fondi verso l'Afghanistan, Riyadh tentò di stabilire un comitato che ne controllasse la destinazione, ma ovviamente l'efficacia non fu totale e parte di quanto raccolto da organizzazioni di beneficienza deviate finì ad-Qaeda.

Verso la fine degli anni 90 la famiglia reale saudita iniziò a preoccuparsi della pericolosità di Osama bin Laden, anche in seguito all'arrivo in Afghanistan di importanti contingenti di armi dallo Yemen, e chiese ai Talebani la consegna del terrorista. I reali sauditi avviarono quindi delle trattative con il Mullah Omar che naufragarono poco dopo perché i Talebani ritirarono la disponibilità. Secondo il principe Turki, gli Stati Uniti erano al corrente delle trattative. A seguito di questa rottura anticipata dell'accordo, l'Arabia Saudita interruppe i rapporti con i Talebani.

L'ultima parte dell'intervista verte sulle indagini successive all'11/9 ed è l'unica in cui effettivamente i due commissari provano a capire qualcosa sui legami tra l'Arabia Saudita e gli attentatori, ma da quanto emerge le domande sono state vaghe e non c'è stato un tentativo di scavare dopo la risposta iniziale.

I commissari come prima cosa chiedono al principe cosa pensi di quanto scritto dal giornalista ed ex-avvocato Gerald Posner nel libro Why America Slept, uscito pochi mesi prima dell'intervista. Scrive Posner nel libro di aver saputo attraverso delle fonti che Abu Zubaydah, terrorista di al-Qaeda vicino a bin Laden catturato nel 2002, ha riferito in un interrogatorio di aver partecipato a vari incontri con bin Laden e lo stesso principe Turki nel quale quest'ultimo offriva fondi segreti ad al-Qaeda purché il terrorista si impegnasse a non compiere attentati in Arabia Saudita. I fondi sauditi arrivavano al ad al-Qaeda attraverso tre principi: lo stesso Turki, Ahmed bin Salman Al Saud (di cui Abu Zubaydah aveva con sé il numero di telefono) e Turki bin Saud Al Kabeer. In un altro incontro Abu Zubaydah sarebbe stato testimone di un accordo tra bin Laden e il militare pakistano Mushaf Ali Mir il quale offrì armi e protezione ad al-Qaeda in accordo con la corona saudita. A tal proposito il principe ribatte che, per quanto di sua conoscenza, il racconto di Posner è frutto di fantasia, di non aver mai incontrato Abu Zubayda e che nessuno degli altri reali sauditi coinvolti dal racconto aveva un ruolo politico. Riguardo al ruolo di Ali Mir, il principe aggiunge che difficilmente un militare pakistano poteva avere legami con bin Laden, il quale aveva i servizi segreti di Islamabad come interlocutore. A queste risposte sembrano non seguire altre domande sul tema da parte dei commissari.

Contattato da Undicisettembre, Gerald Posner, che tuttora ritiene corrette le proprie posizioni del 2003, sottolinea come il principe usi un linguaggio che gli lascia aperte vie d'uscita. Il testo dice infatti "As far as he knows, Posner's account is an invention" ["Per quanto ne sa, il racconto di Posner è un'invenzione"] e in riferimento ad Ali Mir dice "the Prince considers it highly unlikely that such a figure from the Pakistani military would have dealt with [Osama bin Laden]" ["il principe ritiene estremamente improbabile che una tale figura militare pakistana possa aver avuto rapporti con Osama bin Laden"] (evidenziazioni nostre).

Abu Zubaydah

La commissione chiede quindi conto al principe di un'altra asserzione di Abu Zubaydah riportata sempre da Gerald Posner nel medesimo libro, cioè se avesse avuto notizie di attacchi terroristici negli Stati Uniti che si sarebbero dovuti compiere l'11/9/2001. La risposta è negativa. Turki dice che in base alle fonti di intelligence sia saudite sia americane il suo timore era di attacchi verso obiettivi americani sul suolo saudita. A tal proposito Gerald Posner ha comunicato a Undicisettembre che la sua fonte potrebbe aver esagerato il ruolo del principe Ahmed e di Ali Mir e che i due potrebbero effettivamente non aver saputo dove al-Qaeda intendesse colpire. Purtroppo, ha aggiunto Posner nella nostra comunicazione, Abu Zubaydah non è più in grado di testimoniare a causa delle torture e dei pestaggi subiti dalla CIA e i nastri degli interrogatori sono stati distrutti. In ogni caso, se il principe Ahmed avesse saputo di un attentato negli USA l'11 settembre del 2001, ha aggiunto Posner, non si sarebbe trovato in America, dove effettivamente era in quella data, ma sarebbe tornato in Arabia Saudita,

Il verbale dell'intervista prosegue con il principe che racconta di aver ricevuto dei report riguardo al cosiddetto summit del terrore di Kuala Lumpur a cui avevano partecipato anche Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, ma dal rapporto non risultava che i due soggetti fossero particolarmente pericolosi e nemmeno un esplicito legame con Osama bin Laden.

In chiusura il principe sostiene che i quindici dirottatori sauditi sono stati, secondo lui, traviati verso l'estremismo in Afghanistan e che l'Arabia Saudita non produce terroristi e si impegna per contrastare questo tipo di radicalizzazione. In ultimo lo stesso Turki invita i commissari a pubblicare tutto quanto emerso durante le oltre tre ore di discussione e di non nascondere nulla, come invece fatto dal Joint Inquiry. La richiesta del principe è stata comunque disattesa, perché il 9/11 Commission Report non contiene alcun riferimento a questa intervista.

Oltre a tutto quanto sopra, manca un ultimo ma fondamentale tema: è stato completamente ignorato il ruolo di Omar al-Bayoumi. I due commissari non hanno chiesto nulla al principe su per quale motivo un agente dell'Al-Mukhabarat al-'Amma (la principale agenzia di intelligence saudita) abbia aiutato due dei dirottatori del volo American Airlines 77 quando si trovavano a San Diego nel 2000 e nel 2001, cioè quando a capo dell'Al-Mukhabarat al-'Amma c'era proprio il principe Turki.

Non è chiaro perché la commissione abbia ignorato o sorvolato su temi cosi importanti, e alla luce di ciò è altrettanto inspiegabile il motivo per il cui questo documento è rimasto segretato per vent'anni.

2023/10/24

Intervista al membro dello staff della 9/11 Commission Thomas Dowling

di Leonardo Salvaggio

Ho pubblicato sul mio canale YouTube un'intervista al membro dello staff della 9/11 Commission Thomas Dowling sulle origini di al-Qaeda, sulla pianificazione dell'11/9 e sui presunti legami tra Osama bin Laden e Saddam Hussein.

L'intervista è solo in inglese.


2023/10/07

Intervista all'ex analista della CIA Cindy Storer

di Leonardo Salvaggio

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista con l'ex analista della CIA Cindy Storer sulla caccia ad Osama bin Laden, dai primi anni 90 fino alla missione di Abbottabad.

L'intervista è solo in inglese.

2023/09/29

Intervista all'ex investigatore dell'NTSB Tom Haueter

di Leonardo Salvaggio

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista all'ex investigatore dell'NTSB Tom Haueter sul ruolo dell'NTSB nelle indagini sull'11/9. L'intervista è solo in inglese.


2023/09/11

United 93: an interview with former FBI agent Matthew Hoke

by Leonardo Salvaggio. An Italian translation is available here.
For the 22nd anniversary of the attacks of 9/11 Undicisettembre is offering its readers the personal account of former FBI agent Matthew Hoke who responded to the crash site of flight United 93 in Shanksville.

We would like to thank Matthew Hoke for his kindness and his help.



Undicisettembre: Can you give me a general account of what happened to you on 9/11?

Matthew Hoke:
On 9/11 I was the coordinator of the Huntington Violent Crime/Drug Task Force in Huntington, West Virginia, it was run by the FBI and included local and state police officers. We had been following a group of individuals who were acting unusually, they were renting a car from the airport near us on a Friday, driving like 3.000 miles returning the car on a Monday; that's a lot of driving and they did it several times. I had an hour to drive to go to work everyday, so I was listening to a national radio station and they reported that a plane had hit one of the World Trade Center towers. On the radio they made it sound like it was a small prop plane, so I didn't think much of it.

As I'm pulling into the parking lot of my office, which was an off-site that was unmarked because we did a lot of covert stuff such as drugs purchases and things like that, the second plane hit the South Tower. Like everybody else, immediately we understood we were dealing with something that was not a simple prop plane flying into the World Trade Center. Back then we didn't have cellphones, we had pagers. I was on the Evidence Response Team, which is a collateral voluntary duty of the FBI, and I received a page that told me to pack for two weeks because we were going to go to New York.

I drove home quickly and as I'm packing I received another page that said that a plane had crashed into a field in Shanksville, Pennsylvania, and we were being diverted because Shanskville is in the Pittsburgh Division of the FBIs territory and Pittsburgh was my headquarter city. We drove immediately to Shanksville, we were a group of twelve or fourteen agents, it's usually a five or six hour drive but we got there in four hours.

United Flight 93 had crashed in an open field which was an old strip mine, on a bluff there were still empty warehouses. With a quarter-of-a-mile road through the woods you could reach the field where the plane crashed. The crash site was a couple of hundred yards from the opening of the woods, just off the road. By the time we got there in the early afternoon there were like three hundred people and several buildings set up; the American Red Cross and The Salvation Army were there, portable cell towers for telephone service, air conditioned tents, and the people there were already gathering evidence from the crime scene.

What I was preparing myself for while I was driving up was an airplane wreck, but the plane, as we found out, was going so fast and at a such angle that when it hit the earth, the earth shot up into the air and landed back on the remains of the plane. So you wouldn't see what you normally see in a plane accident. Anybody who had never worked on anything similar, wouldn't think there was a plane accident there. You could see the outline of the wings where the earth was moved, but you could see no big pieces of the planes. They assigned leads to go and find evidence. There were large postal packages on the plane, letters and paper were scattered everywhere; the farthest away we found evidence was in backyards eight miles away, things got caught up in the jet stream and pushed that far away.


That was the beginning of it, which we did for fourteen days. They set up a morgue and a room for evidence recovery. The main function of my team was not only to find evidence but to find the two black boxes: the data box and the voice recording box. We began doing that and we ended up finding the voice recording box like 38 feet in the ground and the data box 28 feet in the ground.

At the same time there were excavations going on. The heavy things like the engines and the wheel wells didn't break up like the fuselage did, they got shot forward and we found one engine in a pond a quarter of a mile away. We did some amazing things while we were there that showed what we could do when we get rid of the bureaucracy and only cared about making things happen. After 9/11 it rained for a few days so the road from the warehouse to the crash site was just mud and vehicles were having a hard time getting in and out of that location; I left one night, came back the day after and they had paved that road overnight. Things like that, things you don't normally see, just happened; everything got done very quickly.


Undicisettembre: How long have you been there, sifting for evidence?

Matthew Hoke: The crime scene was two weeks. In those two weeks we did a lot of things, they brought Evidence Response Teams from five different divisions, it wasn't just the Pittsburgh Division but also Cincinnati, a team from Tennessee, a team from Chicago and Cleveland. There were a lot of us there, every team had their duty and since we were the team from the division the crash happened in, we were responsible for the crash site. Another team was responsible for the woods that got burned out because of the jet fuel, they had a tougher job in terms of smell and danger because of the air they were breathing.

We were in the open, in a field bringing out tons and tons of dirt, putting it through a sifter, a huge machine that sifted it down to a half of an inch, from that sifter we would create a pile and from that pile we would hand sift to a quarter inch. One of our main goals was to identify anybody who was on that plane and eventually we accomplished that, we identified all the victims and the terrorists on the plane based on DNA. But it wasn't like we were finding large body parts, we were finding teeth, small pieces of skin. They were going to the morgue where the identification process began.

I was happy to be there and to be part of the solution, but at the same time not one of us knew what was going on in the outside world: we didn't know if we were going to war or if we had already gone to war. We had a little revolt three or four days into the crime scene, because we weren't getting information; because of health issues we had masks on, so we could not listen to radios or to the news and we got no updates. We wanted to be informed of what was going on, so our revolt consisted in asking for briefings at the crime scene about what was going on in the rest of the world: they did that, they started briefing us twice a day and giving us information about what was going on. That made it a lot easier to continue with our assignment.


Undicisettembre: How much did you guys know while doing that of the reason why the plane came down? Did you guys assume right away that it was because of a revolt of the passengers?

Matthew Hoke: It was just rumors initially. A lot of the town's people thought the United States Government had military jets shoot the plane out of the air because it was on a path to either the White House or the Capitol. I never believed that.

Five days in, family members of the victims came to the scene; at that time we knew what the passengers had done, they were heroes, brave and strong as nobody else. When their families came, they were just as strong. There weren't a lot of tears, there was a sad but proud feeling. We had a ceremony with the families there at the bluff where the command post was. I was so impressed with the strength of those families and it made us want to do the best job possible, either sifting or whatever your duty was, they were inspirational.

I went to the memorial in 2019 for the first time, it took me 18 years to go to the memorial, I went with one of my friends who was in the Pittsburgh Division with me. It was very emotional, but that respect and inspiration from the families continued and was strengthened by seeing what they had done at the memorial.


Undicisettembre: You mentioned finding pieces of the airplane and human remains, did you guys also find objects, like luggage or things that people were bringing with themselves?

Matthew Hoke: Yes, we found a lot of clothing, pictures, personal identification documentation and things of that nature, but that was found mostly in the woods while I was at the crash site; I personally wasn't finding a lot of that stuff because I was sifting through the dirt brought to us from the actual crash site of United Flight 93 looking for human remains. But we did find many objects and we identified everything and everybody based on what we found and DNA testing from human remains.


Undicisettembre: You also mentioned the black boxes, have you seen them?

Matthew Hoke: Yes, I was there when we found them and that was the number one goal in the very beginning, we found them at nighttime and they were immediately flown to Seattle so they could be tested and they could get data off of them. Everything happened really fast, there was no delay and we cut right through any normal administrative issues. It was impressive.


Undicisettembre: You saw pieces of the airplane, you saw objects belonging to the victims, you saw human remains, so what's your reaction when you hear people saying it was staged and that no plane crashed there?

Matthew Hoke: Well, it's frustrating to even talk about this. A conspiracy this big would mean that no one said anything in more than twenty years, it's just an easy out of the ignorant. By ignorant here I mean people who don't take time to do their own due diligence and find their correct news sources.

This is not just a problem with 9/11, this is a problem in general and it's very bad right now in the United States, some people are lazy as far as where they get their news from and how they count that first news source they read as Gospel without checking, fact checking and back checking it.

So it's frustrating but anybody who has worked for the FBI or law enforcement deals or has dealt with it during their whole career because somebody is always questioning if something happened or not. And then there are agendas of people who use conspiracy theories to make money.


Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life?

Matthew Hoke: I gave numerous talks about United 93 and my partners who were there have done the same. It's not something I think about everyday anymore, but it's something that I think about a lot. I wish we didn't require a disaster like 9/11 for our country to come together and cross political disagreements. And I'll never forget the strength and bravery of the victims of United 93, not only did they save the US Capitol or the White House, they also saved hundreds of lives in downtown Washington DC. I cannot even put to words the amount of respect I have for them.

In the United States we were spoiled, because we didn't have terrorism in the back of our minds. Before 9/11 very few US citizens thought of terrorism as a threat to their daily lives. I worked a lot with NCA in the UK, NABU in Ukraine and the Indonesian National Police; terrorism is something they live with everyday and have for a long long time. I think from 9/11 we became a safer country with respect to terrorism and taking the necessary steps to combat it. It is a part of our history and it will always be a tragedy. We are unfortunate that it happened but we now pay more attention than we used to.

United 93: intervista all'ex agente dell'FBI Matthew Hoke

di Leonardo Salvaggio. L'originale in inglese è disponibile qui.
Per il ventiduesimo anniversario degli attentati dell'11/9, Undicisettembre offrei ai suoi lettori il racconto personale dell'ex agente dell'FBI Matthew Hoke che intervenne sulla scena dello schianto del volo United 93 a Shanksville.

Ringraziamo Matthew Hoke per la sua cortesia e disponibilità.




Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che ti è successo l'11 settembre?

Matthew Hoke:
L'11 settembre ero il coordinatore della Task Force sui crimini violenti e sulla droga di Huntington nel West Virginia, era diretta dall'FBI e comprendeva anche agenti della polizia locale e statale. Stavamo seguendo un gruppo di persone dal comportamento insolito, noleggiavano un'auto dall'aeroporto vicino a noi di venerdì, guidavano per circa 5.000 chilometri e restituivano l'auto di lunedì; è tanta strada e l'hanno fatto varie volte. Dovevo fare un'ora di strada in macchina per andare al lavoro tutti i giorni, stavo ascoltando una stazione radio nazionale quando dissero che un aereo aveva colpito una delle torri del World Trade Center. Da quanto sentii alla radio sembrava che fosse un piccolo aereo a elica, quindi non ci pensai molto.

Mentre entravo nel parcheggio del mio ufficio, che era una sede periferica senza insegne perché facevamo molte operazioni sotto copertura come comprare droga e cose del genere, il secondo aereo si schiantò contro la Torre Sud. Come tutti gli altri, capimmo che avevamo a che fare con qualcosa che non era un semplice aereo a elica che aveva colpito il World Trade Center. Al tempo non avevamo i cellulari, ma c'erano i cercapersone. Facevo parte dell'Evidence Response Team, che è un'attività volontaria collaterale dell'FBI, e ricevetti un messaggio che mi diceva di fare i bagagli perché saremmo andati a New York per due settimane.

Tornai a casa in fretta e mentre stavo facendo le valigie ricevetti un altro messaggio che diceva che un aereo si era schiantato in un campo a Shanksville, in Pennsylvania, e che saremmo andati lì perché Shanskville si trova nella divisione di Pittsburgh, che era il mio quartier generale, del territorio dell'FBI. Andammo subito a Shanksville, eravamo un gruppo di dodici o quattordici agenti, di solito ci vogliono cinque o sei ore di guida ma ci arrivammo in quattro ore.

Il volo United 93 si era schiantato in un campo aperto che era una vecchia miniera a cielo aperto, su un promontorio c'erano ancora i magazzini rimasti vuoti. Percorrendo una strada di circa 400 metri attraverso i boschi si raggiungeva il campo dove si era schiantato l'aereo. Il luogo dell'incidente era a un paio di centinaia di metri dall'inizio del bosco, appena fuori dalla strada. Quando arrivammo nel primo pomeriggio c'erano già circa trecento persone e vari edifici allestiti; c'erano la Croce Rossa e l'Esercito della Salvezza, ripetitori per i cellulari, tende con aria condizionata, e le persone sul luogo stavano già raccogliendo le prove dalla scena del crimine.

Ciò a cui mi stavo preparando mentre guidavo era un incidente aereo, ma l'aereo, come abbiamo scoperto, andava così veloce e con un'angolazione tale che quando colpì il terreno la terra si alzò in aria e atterrò sui resti dell'aereo. Quindi non si vedeva ciò che normalmente si vede in un incidente aereo. Chiunque non abbia mai lavorato a qualcosa di simile, non avrebbe pensato che ci fosse stato un incidente aereo in quel luogo. Si vedeva il contorno delle ali dove si era spostata la terra, ma non si vedevano grossi pezzi dell'aereo. Ci diedero piste da seguire per cercare i resti. Sull'aereo c'erano grossi pacchi postali, c'erano lettere e carta sparsi ovunque; gli oggetti più lontani che trovammo erano in giardini privati a otto miglia di distanza, questi oggetti erano finiti nella corrente a getto ed erano stati lanciati lontano.


Quello fu l'inizio, facemmo questo per quattordici giorni. Vennero allestiti un obitorio e una stanza dove venivano raccolte le evidenze. L'obiettivo principale della mia squadra non era solo quella di trovare evidenze, ma anche di trovare le due scatole nere: la scatola dei dati e la scatola delle registrazioni vocali. Iniziammo a cercarle e trovammo la scatola di registrazione vocale a 12 metri di profondità e la scatola dati a 8 metri di profondità.

Contemporaneamente erano in corso gli scavi. Gli oggetti pesanti come i motori e i passaruota non si erano frantumati come la fusoliera, erano stati gettati lontano e trovammo un motore in uno stagno a un quarto di miglio di distanza. Nel periodo che passammo lì facemmo cose incredibili che mostrarono cosa sappiamo fare quando ci liberiamo della burocrazia e ci concentriamo sul fare le cose in concreto. Dopo l'11 settembre piovve per alcuni giorni, quindi la strada dal magazzino al luogo dell'incidente divenne fangosa e i veicoli avevano difficoltà a entrare e uscire; me ne andai una sera e quando tornai il giorno dopo trovai che la strada era stata asfaltata durante la notte. Cose del genere, che normalmente non si vedono, lì accadevano; tutto veniva fatto molto velocemente.


Undicisettembre: Quanto tempo sei rimasto lì a cercare evidenze sulla scena?

Matthew Hoke: La scena del crimine è durata due settimane. In quelle due settimane facemmo molte cose, arrivò l'Evidence Response Team da cinque diverse divisioni, non solo dalla divisione di Pittsburgh ma anche da quella di Cincinnati, una squadra dal Tennessee, una da Chicago e una da Cleveland. Eravamo in molti, ogni squadra aveva il suo compito e siccome noi eravamo la squadra della divisione in cui è avvenuto l'incidente, eravamo responsabili della gestione del luogo dell'incidente. Un'altra squadra era responsabile dei boschi andati a fuoco a causa del carburante degli aerei e il loro compito era più difficile per via dell'odore e del pericolo dato dall'aria che respiravano.

Eravamo in un campo all'aperto ed estraevamo tonnellate e tonnellate di terra che poi veniva setacciata, c'era un macchinario enorme che la divideva in pezzi da un centimetro e mezzo, da lì veniva creato un mucchio che poi veniva diviso in pezzi da meno di un centimetro. Uno dei nostri obiettivi principali era identificare chiunque fosse stato su quell'aereo e alla fine ci riuscimmo, identificammo tutte le vittime e i terroristi grazie al DNA. Ma non c'erano grandi parti di corpo, trovavamo denti o piccoli pezzi di pelle. Poi venivano portati all'obitorio dove iniziava la procedura di identificazione.

Ero felice di essere lì e di essere parte della soluzione, ma allo stesso tempo nessuno di noi sapeva cosa stesse succedendo nel mondo esterno: non sapevamo se stavamo per andare in guerra o se era già iniziata. Tre o quattro giorni dopo che era stata dichiarata la scena del crimine facemmo una piccola rivolta perché non avevamo informazioni; a causa dei rischi per la salute indossavamo le mascherine, quindi non potevamo ascoltare la radio o i notiziari e non ricevevamo aggiornamenti. Volevamo essere informati su quello che stava succedendo, quindi la nostra rivolta consistette nel chiedere di ricevere briefing sulla scena del crimine su quello che stava succedendo nel resto del mondo: lo ottenemmo, iniziarono a informarci due volte al giorno e a darci informazioni su quanto stava succedendo. Ciò rese molto più facile continuare con il nostro lavoro.


Undicisettembre: Cosa sapevate in quelle fasi del motivo per cui l'aereo era precipitato? Avete pensato subito che fosse a causa di una rivolta dei passeggeri?

Matthew Hoke: All'inizio c'erano solo ipotesi. Molte persone della città pensavano che il governo degli Stati Uniti avesse fatto abbattere l'aereo dai jet militari perché era diretto alla Casa Bianca o al Campidoglio. Non ci ho mai creduto.

Cinque giorni dopo, i familiari delle vittime arrivarono sulla scena; in quel momento sapevamo già cosa avevano fatto i passeggeri, erano stati degli eroi, coraggiosi e forti come nessun altro. Quando arrivarono le loro famiglie, si rivelarono altrettanto forti. Pochi piangevano, c'era tristezza ma anche orgoglio. Tenemmo una cerimonia con le famiglie sul promontorio dove si trovava il posto di comando. Rimasi molto colpito dalla forza di quelle famiglie e ci spinse a fare il miglior lavoro possibile, che si trattasse di setacciare o qualunque altra cosa, furono per noi fonte di ispirazione.

Sono andato al memoriale nel 2019 per la prima volta, mi ci sono voluti 18 anni per decidermi, sono andato con uno dei miei amici che era nella divisione di Pittsburgh con me. È stato molto emozionante, e il rispetto per le famiglie e l'ispirazione che ne abbiamo tratto continuano e sono stati rafforzati vedendoli al memoriale.


Undicisettembre: Hai parlato del ritrovamento di pezzi dell'aereo e resti umani, avete trovato anche oggetti, come bagagli o cose che le persone portavano con sé?

Matthew Hoke: Sì, trovammo molti vestiti, foto, documenti di identificazione e cose del genere, ma vennero trovati principalmente nei boschi mentre io ero sul luogo dell'incidente; personalmente non ho trovato molte di quelle cose perché stavo setacciando i detriti che erano stati estratti dal luogo dell'incidente del volo United 93 in cerca di resti umani. Ma abbiamo trovato molti oggetti e identificammo tutto e tutti grazie a ciò che abbiamo trovato e al test del DNA sui resti umani.


Undicisettembre: Hai parlato anche delle scatole nere, le hai viste?

Matthew Hoke: Sì, ero lì quando la mia squadra le ha trovate, era l'obiettivo numero uno all'inizio, le trovammo di notte e furono immediatamente trasportate in aereo a Seattle in modo che potessero essere verificate e che i dati potessero essere estratti. Tutto è successo molto velocemente, non ci sono stati ritardi e abbiamo eliminato tutti i normali problemi amministrativi. È stato impressionante.


Undicisettembre: Hai visto pezzi dell'aereo, hai visto oggetti appartenenti alle vittime, hai visto resti umani, quindi qual è la tua reazione quando senti la gente dire che è stata messa in scena e che nessun aereo si è schiantato lì?

Matthew Hoke: Beh, è frustrante anche solo parlarne. Una cospirazione così grande significherebbe che nessuno ha detto niente in più di vent'anni, è solo una via d'uscita semplice per persone ignoranti. Per ignorante intendo persone che non si prendono il tempo per fare il proprio dovere e trovare fonti di notizie corrette.

Il problema non è limitato all'11 settembre, è un problema generale ed è un brutto momento in questo senso negli Stati Uniti, alcune persone sono pigre per quanto concerne la scelta delle fonti delle informazioni e il modo in cui considerano Vangelo la prima fonte che trovano senza controllare, senza verificare i fatti e verificare a posteriori.

È frustrante, ma chiunque abbia lavorato all'FBI o nelle forze dell'ordine se ne occupa o se n'è occupato prima o poi durante la sua carriera perché qualcuno mette sempre in dubbio se una cosa è successa davvero. E poi ci sono persone che intenzionalmente usano le teorie del complotto per fare soldi.


Undicisettembre: L'11 settembre come influisce sulla tua vita quotidiana?

Matthew Hoke: Ho tenuto molte conferenze su United 93 e i miei colleghi che erano lì hanno fatto lo stesso. Non è più qualcosa a cui penso ogni giorno, ma comunque ci penso molto. Vorrei che non avessimo bisogno di un disastro come l'11 settembre perché il nostro paese si unisse e superasse i disaccordi politici. E non dimenticherò mai la forza e il coraggio delle vittime di United 93, non solo hanno salvato il Campidoglio o la Casa Bianca, ma hanno anche salvato centinaia di vite nel centro di Washington. Non riesco nemmeno a esprimere a parole la quantità di ammirazione che ho per loro.

Negli Stati Uniti eravamo viziati, perché non avevamo in mente il terrorismo. Prima dell'11 settembre pochissimi cittadini statunitensi pensavano al terrorismo come a una minaccia per la loro vita quotidiana. Ho lavorato molto con la NCA nel Regno Unito, la NABU in Ucraina e la polizia nazionale indonesiana; il terrorismo è qualcosa con cui convivono ogni giorno da molto tempo. Penso che dall'11 settembre siamo diventati un paese più sicuro nei confronti del terrorismo e stiamo prendendo le misure necessarie per combatterlo. Fa parte della nostra storia e sarà sempre una tragedia. È una disgrazia che sia successo, ma ora prestiamo più attenzione di prima.

2023/08/28

Visita al Pentagon Memorial

di Leonardo Salvaggio

Dopo quattro viaggi a New York nel post-11/9, mi sono finalmente deciso che fosse tempo di andare anche a Washington a vedere dal vivo un altro dei luoghi dove i terroristi hanno compiuto il loro scempio l'11 settembre del 2001. Sono arrivato due giorni prima rispetto a quando avevo pianificato di andare al Pentagono, così da dedicare la prima parte della permanenza a scoprire questa città così accogliente e al contempo così seria e presidenziale, dove ogni metro quadro del terreno ricorda in qualche modo le importanti istituzioni che vi hanno sede. Tutto è vicino a Washington DC, dal Campidoglio alla Casa Bianca ci sono solo pochi chilometri e qualunque degli edifici governativi sarebbe raggiungibile a piedi se non facesse così caldo.


Il Pentagono è fuori città, ad Arlington nella Virginia, ma dal centro ci si arriva in pochi minuti di metropolitana. Appena usciti dalla fermata della Metro (che qui si chiama proprio Metro e non Subway come a New York) è facilissimo trovare le indicazioni per il Pentagon Memorial dedicato alle vittime dell'11/9 che si trova nella zona del parcheggio su cui è passato il volo American Airlines 77 prima di schiantarsi contro la facciata dell'edificio.

L'ingresso del cortile in cui è stato allestito il memoriale, inaugurato nel settimo anniversario dell'attentato, è pavimentato, a destra si trova un blocco di granito con la scritta Pentagon Memorial e accanto ad esso un'incisione spiega che quel terreno è dedicato alle 184 vittime e alla loro memoria. Di fronte si trova un blocco anch'esso di granito che riporta i nomi delle vittime. Superato l'ingresso si arriva nel cortile su cui sono state poste delle panchine (chiamate benches anche in inglese, anche se è ovvio che non servano a sedersi) in ricordo delle vittime, sul fianco di ciascuna è riportato il nome di una delle persone che hanno perso la vita nell'attentato.


Non ci sono guide, chiedo quindi al personale delle pulizie alcuni dettagli e mi spiegano perché alcune delle panchine sono rivolte verso il Pentagono, mentre altre sono rivolte verso la strada sorvolata dal Boeing 757: quelle per le quali bisogna guardare verso l'edificio per leggere il nome inciso sono dedicate alle persone che lavoravano al Pentagono, quelle per cui bisogna volgersi verso la strada sono dedicate ai passeggeri del volo. Le panchine sono nello stesso numero delle vittime, una per ciascuna, e sono disposte in ordine di età dalla vittime più giovane alla più anziana. Per i membri delle famiglie che viaggiano insieme su ciascuna panchina sono riportati al suolo anche i nomi dei familiari della persona a cui la panchina stessa è dedicata.


Una cosa che mi ha colpito, non solo al memoriale ma in tutta la zona attorno al Pentagono, è il silenzio: si sentono solo i motori delle auto, i rumori della strada e piccoli gruppi di persone cha parlano a bassa voce, come se il silenzio volesse ancora sottolineare l'orrore compiuto in quel luogo e la memoria di chi lì a perso la vita. E se paragonato al memoriale al World Trade Center di New York, questo silenzio contrasta parecchio, perché al contrario downtown Manhattan si è sforzata e si sforza tuttora di essere un posto pieno di vita e, conseguentemente, di rumore.

Il cortile è alberato, ricco di lagerstroemie che servono a offrire un po' di ombra senza cui non si potrebbe resistere più di cinque minuti, ma sembrano anche avere un altro scopo: quello di rendere impossibile fotografare il Pentagono nel tentativo di scattare foto al memoriale; perché fotografare all'edificio in sé è vietato, come scritto chiaro su vari cartelli.

Un'ultima considerazione. Non mi occupo da anni di teorie del complotto sull'11/9 perché i complottisti sono spariti, ma basta visitare questo luogo per constatare che ciò che veniva raccontato anni fa è falso. Non esiste nessuna collinetta che avrebbe reso impossibile il volo radente. Non è il posto più sorvegliato al mondo, i dipendenti entrano ed escono come in qualunque altro palazzo di uffici. Il Pentagono è sorvolato da aerei ogni pochi minuti per via del Ronald Reagan National Airport che si trova a pochi chilometri. I complottisti, insomma, non si sono neanche presi la briga di venire fin qua.

A una sola fermata di metropolitana di distanza dal Pentagono si trova anche il cimitero nazionale di Arlington che ospita le tombe di personalità importanti quali i fratelli John, Robert ed Edward Kennedy, il presidente William Howard Taft, Colin Powell e molti altri. Oltre ad essi ci sono numerosi importanti monumenti funebri come quelli dedicati alle vittime dell'incidente dell'Apollo 1, dell'esplosione dello Space Shuttle Challenger, del volo Pan Am 103 e quello dedicato all'attentato al Pentagono: un blocco di granito a base pentagonale che riporta i nomi di tutte le vittime sulle cinque facciate verticali. Il monumento è stato posto un anno dopo gli attentati, quando una cerimonia funebre è stata tenuta presso il cimitero

Il memoriale al cimitero di Arlington

Il ricordo di quel giorno non è limitato ad Arlington, ma ha lasciato molte altre tracce in tutta la capitale. Ad esempio, anche nell'International Spy Museum c'è un'intera sezione dedicata alla missione che uccise Osama bin Laden, l'11/9 è ampiamente trattato anche nella parte dedicata agli errori di intelligence e una stanza intera è dedicata a trattare, con toni molto critici, le tecniche di interrogatorio usate sui terroristi dopo gli attentati.

La missione che uccise Osama bin Laden rappresentata all'International Spy Museum

La città di Washington offre anche un'altra riflessione su quanto accaduto l'11/9, che però non c'entra con il Pentagono. L'obiettivo del volo United 93, caduto a Shanksville a seguito della rivolta dei passeggeri, era con ogni probabilità il Campidoglio e non la Casa Bianca, troppo bassa e piccola per essere colpita da un aereo dirottato guidato da un pilota poco esperto.

Oltre a tutto questo la città offre tantissimo altro e sicuramente il tempo che ci ho passato non è bastato a vedere tutto ciò che avevo programmato. Dovrò tornarci, e tornare al memoriale al Pentagono anche nella prossima visita a questa capitale che è una dei baluardi della democrazia nel mondo e che ventidue anni fa ha retto al più grave attentato terroristico della storia.

2023/07/19

Intervista al vice direttore esecutivo della 9/11 Commission Christopher Kojm

di Leonardo Salvaggio

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista al vice direttore esecutivo della 9/11 Commission Christopher Kojm, che durante l'amministrazione Obama è stato anche presidente del Consiglio Nazionale di Intelligence. Nell'intervista parliamo di come la commissione ha lavorato, dei vincoli che ha dovuto affrontare e degli errori di intelligence che hanno consentito ai terroristi di svolgere il loro piano.

L'intervista è disponibile solo in inglese.


2023/06/30

Quanto tempo serve ad affiancare un aereo che non risponde alle comunicazioni? Il caso del Cessna 560 schiantatosi in Virginia lo scorso 4 giugno

di Leonardo Salvaggio

Il 4 giugno scorso un Cessna privato diretto dal Tennessee a Long Island si è schiantato in una zona montuosa della Virginia; il velivolo apparteneva alla Encore Motors of Melbourne, società di volo della Florida di proprietà di John e Barbara Rumpel. Sul Cessna volavano, oltre al pilota Jeff Hefner, la figlia dei proprietari Adina Azarian, la figlia di quest'ultima Aria Azarian e la baby sitter Evadnie Smith. Tutti gli occupanti del volo sono morti nello schianto.

Fonte: NTSB

Questo drammatico caso di cronaca è utile a dipanare uno dei dubbi avanzati dai sostenitori delle teorie del complotto su quanto accaduto l'11 settembre 2001, ovvero quanto tempo serva per affiancare un aereo che non risponde alla comunicazioni. Abbiamo già spiegato in passato su questo blog come la teoria secondo cui i caccia militari di norma affiancano aerei non responsivi in pochi minuti sia del tutto infondata; il caso recente del Cessna della Encore Motors mostra come questo sia ancora vero anche oltre vent'anni dopo gli attentati.

Il Cessna 560 Citation V schiantatosi il 4 giugno era partito da Elizabethton, nel Tennessee, alle 13:15 EDT (orario della costa orientale durante i mesi estivi) diretto al Long Island MacArthur Airport di Ronkonkoma, nello stato di New York. Per i primi tredici minuti le comunicazioni tra il pilota e i controllori di volo si sono svolte regolarmente, fino a quanto alle 13:28 i controllori dell'Atlanta Air Route Traffic Control Center hanno tentato di contattare il pilota per dargli istruzioni circa l'altitudine che avrebbe dovuto tenere senza ottenere risposta. I controllori hanno quindi tentato varie volte di contattare nuovamente il pilota, ma nessun tentativo ha avuto successo. Il velivolo ha continuato a volare verso Long Island, ma una volta arrivato sulla penisola anziché prepararsi all'atterraggio ha virato tornando verso il luogo da cui era partito. Durante il percorso, alle 15:05, il Cessna ha attraversato nella Special Flight Rules Area (zona con regole speciali per il sorvolo) sopra a Washington.

Non è ancora del tutto chiaro a che ora siano decollati i caccia inviati dalle basi del New Jersey, della North Carolina e del Maryland (che è la stessa da cui l'11/9 partirono i caccia che tentarono di intercettare il volo United 93). Secondo il Washington Examiner gli F-16 sarebbero decollati intorno alle 15, dopo il sorvolo della capitale da parte del Cessna; al contrario secondo il Washington Post gli F-16 sarebbero partiti alle 14:35. In ogni caso poco dopo l'attraversamento dello spazio aereo sopra la capitale, molti abitanti della zona riportarono di aver udito il sonic boom (boato causato dal superamento della barriera del suono) che è stato anche registrato da molti video di telecamere di sicurezza poi pubblicati sui social network. Il volo supersonico non è una procedura standard, i caccia hanno quindi dovuto ottenere questa specifica autorizzazione.

I caccia hanno affiancato il Cessna alle 15:20 trovando il pilota svenuto e non responsivo. Tentarono comunque di risvegliarlo usando dei flare (strumenti pirotecnici di norma utilizzati per ingannare sensori ottici a guida infrarossa) ma senza successo. Il Cessna si è schiantato sulle montagne dieci minuti dopo, negli ultimi istanti di volo ha intrapreso una traiettoria a spirale e ha colpito il suolo di punta.

Al momento le indagini dell'NTSB e dell'FAA sono ancora in corso, il rapporto preliminare dell'NTSB specifica che il velivolo aveva una sola scatola nera, il Cockpit Voice Recorder, perché il Flight Data Recorder non è previsto per questo tipo di voli. La scatola nera in ogni caso non è ancora stata rinvenuta. Dai primi pareri degli investigatori dell'NTSB la causa più probabile sembra essere la perdita di pressione, in seguito alla quale il pilota ha perso conoscenza per via della mancanza di ossigeno.

Questo tragico evento conferma quindi che contrariamente a quanto sostenuto dai complottisti non bastano pochi minuti per affiancare un aereo che non risponde alle comunicazioni, ma serve molto più tempo. Nel caso del Cessna 560 schiantatosi il 4 giugno 2023, sono servite quasi due ore.



Fonti:

2023/05/28

Storia del NORAD: dalla guerra fredda all'11/9

di Leonardo Salvaggio


Il North American Aerospace Defense Command, meglio noto con l'acronimo NORAD, è l'ente binazionale di Stati Uniti e Canada preposto alla sicurezza dello spazio aereo delle due nazioni. Le sue radici risalgono alla fine degli anni 40, quando la minaccia sovietica data dai bombardieri a lungo raggio e dallo sviluppo di armi atomiche portò i due stati a unire le forze per creare un sistema di sorveglianza e allerta. Il primo sforzo di cooperazione prevedeva la realizzazione di tre linee di stazioni radar che attraversavano il Canada da est a ovest per prevenire attacchi provenienti dal Polo Nord: la Pinetree Line nel Canada meridionale, la McGill Fence (altresì della Mid-Canada Line) più a nord e la DEW Line oltre il circolo polare. La difesa da attacchi dall'Atlantico o dal Pacifico sarebbe stata garantita dalle forze USA grazie alle navi della marina o da piattaforme radar offshore. Il sistema così congegnato avrebbe consentito di individuare un velivolo nemico con un anticipo di circa tre ore prima che potesse giungere a un centro abitato, dando così il tempo per l'identificazione e l'intercettazione.


Parallelamente, i due stati iniziarono a collaborare su un piano comune di difesa aerea grazie alla collaborazione sempre più fitta tra la United States Air Force e la Royal Canadian Air Force, con la seconda che spostò un proprio gruppo di relazione alla Ent Air Force Base della U.S. Air Force in Colorado. L'alleanza sempre più stretta tra Stati Uniti e Canada per la difesa aerea portò quindi alla creazione di un ente congiunto il cui nome iniziale era North American Air Defense Command, che adottò da subito l'acronimo NORAD, la cui nascita venne annunciata l'1 agosto del 1957, pochi giorni dopo il completamento delle tre linee di radar in Canada, e le cui operazioni iniziarono il 12 settembre successivo.

Dalla fondazione del NORAD, vista la crescente minaccia da parte dell'Unione Sovietica, la spesa pubblica dei due paesi per la sicurezza aerea aumentò e nel 1960 circa 250.000 persone, tra statunitensi e canadesi, lavoravano a qualche livello in attività legate al NORAD. Tuttavia già dai primi anni sessanta il contesto internazionale cambiò con lo sviluppo di missili balistici intercontinentali che di fatto rendevano il sistema di radar obsoleto, perché poteva essere del tutto scavalcato dai nuovi armamenti. La U.S. Air Force sviluppò quindi sistemi di sorveglianza spaziale e di allarme missilistico a livello mondiale che appena entrati in esercizio passarono sotto il controllo del NORAD. Nello stesso periodo vennero aperti due centri operativi sotterranei, uno nella Cheyenne Mountain, vicino a Colorado Springs, e il secondo a North Bay, nell'Ontario.

Ingresso della sede di Cheyenne Montain. Fonte: NORAD

Negli anni 70 l'accettazione del concetto di mutua vulnerabilità (cioè il principio in base a cui in caso di attacco nucleare, l'attaccante subirebbe una ritorsione pari al danno inflitto) portò a una diminuzione dell'attenzione alla sicurezza aerea con conseguenti tagli di fondi e la dismissione di parte dell'infrastruttura che nel frattempo era diventata obsoleta. Alla fine del decennio si verificarono anche due falsi allarmi. Il 9 novembre del 1979 un tecnico inserì un nastro con degli scenari di test, ma dimenticò di mettere il sistema in stato TEST causando così l'invio di veri allarmi verso le basi aeree; inoltre il 3 e il 6 giugno del 1980 un malfunzionamento causò l'invio di notifiche di attacco nucleare a varie sedi della U.S. Air Force nel mondo.

Tuttavia il calo di interesse durò poco e verso la fine degli anni 70 le due nazioni avviarono uno studio noto come Joint US-Canada Air Defense Study (JUSCADS) per valutare quali fossero le minacce aeree del tempo e come far loro fronte. Lo studio evidenziò le lacune del sistema e, al termine della valutazione, il congresso americano ordinò alla U.S. Air Force di redigere un piano per un nuovo sviluppo della difesa aerea. Il piano previde la sostituzione della DEW Line con un sistema radar artici più moderni chiamato North Warning System, lo sviluppo di radar Over-the-Horizon che consentono di superare la curvatura terrestre, l'utilizzo di caccia più avanzati e un incremento dell'uso del sistema radar aviotrasportato AWACS. Inoltre, visto il cambio di missione dalla difesa dei confini all'intero spazio aereo, l'organizzazione cambiò il proprio nome in North American Aerospace Defense Command (cioè sostituendo Air con Aerospace), mantenendo inalterato l'acronimo.

Negli anni 80 l'Unione Sovietica continuò a sviluppare i propri missili cruise che ponevano una nuova seria minaccia ai sistemi difensivi del NORAD perché potevano viaggiare a velocità subsonica e a bassa altitudine così da evitare di essere rilavati dai radar. Per far fronte a questo pericolo, il NORAD si dotò di cinque basi che avevano lo scopo di individuare missili o velivoli armati che provenissero dall'esterno prima che giungessero sul continente americano.

Con il crollo dell'Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, su iniziativa del Presidente Reagan, il NORAD estese il proprio ambito di azione all'antidroga intercettando piccoli velivoli e cooperando con le forze di polizia locali.

L'11 settembre portò ovviamente un nuovo sconvolgimento, il NORAD si trovò a fronteggiare una situazione imprevista con il dirottamento di aerei dall'interno; una procedura di emergenza nota come SCATANA prevedeva che il NORAD potesse prendere il controllo dello spazio aereo in caso di emergenza, ma non venne attuata proprio perché lo scenario previsto era notevolmente diverso. Da allora il NORAD coordina l'operazione Noble Eagle che si occupa della sicurezza del territorio in collaborazione con agenzie federali, statali e locali, tenendo conto anche del nuovo scenario di dirottamenti dall'interno.

Fonte: NORAD

L'ultimo decennio ha visto il passato ritornare con l'attività militare sovietica a livelli che non si vedevano dagli anni 80 che sta portando il NORAD a nuovi incrementi delle proprie dotazioni e tecnologie.

Il NORAD ha anche ereditato dalla sua fondazione un programma che apparteneva a un preesistente ente statunitense chiamato CONAD (Continental Air Defense Command), cioè il NORAD tracks Santa, ovvero la simulazione del tracciamento della slitta di Babbo Natale che il 24 dicembre dal Polo Nord entra nello spazio aereo di Stati Uniti e Canada per portare i doni ai bambini.

In un incontro del febbraio di quest'anno, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin e il Ministro della Difesa del Canada Anita Anand hanno ribadito l'importanza di dotare il NORAD di infrastrutture e di sistemi sempre più moderni per garantire la sicurezza dei due paesi nell'affrontare nuove sfide, come i palloni sonda cinesi che recentemente hanno violato lo spazio di entrambe le nazioni. Il NORAD, che a breve compirà sessantacinque anni, è quindi ancora cruciale per la sicurezza del due paesi e per la loro imprescindibile alleanza.



Fonti:

2023/05/18

La chiesa greco-ortodossa di Saint Nicholas distrutta nel crollo delle torri

di Leonardo Salvaggio


Tra gli edifici distrutti l'11 settembre 2001 nel crollo dei grattacieli del World Trade Center ce n'è uno di cui si parla poco, nonostante fosse il più antico della zona, risalente al 1830 circa. Appena a sud delle Torri Gemelle, separata dal complesso da Liberty Street, sorgeva infatti la chiesa greco-ortodossa di Saint Nicholas che venne schiacciata dal crollo della Torre Sud quando al suo interno non c'era più nessuno.

Nel 1916 un gruppo di greci ortodossi di New York fondò nella punta meridionale di Manhattan la congregazione della Saint Nicholas Greek Orthodox Church; dapprima i fedeli si riunivano per il culto nel ristorante di un albergo di Morris Street, fino a quando nel 1919 cinque famiglie raccolsero 25.000 dollari con cui comprarono una taverna al numero 155 di Cedar Street per convertirla in una chiesa. L'edificio di quattro piani era stato costruito nel quarto decennio del 1800 come condominio residenziale.

La nuova chiesa iniziò a funzionare come luogo di culto nel 1922 e dapprima si trovava in mezzo ad altri due edifici abitativi, quando poi il quartiere venne demolito per lasciare spazio al World Trade Center la chiesa si ritrovò ad essere una costruzione indipendente con l'ingresso pedonale sul lato nord, quello rivolto alle torri, e il parcheggio sugli altri tre lati. Dalla fondazione la comunità di Saint Nicholas era vetero-calendarista e solo dal 1993 adottò il calendario gregoriano.

La chiesa era di soli 6,7 metri, per 17, per 11 di altezza e al suo interno erano custodite reliquie, piccoli frammenti ossei, di San Nicola di Bari, Santa Caterina d'Alessandria e San Saba Archimandrita che erano state donate alla comunità dall'ultimo Zar Nicola II e che ovviamente andarono disperse nel crollo delle torri.

Dopo l'11 settembre i parrocchiani di Saint Nicholas si unirono alla comunità della Saints Constantine and Helen Greek Orthodox Cathedral a Brooklyn dove rimasero per più di vent'anni fino a luglio del 2022, quando la nuova Saint Nicholas, costruita a partire dal 2014, venne consacrata e inaugurata sul lato meridionale dello stesso isolato che ospitava la costruzione precedente. La nuova chiesa è stata disegnata dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava e, per via delle quattro torri ai vertici, si ispira a Santa Sofia e alla Chiesa di San Salvatore in Chora, entrambe a Istanbul.

La nuova chiesa di Saint Nicholas aperta nel 2022

Non erano quindi tutti moderni i palazzi distrutti nell'attentato, e il fatto che la città di New York abbia voluto ricostruire anche questa piccola chiesa conferma quanto sia stato grande lo sforzo di far rinascere ogni pezzo, piccolo e grande, del World Trade Center di Manhattan.


Fonti:

2023/05/04

Pubblicate foto inedite della war room alla Casa Bianca durante la missione che uccise Osama bin Laden

di Leonardo Salvaggio

In occasione del dodicesimo anniversario della missione che uccise Osama bin Laden, il Washington Post ha ottenuto tramite una richiesta Freedom of Information Act e Presidential Records Act oltre 900 foto scattate alla Casa Bianca in quegli attimi concitati. Le foto sono di proprietà della Obama Presidential Library, che è una delle biblioteche presidenziali gestite dalla National Archives and Records Administration, ente federale preposto a conservare documenti storici e governativi. Le foto sono state scattate quasi interamente da Pete Souza, capo dei fotografi ufficiali della Casa Bianca durante le amministrazioni Reagan e Obama.

Una delle foto della situation room pubblicate dal Washington Post

Inizialmente il Washington Post ha ricevuto, dopo 376 giorni dalla richiesta, un PDF che contiene le foto a bassa risoluzione, senza metadati né riferimenti temporali; a seguito di un'ulteriore richiesta il giornale ne ha quindi ricevuto un insieme più ristretto ad alta risoluzione e con i timestamp. La Obama Presidential Library ha comunque trattenuto altre 307 foto, sostenendo che si tratti di materiale riservato che potrebbe compromettere la sicurezza nazionale. Il Washington Post ha quindi incrociato le foto con i riferimenti temporali al racconto dello stesso Obama contenuto nell'autobiografia A Promised Land del 2020 (pubblicata in Italia con il titolo Una Terra Promessa) e alla ricostruzione del giornalista Garrett M. Graff pubblicata sul quotidiano della capitale Politico realizzata attraverso interviste con i protagonisti della war room che dalla Casa Bianca seguiva quanto avveniva ad Abbottabad.

Fino ad oggi di quel set di foto ne era stata pubblicata una sola molto celebre: quella con Obama proteso in avanti con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e Hillary Clinton con la mano davanti alla bocca come a voler soffocare la propria stessa tensione emotiva. Dal confronto di questa foto con quelle nuove emergono dettagli interessanti. La prima cosa che si nota è che l'azione alla Casa Bianca non si è svolta in una stanza sola. Alcune immagini sono infatti state scattate in una grande situation room, di cui si vedono i maxischermi su almeno due lati, in cui sono riunite circa trenta persone tra lo staff presidenziale e i vertici degli apparati di intelligence e militari. Altre foto al contrario (tra cui quella pubblicata nel 2011) sono state scattate in una stanza più piccola con un gruppo di sole quindici persone su richiesta dello stesso Obama che decise di spostarsi in un ambiente più ristretto per poter seguire con maggiore attenzione le fasi cruciali. Per scattare questa foto Souza ha faticato a trovare posto nella stanza dovendosi mettere a ridosso di una delle stampanti. Tra l'altro, sia nella versione del 2011 sia in questo nuovo lotto, nell'unica foto precedentemente pubblicata i documenti davanti a Hillary Clinton sono stati resi illeggibili digitalmente.

L'unica foto pubblicata nel 2011

Dalle foto pubblicate si nota anche molto la distensione sui volti dei protagonisti dal momento in cui dal Pakistan arrivò la comunicazione enemy killed in action. Se fino ad allora Obama e il resto dello staff è teso nel visualizzare lo svolgersi dell'azione, da lì in avanti inizia a vedersi qualche sorriso e qualche viso più disteso.

Obama si congratula con il Segretario alla Difesa, l'ambiente inizia a essere più rilassato.

Le nuove foto mostrano anche quanto Obama non si curasse particolarmente della forma. Durante la war room infatti indossa lo stesso abbigliamento con cui quella mattina era andato a giocare a golf: una polo, dei pantaloni chiari e una giacca leggera con il sigillo del Presidente degli Stati Uniti. Per l'annuncio pubblico non solo si è cambiato in un abito scuro, come è più che ovvio, ma ha cambiato anche orologio, passando da uno con cinturino di gomma a uno più classico con cinturino in pelle.

Il New York Times fa notare la differenza di stile con la war room del Presidente Trump durante la missione che uccise il leader dell'ISIS al-Baghdadi nel 2019 in cui l'allora presidente indossava l'abito classico formale già durante la missione, le foto sono in posa e Trump occupa il posto principale al tavolo, sul lato corto, sotto al sigillo del Presidente degli Stati Uniti. Anche le persone attorno a Trump indossano il vestito, mentre nel caso delle foto di Obama molti non hanno la cravatta o hanno tolto la giacca.

Queste foto pubblicate dal Washington Post mostrano quindi il lato più umano di un evento di importanza mondiale; mostrano l'ansia e la distensione di persone tra le più influenti del pianeta nel coordinare e condurre una missione di vitale importanza e che davanti a questa situazione affrontano problemi quotidiani come lo stress e il dover trovare un posto adeguato per il proprio lavoro. Non è chiaro quale problema di sicurezza nazionale si sarebbe creato con la pubblicazione delle foto rimaste secretate, non è comunque escluso che in futuro vengano rilasciate anche quelle vista la tendenza alla trasparenza che contraddistingue l'attuale amministrazione americana.

2023/04/13

Intervista al membro della 9/11 Commission Miles Kara

di Leonardo Salvaggio

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista al membro della 9/11 Commission Miles Kara. Nel video parliamo della reazione dell'FAA e del NORAD e di aspetti poco noti degli attentati, ad esempio del perché Mohamed Atta e Abdulaziz al-Omari siano andati da Boston a Portland per prendere un aereo che li riportasse a Boston, da cui si sono imbarcati sul volo American Airlines 11.

L'intervista è disponibile solo in inglese.

2023/04/09

Il documentario di TMZ sulla teoria del quinto aereo

di Leonardo Salvaggio

Lo scorso 20 marzo il network televisivo FOX ha trasmesso un documentario realizzato in collaborazione con TMZ intitolato TMZ Investigates - 9/11 - The Fifth Plane secondo cui la mattina dell'11 settembre 2001 i terroristi di al-Qaeda cercarono di dirottare un quinto aereo, in partenza dall'aeroporto JFK di New York e diretto a Los Angeles, ma non riuscirono nel loro intento perché lo spazio aereo venne chiuso prima che l'aereo potesse decollare. Il volo in questione era il numero 23 della United Airlines e si trattava di un Boeing 767, come i due voli che si schiantarono contro le Torri Gemelle.


Il documentario propone le testimonianze di quattro persone dell'equipaggio: il capitano Tom Manello, le assistenti di volo Barbara Brockie Smaldino, che seguiva la classe economica, e Sandy Thorngren, che seguiva la classe business, e la responsabile degli assistenti di volo Deborah che non si mostra in viso e che non rivela il proprio cognome. I quattro membri dell'equipaggio ricordano di aver visto sull'aereo quattro persone dall'aspetto mediorientale che ebbero comportamenti sospetti: un uomo che viaggiava con un bambino di circa otto anni e che chiese di poter mostrare al figlio la cabina di pilotaggio, una persona che indossava un burqa e che secondo il personale di volo era un uomo travestito da donna, un uomo che viaggiava accanto alla persona con il burka e che aveva l'aspetto di un bodyguard e un uomo che indossava una t-shirt e che sudava copiosamente nonostante la temperatura fresca. L'uomo con il bambino ebbe una discussione con gli assistenti di volo per via di un possibile ritardo alla partenza dovuto alla difficoltà nel reperire frutta da dar loro durante il volo in sostituzione del pasto che prevedeva carne di maiale.

In realtà già arrivati a questo punto emerge come la teoria del quinto aereo sia debole, perché non corrisponde affatto con quanto compiuto dalle altre quattro squadre che hanno dirottato i voli con cui sono stati condotti gli attentati. Nessun terrorista si è imbarcato sull'aereo con un bambino e nessuno avrebbe fatto un gesto folle tipo mascherarsi da donna. È sicuramente vero che indossare un burka per compiere un attentato è una pratica usata dai terroristi, ma in tutt'altro contesto, ad esempio per farsi esplodere in un mercato, non certo su un aereo dove si deve essere identificati e dove si rischia solo di attirare l'attenzione su di sé qualora si destassero sospetti. Riguardo all'uomo con la t-shirt, non si capisce come il fatto di sudare abbondantemente possa essere considerato un indizio che indichi che si trattasse di un terrorista; magari aveva corso trasportando bagagli pesanti, in ogni caso era pur sempre una mattina di fine estate, per quanto fresca, e non c'è nulla di strano nel sudare. All'uomo con il bambino non fu permesso di vedere la cabina di pilotaggio perché nel 2001 non era più consentito, i due si avvicinarono quindi alla porta per guardare dentro: di nuovo non si spiega perché un terrorista dirottatore dovrebbe fare una cosa del genere prima del decollo, in modo da attirare sospetti e attenzione su di sé.

In ogni caso il volo fu bloccato prima che potesse partire e il personale di volo segnala altre stranezze successive. Dopo che tutti gli aerei vennero evacuati, venne trovata aperta una botola sul pavimento che consentiva di accedere all'aereo passando da un locale tecnico e alcune persone furono viste bordo di United 23. Questi dettagli sono in ogni caso aneddotici, nessuno dei membri del personale ha visto niente di ciò con i proprio occhi, ma lo ha sentito raccontare. I membri dell'equipaggio ipotizzano che la botola sia stata aperta da qualcuno dopo l'evacuazione per salire sul velivolo e far sparire eventuali prove dell'intenzione di compiere un dirottamento, ad esempio i tagliacarte che i terroristi avrebbero potuto avere con sé. L'ipotesi prevede che ci sia stata complicità da parte del personale aeroportuale. Anche in questo caso le indicazioni in favore della teoria del quinto aereo sono debolissime. Anzitutto non si capisce perché una botola aperta debba essere indice di un tentativo di dirottamento: può essere stato un guasto alla chiusura, può essere stata aperta per ispezionare il vano tecnico sottostante o per qualunque altro motivo. Il capitano riporta inoltre che dopo l'ispezione dei velivoli due tagliacarte furono trovati su un aereo il cui numero identificativo (tail number) differisce di una sola cifra da quello di United 23, secondo il capitano questo potrebbe significare che del personale di terra complice dei terroristi potrebbe aver piazzato i tagliacarte sull'aereo sbagliato, intendendo invece metterli sul suo aereo. La teoria del capitano è molto forzata, prevede comunque un errore grossolano da parte dei terroristi e anche uno scenario del tutto diverso da quello degli altri voli, per i quali i dirottamenti non hanno previsto il coinvolgimento di personale aeroportuale alleato dei terroristi.

Il documentario suggerisce che il caso non sia stato valutato opportunamente dagli inquirenti. In realtà la 9/11 Commission ha indagato altri possibili tentativi di dirottamento, il più noto dei quali è il volo Delta Air Lines 1989, e negli anni sono emersi altri casi simili, come il volo Korean Air 85, e quindi se ci fosse stato un tentativo concreto di dirottamento sarebbe stato individuato. Inoltre la Commissione ha identificato vari membri di al-Qaeda che furono considerati per la squadra finale che compì gli attentati ma che per diversi motivi non ne fece parte: ad esempio i ben noti Zacarias Moussaoui, il possibile sostituto di Ziad Jarrah, e Mohammed al-Qahtani, il ventesimo dirottatore che avrebbe dovuto prendere parte al dirottamento di United 93, oltre ad altri dodici. Anche l'indagine PENTTBOM dell'FBI ha identificato altri tre terroristi di al-Qaeda che avevano frequentato lezioni di volo (Faisal Mana al-Salmi, Bandar al-Hazmi e Rayad Abdullah), se ce ne fosse stato un altro che prese un volo quella mattina sarebbe stato sicuramente individuato. In ogni caso, il buon senso suggerisce che se al-Qaeda avesse avuto altri muscle hijackers a disposizione quella mattina, ne avrebbe posto uno a completare la squadra di Ziad Jarrah in sostituzione di al-Qahtani: non è infatti un caso che l'unico volo che non ha raggiunto il proprio obiettivo sia stato quello in cui i terroristi erano quattro e non cinque.

La United Airlines non ha mai in questi ventidue anni asserito di aver subito un altro tentativo di dirottamento rispetto a quelli schiantatisi a Shanksville e contro il Pentagono, e anche questo contribuisce a chiudere la discussione. Le prove in favore della teoria del quinto aereo sono deboli e vaghe e in assenza di indicazioni più solide è molto improbabile che United 23 fosse davvero the fifth plane.