2023/05/28

Storia del NORAD: dalla guerra fredda all'11/9

di Leonardo Salvaggio


Il North American Aerospace Defense Command, meglio noto con l'acronimo NORAD, è l'ente binazionale di Stati Uniti e Canada preposto alla sicurezza dello spazio aereo delle due nazioni. Le sue radici risalgono alla fine degli anni 40, quando la minaccia sovietica data dai bombardieri a lungo raggio e dallo sviluppo di armi atomiche portò i due stati a unire le forze per creare un sistema di sorveglianza e allerta. Il primo sforzo di cooperazione prevedeva la realizzazione di tre linee di stazioni radar che attraversavano il Canada da est a ovest per prevenire attacchi provenienti dal Polo Nord: la Pinetree Line nel Canada meridionale, la McGill Fence (altresì della Mid-Canada Line) più a nord e la DEW Line oltre il circolo polare. La difesa da attacchi dall'Atlantico o dal Pacifico sarebbe stata garantita dalle forze USA grazie alle navi della marina o da piattaforme radar offshore. Il sistema così congegnato avrebbe consentito di individuare un velivolo nemico con un anticipo di circa tre ore prima che potesse giungere a un centro abitato, dando così il tempo per l'identificazione e l'intercettazione.


Parallelamente, i due stati iniziarono a collaborare su un piano comune di difesa aerea grazie alla collaborazione sempre più fitta tra la United States Air Force e la Royal Canadian Air Force, con la seconda che spostò un proprio gruppo di relazione alla Ent Air Force Base della U.S. Air Force in Colorado. L'alleanza sempre più stretta tra Stati Uniti e Canada per la difesa aerea portò quindi alla creazione di un ente congiunto il cui nome iniziale era North American Air Defense Command, che adottò da subito l'acronimo NORAD, la cui nascita venne annunciata l'1 agosto del 1957, pochi giorni dopo il completamento delle tre linee di radar in Canada, e le cui operazioni iniziarono il 12 settembre successivo.

Dalla fondazione del NORAD, vista la crescente minaccia da parte dell'Unione Sovietica, la spesa pubblica dei due paesi per la sicurezza aerea aumentò e nel 1960 circa 250.000 persone, tra statunitensi e canadesi, lavoravano a qualche livello in attività legate al NORAD. Tuttavia già dai primi anni sessanta il contesto internazionale cambiò con lo sviluppo di missili balistici intercontinentali che di fatto rendevano il sistema di radar obsoleto, perché poteva essere del tutto scavalcato dai nuovi armamenti. La U.S. Air Force sviluppò quindi sistemi di sorveglianza spaziale e di allarme missilistico a livello mondiale che appena entrati in esercizio passarono sotto il controllo del NORAD. Nello stesso periodo vennero aperti due centri operativi sotterranei, uno nella Cheyenne Mountain, vicino a Colorado Springs, e il secondo a North Bay, nell'Ontario.

Ingresso della sede di Cheyenne Montain. Fonte: NORAD

Negli anni 70 l'accettazione del concetto di mutua vulnerabilità (cioè il principio in base a cui in caso di attacco nucleare, l'attaccante subirebbe una ritorsione pari al danno inflitto) portò a una diminuzione dell'attenzione alla sicurezza aerea con conseguenti tagli di fondi e la dismissione di parte dell'infrastruttura che nel frattempo era diventata obsoleta. Alla fine del decennio si verificarono anche due falsi allarmi. Il 9 novembre del 1979 un tecnico inserì un nastro con degli scenari di test, ma dimenticò di mettere il sistema in stato TEST causando così l'invio di veri allarmi verso le basi aeree; inoltre il 3 e il 6 giugno del 1980 un malfunzionamento causò l'invio di notifiche di attacco nucleare a varie sedi della U.S. Air Force nel mondo.

Tuttavia il calo di interesse durò poco e verso la fine degli anni 70 le due nazioni avviarono uno studio noto come Joint US-Canada Air Defense Study (JUSCADS) per valutare quali fossero le minacce aeree del tempo e come far loro fronte. Lo studio evidenziò le lacune del sistema e, al termine della valutazione, il congresso americano ordinò alla U.S. Air Force di redigere un piano per un nuovo sviluppo della difesa aerea. Il piano previde la sostituzione della DEW Line con un sistema radar artici più moderni chiamato North Warning System, lo sviluppo di radar Over-the-Horizon che consentono di superare la curvatura terrestre, l'utilizzo di caccia più avanzati e un incremento dell'uso del sistema radar aviotrasportato AWACS. Inoltre, visto il cambio di missione dalla difesa dei confini all'intero spazio aereo, l'organizzazione cambiò il proprio nome in North American Aerospace Defense Command (cioè sostituendo Air con Aerospace), mantenendo inalterato l'acronimo.

Negli anni 80 l'Unione Sovietica continuò a sviluppare i propri missili cruise che ponevano una nuova seria minaccia ai sistemi difensivi del NORAD perché potevano viaggiare a velocità subsonica e a bassa altitudine così da evitare di essere rilavati dai radar. Per far fronte a questo pericolo, il NORAD si dotò di cinque basi che avevano lo scopo di individuare missili o velivoli armati che provenissero dall'esterno prima che giungessero sul continente americano.

Con il crollo dell'Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, su iniziativa del Presidente Reagan, il NORAD estese il proprio ambito di azione all'antidroga intercettando piccoli velivoli e cooperando con le forze di polizia locali.

L'11 settembre portò ovviamente un nuovo sconvolgimento, il NORAD si trovò a fronteggiare una situazione imprevista con il dirottamento di aerei dall'interno; una procedura di emergenza nota come SCATANA prevedeva che il NORAD potesse prendere il controllo dello spazio aereo in caso di emergenza, ma non venne attuata proprio perché lo scenario previsto era notevolmente diverso. Da allora il NORAD coordina l'operazione Noble Eagle che si occupa della sicurezza del territorio in collaborazione con agenzie federali, statali e locali, tenendo conto anche del nuovo scenario di dirottamenti dall'interno.

Fonte: NORAD

L'ultimo decennio ha visto il passato ritornare con l'attività militare sovietica a livelli che non si vedevano dagli anni 80 che sta portando il NORAD a nuovi incrementi delle proprie dotazioni e tecnologie.

Il NORAD ha anche ereditato dalla sua fondazione un programma che apparteneva a un preesistente ente statunitense chiamato CONAD (Continental Air Defense Command), cioè il NORAD tracks Santa, ovvero la simulazione del tracciamento della slitta di Babbo Natale che il 24 dicembre dal Polo Nord entra nello spazio aereo di Stati Uniti e Canada per portare i doni ai bambini.

In un incontro del febbraio di quest'anno, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin e il Ministro della Difesa del Canada Anita Anand hanno ribadito l'importanza di dotare il NORAD di infrastrutture e di sistemi sempre più moderni per garantire la sicurezza dei due paesi nell'affrontare nuove sfide, come i palloni sonda cinesi che recentemente hanno violato lo spazio di entrambe le nazioni. Il NORAD, che a breve compirà sessantacinque anni, è quindi ancora cruciale per la sicurezza del due paesi e per la loro imprescindibile alleanza.



Fonti:

2023/05/18

La chiesa greco-ortodossa di Saint Nicholas distrutta nel crollo delle torri

di Leonardo Salvaggio


Tra gli edifici distrutti l'11 settembre 2001 nel crollo dei grattacieli del World Trade Center ce n'è uno di cui si parla poco, nonostante fosse il più antico della zona, risalente al 1830 circa. Appena a sud delle Torri Gemelle, separata dal complesso da Liberty Street, sorgeva infatti la chiesa greco-ortodossa di Saint Nicholas che venne schiacciata dal crollo della Torre Sud quando al suo interno non c'era più nessuno.

Nel 1916 un gruppo di greci ortodossi di New York fondò nella punta meridionale di Manhattan la congregazione della Saint Nicholas Greek Orthodox Church; dapprima i fedeli si riunivano per il culto nel ristorante di un albergo di Morris Street, fino a quando nel 1919 cinque famiglie raccolsero 25.000 dollari con cui comprarono una taverna al numero 155 di Cedar Street per convertirla in una chiesa. L'edificio di quattro piani era stato costruito nel quarto decennio del 1800 come condominio residenziale.

La nuova chiesa iniziò a funzionare come luogo di culto nel 1922 e dapprima si trovava in mezzo ad altri due edifici abitativi, quando poi il quartiere venne demolito per lasciare spazio al World Trade Center la chiesa si ritrovò ad essere una costruzione indipendente con l'ingresso pedonale sul lato nord, quello rivolto alle torri, e il parcheggio sugli altri tre lati. Dalla fondazione la comunità di Saint Nicholas era vetero-calendarista e solo dal 1993 adottò il calendario gregoriano.

La chiesa era di soli 6,7 metri, per 17, per 11 di altezza e al suo interno erano custodite reliquie, piccoli frammenti ossei, di San Nicola di Bari, Santa Caterina d'Alessandria e San Saba Archimandrita che erano state donate alla comunità dall'ultimo Zar Nicola II e che ovviamente andarono disperse nel crollo delle torri.

Dopo l'11 settembre i parrocchiani di Saint Nicholas si unirono alla comunità della Saints Constantine and Helen Greek Orthodox Cathedral a Brooklyn dove rimasero per più di vent'anni fino a luglio del 2022, quando la nuova Saint Nicholas, costruita a partire dal 2014, venne consacrata e inaugurata sul lato meridionale dello stesso isolato che ospitava la costruzione precedente. La nuova chiesa è stata disegnata dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava e, per via delle quattro torri ai vertici, si ispira a Santa Sofia e alla Chiesa di San Salvatore in Chora, entrambe a Istanbul.

La nuova chiesa di Saint Nicholas aperta nel 2022

Non erano quindi tutti moderni i palazzi distrutti nell'attentato, e il fatto che la città di New York abbia voluto ricostruire anche questa piccola chiesa conferma quanto sia stato grande lo sforzo di far rinascere ogni pezzo, piccolo e grande, del World Trade Center di Manhattan.


Fonti:

2023/05/04

Pubblicate foto inedite della war room alla Casa Bianca durante la missione che uccise Osama bin Laden

di Leonardo Salvaggio

In occasione del dodicesimo anniversario della missione che uccise Osama bin Laden, il Washington Post ha ottenuto tramite una richiesta Freedom of Information Act e Presidential Records Act oltre 900 foto scattate alla Casa Bianca in quegli attimi concitati. Le foto sono di proprietà della Obama Presidential Library, che è una delle biblioteche presidenziali gestite dalla National Archives and Records Administration, ente federale preposto a conservare documenti storici e governativi. Le foto sono state scattate quasi interamente da Pete Souza, capo dei fotografi ufficiali della Casa Bianca durante le amministrazioni Reagan e Obama.

Una delle foto della situation room pubblicate dal Washington Post

Inizialmente il Washington Post ha ricevuto, dopo 376 giorni dalla richiesta, un PDF che contiene le foto a bassa risoluzione, senza metadati né riferimenti temporali; a seguito di un'ulteriore richiesta il giornale ne ha quindi ricevuto un insieme più ristretto ad alta risoluzione e con i timestamp. La Obama Presidential Library ha comunque trattenuto altre 307 foto, sostenendo che si tratti di materiale riservato che potrebbe compromettere la sicurezza nazionale. Il Washington Post ha quindi incrociato le foto con i riferimenti temporali al racconto dello stesso Obama contenuto nell'autobiografia A Promised Land del 2020 (pubblicata in Italia con il titolo Una Terra Promessa) e alla ricostruzione del giornalista Garrett M. Graff pubblicata sul quotidiano della capitale Politico realizzata attraverso interviste con i protagonisti della war room che dalla Casa Bianca seguiva quanto avveniva ad Abbottabad.

Fino ad oggi di quel set di foto ne era stata pubblicata una sola molto celebre: quella con Obama proteso in avanti con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e Hillary Clinton con la mano davanti alla bocca come a voler soffocare la propria stessa tensione emotiva. Dal confronto di questa foto con quelle nuove emergono dettagli interessanti. La prima cosa che si nota è che l'azione alla Casa Bianca non si è svolta in una stanza sola. Alcune immagini sono infatti state scattate in una grande situation room, di cui si vedono i maxischermi su almeno due lati, in cui sono riunite circa trenta persone tra lo staff presidenziale e i vertici degli apparati di intelligence e militari. Altre foto al contrario (tra cui quella pubblicata nel 2011) sono state scattate in una stanza più piccola con un gruppo di sole quindici persone su richiesta dello stesso Obama che decise di spostarsi in un ambiente più ristretto per poter seguire con maggiore attenzione le fasi cruciali. Per scattare questa foto Souza ha faticato a trovare posto nella stanza dovendosi mettere a ridosso di una delle stampanti. Tra l'altro, sia nella versione del 2011 sia in questo nuovo lotto, nell'unica foto precedentemente pubblicata i documenti davanti a Hillary Clinton sono stati resi illeggibili digitalmente.

L'unica foto pubblicata nel 2011

Dalle foto pubblicate si nota anche molto la distensione sui volti dei protagonisti dal momento in cui dal Pakistan arrivò la comunicazione enemy killed in action. Se fino ad allora Obama e il resto dello staff è teso nel visualizzare lo svolgersi dell'azione, da lì in avanti inizia a vedersi qualche sorriso e qualche viso più disteso.

Obama si congratula con il Segretario alla Difesa, l'ambiente inizia a essere più rilassato.

Le nuove foto mostrano anche quanto Obama non si curasse particolarmente della forma. Durante la war room infatti indossa lo stesso abbigliamento con cui quella mattina era andato a giocare a golf: una polo, dei pantaloni chiari e una giacca leggera con il sigillo del Presidente degli Stati Uniti. Per l'annuncio pubblico non solo si è cambiato in un abito scuro, come è più che ovvio, ma ha cambiato anche orologio, passando da uno con cinturino di gomma a uno più classico con cinturino in pelle.

Il New York Times fa notare la differenza di stile con la war room del Presidente Trump durante la missione che uccise il leader dell'ISIS al-Baghdadi nel 2019 in cui l'allora presidente indossava l'abito classico formale già durante la missione, le foto sono in posa e Trump occupa il posto principale al tavolo, sul lato corto, sotto al sigillo del Presidente degli Stati Uniti. Anche le persone attorno a Trump indossano il vestito, mentre nel caso delle foto di Obama molti non hanno la cravatta o hanno tolto la giacca.

Queste foto pubblicate dal Washington Post mostrano quindi il lato più umano di un evento di importanza mondiale; mostrano l'ansia e la distensione di persone tra le più influenti del pianeta nel coordinare e condurre una missione di vitale importanza e che davanti a questa situazione affrontano problemi quotidiani come lo stress e il dover trovare un posto adeguato per il proprio lavoro. Non è chiaro quale problema di sicurezza nazionale si sarebbe creato con la pubblicazione delle foto rimaste secretate, non è comunque escluso che in futuro vengano rilasciate anche quelle vista la tendenza alla trasparenza che contraddistingue l'attuale amministrazione americana.

2023/04/13

Intervista al membro della 9/11 Commission Miles Kara

di Leonardo Salvaggio

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista al membro della 9/11 Commission Miles Kara. Nel video parliamo della reazione dell'FAA e del NORAD e di aspetti poco noti degli attentati, ad esempio del perché Mohamed Atta e Abdulaziz al-Omari siano andati da Boston a Portland per prendere un aereo che li riportasse a Boston, da cui si sono imbarcati sul volo American Airlines 11.

L'intervista è disponibile solo in inglese.

2023/04/09

Il documentario di TMZ sulla teoria del quinto aereo

di Leonardo Salvaggio

Lo scorso 20 marzo il network televisivo FOX ha trasmesso un documentario realizzato in collaborazione con TMZ intitolato TMZ Investigates - 9/11 - The Fifth Plane secondo cui la mattina dell'11 settembre 2001 i terroristi di al-Qaeda cercarono di dirottare un quinto aereo, in partenza dall'aeroporto JFK di New York e diretto a Los Angeles, ma non riuscirono nel loro intento perché lo spazio aereo venne chiuso prima che l'aereo potesse decollare. Il volo in questione era il numero 23 della United Airlines e si trattava di un Boeing 767, come i due voli che si schiantarono contro le Torri Gemelle.


Il documentario propone le testimonianze di quattro persone dell'equipaggio: il capitano Tom Manello, le assistenti di volo Barbara Brockie Smaldino, che seguiva la classe economica, e Sandy Thorngren, che seguiva la classe business, e la responsabile degli assistenti di volo Deborah che non si mostra in viso e che non rivela il proprio cognome. I quattro membri dell'equipaggio ricordano di aver visto sull'aereo quattro persone dall'aspetto mediorientale che ebbero comportamenti sospetti: un uomo che viaggiava con un bambino di circa otto anni e che chiese di poter mostrare al figlio la cabina di pilotaggio, una persona che indossava un burqa e che secondo il personale di volo era un uomo travestito da donna, un uomo che viaggiava accanto alla persona con il burka e che aveva l'aspetto di un bodyguard e un uomo che indossava una t-shirt e che sudava copiosamente nonostante la temperatura fresca. L'uomo con il bambino ebbe una discussione con gli assistenti di volo per via di un possibile ritardo alla partenza dovuto alla difficoltà nel reperire frutta da dar loro durante il volo in sostituzione del pasto che prevedeva carne di maiale.

In realtà già arrivati a questo punto emerge come la teoria del quinto aereo sia debole, perché non corrisponde affatto con quanto compiuto dalle altre quattro squadre che hanno dirottato i voli con cui sono stati condotti gli attentati. Nessun terrorista si è imbarcato sull'aereo con un bambino e nessuno avrebbe fatto un gesto folle tipo mascherarsi da donna. È sicuramente vero che indossare un burka per compiere un attentato è una pratica usata dai terroristi, ma in tutt'altro contesto, ad esempio per farsi esplodere in un mercato, non certo su un aereo dove si deve essere identificati e dove si rischia solo di attirare l'attenzione su di sé qualora si destassero sospetti. Riguardo all'uomo con la t-shirt, non si capisce come il fatto di sudare abbondantemente possa essere considerato un indizio che indichi che si trattasse di un terrorista; magari aveva corso trasportando bagagli pesanti, in ogni caso era pur sempre una mattina di fine estate, per quanto fresca, e non c'è nulla di strano nel sudare. All'uomo con il bambino non fu permesso di vedere la cabina di pilotaggio perché nel 2001 non era più consentito, i due si avvicinarono quindi alla porta per guardare dentro: di nuovo non si spiega perché un terrorista dirottatore dovrebbe fare una cosa del genere prima del decollo, in modo da attirare sospetti e attenzione su di sé.

In ogni caso il volo fu bloccato prima che potesse partire e il personale di volo segnala altre stranezze successive. Dopo che tutti gli aerei vennero evacuati, venne trovata aperta una botola sul pavimento che consentiva di accedere all'aereo passando da un locale tecnico e alcune persone furono viste bordo di United 230. Questi dettagli sono in ogni caso aneddotici, nessuno dei membri del personale ha visto niente di ciò con i proprio occhi, ma lo ha sentito raccontare. I membri dell'equipaggio ipotizzano che la botola sia stata aperta da qualcuno dopo l'evacuazione per salire sul velivolo e far sparire eventuali prove dell'intenzione di compiere un dirottamento, ad esempio i tagliacarte che i terroristi avrebbero potuto avere con sé. L'ipotesi prevede che ci sia stata complicità da parte del personale aeroportuale. Anche in questo caso le indicazioni in favore della teoria del quinto aereo sono debolissime. Anzitutto non si capisce perché una botola aperta debba essere indice di un tentativo di dirottamento: può essere stato un guasto alla chiusura, può essere stata aperta per ispezionare il vano tecnico sottostante o per qualunque altro motivo. Il capitano riporta inoltre che dopo l'ispezione dei velivoli due tagliacarte furono trovati su un aereo il cui numero identificativo (tail number) differisce di una sola cifra da quello di United 23, secondo il capitano questo potrebbe significare che del personale di terra complice dei terroristi potrebbe aver piazzato i tagliacarte sull'aereo sbagliato, intendendo invece metterli sul suo aereo. La teoria del capitano è molto forzata, prevede comunque un errore grossolano da parte dei terroristi e anche uno scenario del tutto diverso da quello degli altri voli, per i quali i dirottamenti non hanno previsto il coinvolgimento di personale aeroportuale alleato dei terroristi.

Il documentario suggerisce che il caso non sia stato valutato opportunamente dagli inquirenti. In realtà la 9/11 Commission ha indagato altri possibili tentativi di dirottamento, il più noto dei quali è il volo Delta Air Lines 1989, e negli anni sono emersi altri casi simili, come il volo Korean Air 85, e quindi se ci fosse stato un tentativo concreto di dirottamento sarebbe stato individuato. Inoltre la Commissione ha identificato vari membri di al-Qaeda che furono considerati per la squadra finale che compì gli attentati ma che per diversi motivi non ne fece parte: ad esempio i ben noti Zacarias Moussaoui, il possibile sostituto di Ziad Jarrah, e Mohammed al-Qahtani, il ventesimo dirottatore che avrebbe dovuto prendere parte al dirottamento di United 93, oltre ad altri dodici. Anche l'indagine PENTTBOM dell'FBI ha identificato altri tre terroristi di al-Qaeda che avevano frequentato lezioni di volo (Faisal Mana al-Salmi, Bandar al-Hazmi e Rayad Abdullah), se ce ne fosse stato un altro che prese un volo quella mattina sarebbe stato sicuramente individuato. In ogni caso, il buon senso suggerisce che se al-Qaeda avesse avuto altri muscle hijackers a disposizione quella mattina, ne avrebbe posto uno a completare la squadra di Ziad Jarrah in sostituzione di al-Qahtani: non è infatti un caso che l'unico volo che non ha raggiunto il proprio obiettivo sia stato quello in cui i terroristi erano quattro e non cinque.

La United Airlines non ha mai in questi ventidue anni asserito di aver subito un altro tentativo di dirottamento rispetto a quelli schiantatisi a Shanksville e contro il Pentagono, e anche questo contribuisce a chiudere la discussione. Le prove in favore della teoria del quinto aereo sono deboli e vaghe e in assenza di indicazioni più solide è molto improbabile che United 23 fosse davvero the fifth plane.

2023/03/10

World Trade Center: an interview with survivor Ron DiFrancesco

by Leonardo Salvaggio. An Italian translation is available here.

Undicisettembre is offering today its readers the personal account of survivor Ron DiFrancesco who was working in Tower 2 and left his office moments before the second plane crashed into the tower.

We would like to thank Ron DiFrancesco for his kindness and his help.




Undicisettembre: Can you give us a general account of what you saw and experienced on 9/11?

Ron DiFrancesco:
I was living in New Jersey at that time but I worked in New York at the World Trade Center. I had left my house at about 5:30 in the morning to catch the 5:40 train, I took the train into Hoboken, New Jersey, and then I took the PATH train to go to the World Trade Center. I worked at the 84th floor of Tower 2. There were different elevators that you had to take to get there: I took the express elevator from ground floor to the 78th and then I transferred over to the smaller elevators to take me to the 84th floor. I arrived probably around 6:45.

My desk was in a trading room with three hundred and fifty people sitting there working, yelling, screaming and watching the world markets. The reason why I was there so early is that the Asian markets were closing at that hour, the Europeans markets were halfway through the day and we would continue from there. I sat at my desk and I was working and talking to my colleagues and to my clients on the phone, telling them what was going on in the markets. We were settled into the day when back to the right there was a loud explosion; we didn't know what it was but we looked to the right and we saw thousands of pieces of paper streaming in the air all around. We ran to the window to see what was going on and we saw a big gaping hole in the side of Tower 1. At that point a lot of people started to leave our floor.

I didn't know it was a terrorist attack, I think some of those who left understood it was a terrorist attack because they were there in 93. I am Canadian and was living in Canada at the time of the first attack, I had moved to New York in 2000. When we had started hearing the news they told us that a light aircraft had gone off course and crashed into the World Trade Center, I didn't know any different, I just knew from seeing people in the hole in the side of the building that it was pretty severe. Everybody in the world was watching on the news what was going on, but we were in the middle of it and still we had no clue and they kept telling us "Building 2 is secure, please go back to your desk", so I went back to my desk and I got a lot of phone calls from clients in Canada who were asking me what was going on but I really didn't know.

I got a call from a university friend who started yelling at me to get out of the building, I said I would go so I called my wife to tell her I was leaving and I would call her when I got downstairs. I grabbed a colleague of mine and him and I made our way towards the elevator banks and as we were leaving the second plane hit our building: the right wing went from the 78th to the 85th floor and sliced through our trading room.


We got knocked down and battered, all the ceiling tiles came down from above. My colleague and I wiped the debris from ourselves, we met with our colleagues and we started running towards the stairwell. We started going down and after two or three floors we met two gentlemen and a lady coming up, the two men were helping the lady up, and they said we couldn't go down because there was too much fire. We heard someone crying for help so we went to assist this man whose name is Stanley. I was overcome with smoke, so I left this man with one of my colleagues and I went up the stairwell and reached maybe the 91st floor hoping to get to one of the floors but all the doors were locked for security reasons. Once we realized we couldn't get out of the stairwell our only choices were all the way up or all the way down. At that point panic really set in.

I wanted to get out the building, so we started going down and we got close to our floor or even a bit below and smoke overtook us. People started to lie down to try to get beneath the hot smoke,. I was lying down too when I heard a voice calling me saying "Get up and come this way"; so I got up and followed the voice, into the heaviest smoke area and pushed against a piece of drywall and it revealed the staircase down below. I slid down and ran down three flights of stairs that were on fire. After those three flights of stairs it was wet and cool, I think just because the sprinklers were working at those floors; so I started to run down as fast as I could. About halfway down I run into three firefighters coming up, I told them I was having trouble breathing, they checked me out and told me to get down below and I'll get help there.

About an hour after the crash I reached the lobby of my building which was facing the courtyard between the two towers, I just wanted to get out of the building and run but outside I could see lots of debris and bodies everywhere. I wanted to go out but they wouldn't let us because it was too dangerous and they made us go to the PATH train station to go out to Church Street on the farthest corner away from the World Trade Center. So I went down another flight of stairs, I started walking towards the exit and I run into a colleague of mine, an older gentleman who in his best days had troubles walking; as we were down there we heard this very loud, loud noise, I looked to my right and I saw this huge fireball coming at us. I yelled at my colleague "Run!", I ran as fast as I could and I woke up three days later in a hospital. I remember getting hit on the head and that's all I remember.


Undicisettembre: What did your family know or think happened to you after the attacks, when you could not get in touch with them?

Ron DiFrancesco: It was actually harder on my wife than it was on me, she could not get hold on me; I think they called her at 2 o'clock in the afternoon and told her that I was in the hospital and she then related the message to my family in Canada. They didn't know how badly I was injured and I of course wasn't aware of the panic that was going on with people frantically looking for people.


Undicisettembre: What happened next to you, in the following weeks and months?

Ron DiFrancesco: While most of the people either got out physically unscaved or they died, I was banged up quite badly, I had burns on 60% of my body, I had a broken bone in my back, my contact lenses were melted to my eyes and I was in rough shape. For days I hadn't known the World Trade Center had come down. When the plane hit our building I thought it was a generator down below blowing up, I didn't know it was a second plane. I found that out from my wife.


Undicisettembre: When was the first time you went back to downtown Manhattan after 9/11?

Ron DiFrancesco: I went back in November 2001 for a colleague's funeral, I went there and then I met my family uptown.


Undicisettembre: Did you decide to leave New York because of 9/11?

Ron DiFrancesco: Yes. I went back to work part time in March 2002 and full time in April. When I went back full time getting into the city was tough: you had to take the train to Hoboken and then the ferry across the Hudson river to get to our new office, which was moved away from the World Trade Center of course. Every night my kids would be sitting by the window wondering if I was coming home. We realized after a while there was no way for us to live there, so we moved back to Canada.


Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life even today?

Ron DiFrancesco: I am blessed, I'm fortunate and I'm lucky that I'm still here, I have an immense sense of gratitude. I was in a dark spot for a few years, like "Why did I survive while so many of my colleagues did not?". But I'm now on a different place, a different mission too: to help people. If you think about what's happening in our world now, everybody has been struggling for the last few years and the mental health crisis is very tough. Everyday is not great for everyone, after 9/11 I didn't know if I wanted to live or die, I struggled for a while. Someone told me: "You need to tell your story about what you do to survive because it may help some people", so I studied positive psychology and tried to do the best I can day in day out in the hope of something better.

Now I have gratitude for smaller things and small things in life, because every day is a bonus for us. I could ask you what your problems are and maybe they are bigger than mine, but we both have a house and health and that's a bonus because many people don't have them.

World Trade Center: intervista al sopravvissuto Ron DiFrancesco

di Leonardo Salvaggio. L'originale in inglese è disponibile qui.

Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori il racconto personale del sopravvissuto Ron DiFrancesco che lavorava nella Torre 2 è lasciò il suo officio pochi istanti prima che il secondo aereo si schiantasse contro la torre.

Ringraziamo Ron DiFrancesco per la sua cortesia e disponibilità.




Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di quello che hai visto e vissuto l'11 settembre?

Ron DiFrancesco:
All'epoca vivevo nel New Jersey ma lavoravo a New York al World Trade Center. Ero uscito di casa verso le 5:30 del mattino per prendere il treno delle 5:40, presi il treno per Hoboken, nel New Jersey, e poi presi il treno PATH per andare al World Trade Center. Lavoravo all'84° piano della Torre 2. Per arrivarci bisognava prendere più ascensori: presi l'express elevator che dal piano terra portava al 78° piano e poi mi spostai sugli ascensori più piccoli per arrivare all'84° piano. Arrivai in ufficio intorno alle 6:45.

La mia scrivania era in una sala per trader in cui c'erano trecentocinquanta persone che lavoravano, parlavano a voce alta e controllavano i mercati mondiali. Il motivo per cui ero lì così presto era che a quell'ora i mercati asiatici stavano chiudendo, i mercati europei erano a metà giornata e noi avremmo continuato da lì. Ero alla mia scrivania e stavo lavorando e parlando con i miei colleghi e con i miei clienti al telefono, raccontando loro cosa stava succedendo nei mercati. Stavamo lavorando a pieno ritmo quando alla nostra destra ci fu una forte esplosione; non sapevamo cosa fosse ma guardammo in quella direzione e vedemmo migliaia di pezzi di carta che fluttuavano nell'aria tutt'intorno. Corremmo alla finestra per vedere cosa stesse succedendo e vedemmo un enorme buco nel lato della Torre 1. A quel punto molte persone iniziarono a scappare dal nostro piano.

Non sapevo che fosse un attacco terroristico, penso che alcuni di quelli che se ne erano andati avessero capito che si trattava di un attacco terroristico perché avevano vissuto anche l'attentato del 93. Io sono canadese e vivevo in Canada al tempo del primo attacco, mi ero trasferito a New York nel 2000. I notiziari dicevano che un piccolo aereo era andato fuori rotta e si era schiantato contro il World Trade Center, non sapevo altro, capivo solo vedendo le persone nel buco nel edificio che era una cosa grave. Tutti nel mondo stavano guardando in televisione ciò che stava succedendo, ma noi eravamo lì nel mezzo e non sapevamo nulla mentre gli altoparlanti dicevano "L'edificio 2 è sicuro, per favore tornate ai vostri posti", quindi tornai alla mia scrivania e ricevetti molte telefonate da clienti in Canada che mi chiedevano cosa stesse succedendo, ma io non lo sapevo.

Ricevetti una telefonata da un amico dell'università che mi urlò di uscire dall'edificio, gli dissi che lo avrei fatto e chiamai mia moglie per dirle che stavo uscendo dal palazzo e che l'avrei chiamata una volta arrivato fuori. Presi per un braccio un collega e ci dirigemmo verso gli ascensori, mentre stavamo uscendo il secondo aereo colpì il nostro edificio: l'ala destra trapassò i piani dal 78° all'85° squarciando il nostro ufficio.


Fummo sbattuti e buttati a terra, tutti i pannelli del soffitto caddero dall'alto. Io e il mio collega ci pulimmo dai detriti, incontrammo altri colleghi e iniziammo a correre verso la tromba delle scale. Iniziammo a scendere e dopo due o tre piani incontrammo due uomini e una donna che salivano, i due uomini stavano aiutando la signora a salire, e ci dissero che scendere era impossibile perché c'era troppo fuoco. Sentimmo qualcuno gridare aiuto, quindi andammo ad assistere quest'uomo che si chiama Stanley. Venni sopraffatto dal fumo, quindi lasciai quell'uomo con uno dei miei colleghi e salii per le scale fino circa al 91° piano sperando di poter uscire dalle scale e accedere a un pianerottolo ma tutte le porte erano chiuse per motivi di sicurezza. Una volta resici conto che non potevamo uscire dalla tromba delle scale, le nostre uniche possibilità erano salire fino all'ultimo piano o scendere fino a terra. A quel punto scoppiò davvero il panico.

Volevo uscire dall'edificio, quindi iniziammo a scendere e quando eravamo al nostro piano o poco sotto il fumo ci investì. La gente iniziò a sdraiarsi per cercare di rimanere sotto al fumo caldo. Ero sdraiato anch'io quando sentii una voce che mi chiamava e diceva: "Alzati e vieni da questa parte"; così mi alzai e seguii la voce, ero immerso nel fumo ma spinsi una parete di cartongesso e trovai le scale sotto di me. Saltai giù e corsi giù per tre rampe di scale tra le fiamme. Dopo quelle tre rampe di scale tutto era umido e freddo, credo che fosse perché a quei piani funziona il sistema antincendio; iniziai a correre più veloce che potevo. Circa a metà discesa incontrai tre vigili del fuoco che salivano, dissi loro che avevo difficoltà a respirare, mi controllarono e mi dissero di scendere e uscire e avrei trovato soccorso fuori dalla torre.

Circa un'ora dopo lo schianto raggiunsi l'atrio del mio edificio che si affacciava sulla piazza tra le due torri, volevo solo uscire dall'edificio e scappare ma vedevo che fuori c'erano molti detriti e corpi ovunque. Volevo uscire ma non ci fu permesso perché era troppo pericoloso e ci fecero scendere nella stazione del PATH per uscire su Church Street, all'angolo più lontano dal World Trade Center. Così scesi un'altra rampa di scale, mi avviai verso l'uscita e mi imbattei in un mio collega, un anziano signore che nei suoi giorni migliori aveva difficoltà a camminare; mentre eravamo al piano sotterraneo sentimmo un rumore molto forte, guardai alla mia destra e vidi un'enorme palla di fuoco venire verso di noi. Urlai al mio collega "Corri!", corsi più veloce che potevo e mi svegliai tre giorni dopo in ospedale. Ricordo di essere stato colpito alla testa e dopo di questo non ricordo altro.


Undicisettembre: La tua famiglia cosa sapeva o pensava che ti fosse successo dopo gli attacchi, quando non ti sei più messo in contatto con loro?

Ron DiFrancesco: Fu più difficile per mia moglie che per me, perché non riusciva a mettersi in contatto con me; penso che qualcuno l'abbia chiamata alle 2 del pomeriggio e le abbia detto che ero in ospedale e poi lei ha riportato la notizia alla mia famiglia in Canada. Non sapevano quanto gravemente fossi ferito e io ovviamente non ero consapevole del panico che c'era tra le persone che stavano freneticamente cercando i loro familiari.


Undicisettembre: Cosa ti è successo dopo, nelle settimane e nei mesi successivi?

Ron DiFrancesco: Mentre la maggior parte delle persone era uscita fisicamente illesa o era morta, io ero piuttosto malconcio, avevo ustioni sul 60% del mio corpo, avevo un osso rotto nella schiena, le lenti a contatto mi si erano fuse negli occhi e stavo male in generale. Per giorni non ho saputo che il World Trade Center fosse crollato. Quando l'aereo colpì il nostro edificio avevo pensato che fosse un generatore di sotto che era esploso, non sapevo che fosse un secondo aereo. Lo seppi poi da mia moglie.


Undicisettembre: Quando tornasti a nella punta meridionale di Manhattan dopo l'11 settembre?

Ron DiFrancesco: Ci tornai nel novembre 2001 per il funerale di un collega, ci andai e poi reincontrai la mia famiglia nei quartieri più a nord.


Undicisettembre: Decidesti poi di lasciare New York a causa dell'11 settembre?

Ron DiFrancesco: Sì. Ci tornai a lavorare part time nel marzo 2002 e full time ad aprile. Quando tornai a tempo pieno arrivare in città era complicato: dovevi prendere il treno per Hoboken e poi il traghetto attraverso il fiume Hudson per raggiungere il nostro nuovo ufficio, che ovviamente era stato spostato lontano dal World Trade Center. Ogni sera i miei figli aspettavano alla finestra chiedendosi se sarei tornato a casa. Ci rendemmo conto dopo un po' che non potevamo rimanere, quindi tornammo in Canada.


Undicisettembre:: In che modo l'11 settembre influenza la tua vita quotidiana ancora oggi?

Ron DiFrancesco: Sono un privilegiato e sono fortunato a essere ancora qui, ho un immenso senso di gratitudine. Sono stato male per alcuni anni, mi chiedevo "Perché sono sopravvissuto, mentre tanti altri miei colleghi no?". Ma quella fase è passata e ora ho una missione diversa: aiutare le persone. Se pensi a cosa sta succedendo nel nostro mondo adesso, siamo stati tutti in difficoltà negli ultimi anni e la crisi della salute mentale è molto dura. Non tutti i giorni sono buoni per tutti, dopo l'11 settembre non sapevo se volevo vivere o morire, per un po' ho avuto difficoltà. Qualcuno poi mi disse: "Devi raccontare ciò che fai per sopravvivere perché potrebbe essere utile ad altri", quindi ho studiato psicologia positiva e ho cercato di fare del mio meglio giorno dopo giorno nella speranza di poter migliorare.

Ora sono grato anche per le cose più piccole, perché ogni giorno è un dono. Potrei chiederti quali sono i tuoi problemi e forse sono più grandi dei miei, ma entrambi abbiamo una casa e la salute e questo è un dono perché molte persone non le hanno.

2023/02/26

Chi è Saif al-Adel, il nuovo leader di al-Qaeda

di Leonardo Salvaggio

Dopo l'uccisione di Ayman al-Zawahiri avvenuta lo scorso mese di luglio a Kabul, al-Qaeda ha identificato l'egiziano Saif al-Adel come proprio nuovo leader, come risulta da un documento delle Nazioni Unite del febbraio di quest'anno.

Al-Adel è nato in Egitto, in una città chiamata Shibin al-Kawm a nord del Cairo, nei primi anni 60, l'anno esatto non è noto, con il nome di Mohammed Salahuddin Zeidan. Al-Adel rimase nel paese africano fino al conseguimento della laurea in economia. Nel 1987 si trasferì in Arabia Saudita dove rimase un solo anno e dove finse la propria morte. Al-Adel fece comunicare alla sua famiglia in Egitto la notizia del proprio decesso in un incidente d'auto da uno sconosciuto che riportò loro anche un giubbotto appartenente allo stesso al-Adel per provare la veridicità di quanto stava dicendo. La famiglia chiese alle autorità saudite di avere delle evidenze sulla morte del loro congiunto, ma senza successo; in assenza di prove certe sulla sorte dell'uomo il tribunale egiziano lo dichiarò legalmente morto. È probabile che a questo punto Al-Adel abbia rubato l'identità di un'altra persona e adottato il nome di battaglia con cui oggi è noto che significa spada della giustizia, per poi spostarsi in Afghanistan dove si unì ai gruppi jihdaisti che combattevano contro l'invasione sovietica. Al-Adel entrò a far parte di al-Qaeda già dalla fondazione e acquisì importanza all'interno della gerarchia dell'organizzazione diventando subito uno dei supervisori dei campi di addestramento. Tra i primi miliziani formati da Al-Adel si trova, ad esempio, Ramzi Yousef, responsabile del primo attentato contro il World Trade Center.

Tra il 1991 e il 1992 Saif al-Adel ebbe un ruolo rilevante nell'aiutare bin Laden a spostare al-Qaeda in Sudan e a espanderne l'influenza in Somalia e altri stari del corno d'Africa. Prima del ritorno di al-Qaeda in Afghanistan nel 1996, al-Adel viaggiò anche in Yemen per creare un ramo di al-Qaeda anche nella penisola araba. Negli anni seguenti fu tra gli organizzatori degli attentati contro le ambasciate americane in Africa del 1998, a seguito dei quali divenne uno dei ricercati most wanted dell'FBI, e dell'attacco contro la USS Cole del 2000. Durante la pianificazione degli attentati dell'11 settembre, al-Said fu tra quelli che si dissociarono delle intenzioni di Osama bin Laden e di Khalid Sheikh Mohammed, perché temeva che la reazione militare americana avrebbe distrutto al-Qaeda. Alcuni media riportano che al-Adel addestrò in Afghanistan alcuni dei dirottatori, tuttavia nessuno specifica quali dei diciannove sarebbero stati formati dall'egiziano.

In seguito agli attentati dell'11 settembre rimase in Afghanistan e insieme ad altri leader di al-Qaeda cercò un luogo dove potesse nascondersi; non trovandolo fuggì in Pakistan nel dicembre del 2001. Il Pakistan non si rivelò un posto sicuro dove dei leader di al-Qaeda potessero nascondersi, in quanto il presidente Pervez Musharraf si schierò a fianco degli Stati Uniti, e al-Adel vi rimase solo pochi mesi prima di trasferirsi con altri miliziani qaedisti in Iran. Sulle prime riuscirono a rimanervi senza troppe pressioni da parte delle autorita di Tehran, ma questa situazione durò poco e nel 2003 al-Adel venne arrestato insieme ad altri due terroristi e rimase in carcere fino al 2010 quando fu liberato in uno scambio di prigionieri tra l'Iran e la Rete Haqqani. Da allora le notizie sulla vita di al-Adel sono più vaghe. Tra il 2011 e il 2012 venne arrestato di nuovo durante un viaggio dal Pakistan all'Egitto e finì di nuovo detenuto in Iran. Al-Adel rimase in cella fino al 2015, quando venne liberato in un nuovo scambio di prigionieri, questa volta con il ramo di al-Qaeda attivo nella penisola araba.

Attualmente si ritiene che Saif al-Adel si nasconda ancora in Iran in una sorta di regime di arresti domiciliari autoinflitti, visto che l'Iran e al-Qaeda non sono alleati, e che diriga al-Qaeda da lì. In ogni caso al-Qaeda potrebbe presto trovarsi ad affrontare un serio problema di leadership. Se il fatto di essere in Iran dovesse ostacolare l'attività di al-Adel o se questi dovesse rivelarsi troppo vecchio per attirare nuovi adepti, al-Qaeda avrebbe avrebbe poche alternative. Le opzioni sarebbero di affidare la guida del gruppo a quelli che un rapporto dell'ONU del 2022 identifica come i successivi nella linea gerarchica, quali il marocchino Abdal Rahman al-Maghrebi, genero di al-Zawahiri, l'agerino Yazid Mebrak, leader del ramo magrebino di al-Qaeda, o il somalo Ahmed Diriye, capo di al-Shabbab. Se non si concretizzasse nessuna di queste ipotesi, una quarta ipotesi potrebbe essere il siriano Abu Abd al-Karim al-Masri che ha guadagnato notevole rilevanza da quando la Siria è afflitta dalla guerra civile e questa scelta potrebbe portare a una scissione, se lo spostamento del centro di gravità e dalla tradizione qaedista fosse troppo drastico.

Saif al-Adel è anche stato oggetto di uno scambio di identità da parte degli inquirenti americani. Per un periodo l'FBI ritenne infatti che Saif al-Adel non fosse Mohammed Salahuddin Zeidan, ma Mohammed Ibrahim Makkawi, un ex colonnello delle forze speciali egiziane che, come Zeiden, si unì ad al-Qaeda in Afghanistan. Makkawi venne arrestato nel 2012 al Cairo e alcuni media diedero erroneamente la notizia dell'arresto di al-Adel. Ad oggi, comunque, l'FBI elenca tuttora il nome di Mohammed Ibrahim Makkawi tra gli alias di al-Adel, nonostante l'equivoco sia stato chiarito.


Fonti:

2023/02/02

Il Qatar ha corrotto il governo afghano affinché lasciasse prendere il potere ai Talebani

di Leonardo Salvaggio

Nell'edizione delle 20 dell'1 febbraio 2023 il TG1 ha mostrato documenti esclusivi provenienti dall'ambasciata qatariota in Afghanistan, ottenuti dal giornalista svizzero Filippo Rossi, dai quali emerge che il Qatar ha pagato milioni di dollari ad alti funzionari del governo afghano affinché non si opponessero ai Talebani dopo la partenza delle forze americane nell'agosto del 2021.

Tra le persone che hanno ricevuto questi pagamenti illeciti si trovano il governatore della banca centrale afghana Ajmal Ahmadi in veste di rappresentante del presidente Ashraf Ghani (che ha ricevuto 110 milioni di dollari) e due importanti leader della provincia settentrionale di Balk, dove si trova la città di Mazar-i Sharif, quali il maresciallo Abdul Rashid Dostum (che ha ricevuto 50 milioni) e l'ex governatore della provincia Atta Muhammad Nur (a cui il TG1 si riferisce come Mohamed Atta Nur che ha ricevuto 60 milioni) che avrebbero dovuto guidare la resistenza contro i Talebani nella zona. I tre leader nominati dal servizio del TG1 vengono anche mostrati in eventi pubblici mentre dichiarano che avrebbero combattuto contro i Talebani per impedire loro di prendere il potere, si tratta evidentemente di promesse che non avevano intenzione di mantenere. Ghani, Dostum e Atta Nur hanno tutti e tre lasciato l'Afghanistan poco dopo la presa del potere da parte dei Talebani: l'ex presidente è scappato negli Emirati, mentre i due leader del nord del paese di trovano in Uzbekistan.

Al momento in cui scriviamo la notizia non è riportata da nessun media americano, ce n'è una buona sintesi solo sul sito dell'agenzia di stampa afghana Khaama Press.

Quanto rivelato dal TG1 spiega uno dei motivi per cui l'Afghanistan è caduto nelle mani dei Talebani così in fretta, del resto che la corruzione fosse uno dei problemi della nazione che ha facilitato la presa della capitale era stato evidenziato a Undicisettembre anche da Craig Covert, ex agente dell'NCIS da noi intervistato su questo tema nel 2020, e dall'ex Sottufficiale della Marina Malcolm Nance. Di certo non è questo l'unico motivo: ad esempio anche la frammentarietà del paese, le scarse capacità militari delle forze armate e le loro scarse dotazioni hanno sicuramente avuto un ruolo importante.

Tuttavia la notizia riportata dal TG1 apre altri interrogativi, come che peso abbia avuto la corruzione da parte del Qatar, quanti sono gli ufficiali afghani coinvolti e in ultimo perché Doha abbia voluto facilitare la presa del potere da parte dei Talebani.

2023/01/27

Intervista all'ex agente speciale del Diplomatic Security Service Scott Stewart sull'attentato al World Trade Center del 1993

di Leonardo Salvaggio

È disponibile sul mio canale YouTube un'intervista all'ex agente speciale del Diplomatic Security Service Scott Stewart sul primo attentato alle Torri Gemelle, quando nel 1993 un gruppo di terroristi parcheggiò un camion bomba nei parcheggi sotterranei con l'intenzione di far crollare il complesso.

L'intervista è disponibile solo in inglese.


2023/01/16

11 gennaio 2023: l'FAA ordina il primo stop dei voli negli USA dopo l'11 settembre

di Leonardo Salvaggio

Lo scorso 11 gennaio l'FAA (l'ente americano che gestisce il trasporto aereo) ha disposto lo stop di tutti i voli in partenza dagli aeroporti degli Stati Uniti a causa di un problema di un software di gestione delle comunicazioni verso i piloti. Si è trattato del primo arresto totale dei voli dall'11 settembre 2001.

Il software interessato dal disservizio è noto come NOTAM (Notice to Air Missions) ed è utilizzato da varie agenzie governative per inviare ai piloti informazioni di sicurezza relative alla rotta che il velivolo deve percorrere o alla località di destinazione, ad esempio nell'elenco delle notifiche si trovano numerose segnalazioni di vulcani attivi da evitare. L'FAA ha annunciato la prima volta che il sistema era indisponibile alle 19:47 (ora della costa orientale) del 10 gennaio, quando il sistema aveva smesso di inviare aggiornamenti già da quattro ore. Un'ora dopo ha annunciato che i tecnici stavano lavorando alla risoluzione del problema, ma per tutta la notte il disservizio non è rientrato. La mattina dell'11 gennaio l'agenzia ha ordinato alle 7:30 lo stop di tutti i voli in partenza. Intorno alle 9 il divieto di decollo è stato revocato; in quel momento erano stati posticipati circa 8.500 voli e 1.200 erano stati cancellati. Ovviamente ci sono volute ore prima che i ritardi venissero smaltiti.

Tuttora le cause dell'incidente non sono chiare. L'FAA ha dichiarato che non si è trattato di un attacco informatico, ma di un errore umano di un ingegnere che durante una finestra di manutenzione ha sostituito uno dei file del database con una copia corrotta dello stesso in quanto non ha seguito correttamente la procedura. La spiegazione è di suo ragionevole, ma non spiega per quale motivo il Canada, che utilizza un software diverso anch'esso chiamato NOTAM, abbia avuto problemi simili nelle stesse ore; in ogni caso il disservizio in Canada e durato solo tre ore e non ha causato ritardi perché il sistema di backup ha sostituito il primario che era indisponibile. In ogni caso né l'FAA né l'omologo canadese Nav Canada hanno spiegato se i due eventi siano legati. Una seconda notevole stranezza è che soli dieci giorni prima, l'1 gennaio, nelle Filippine si è verificato un problema simile che ha causato il blocco totale dello spazio aereo.

Rispetto al blocco dei voli dell'11 settembre, questo caso recente presente comunque una notevole differenza: in questa occasione i velivoli già in volo hanno potuto completare il loro viaggio verso le loro destinazioni, mentre l'11 settembre 2001 tutti i voli dovettero atterrare nel più breve tempo possibile. Quello dell'11 settembre non fu comunque la prima chiusura dello spazio aereo, il quanto nel primi anni 60 i voli degli Stati Uniti furono bloccati tre volte nell'ambito di altrettante esercitazioni militari note come Sky Shield.

Il Segretario dei Trasporti Pete Buttigieg ha dichiarato alla CNN che le indagini dovranno proseguire per capire da dove è arrivato il file corrotto e perché la ridondanza dei sistemi non ha garantito il funzionamento. Fino a quando questi aspetti non verranno chiariti, quanto accaduto l'11 gennaio scorso resterà poco chiaro.

2023/01/03

World Trade Center: an interview with former NYPD detective Vic Ferrari

by Leonardo Salvaggio. An Italian translation is available here.

Undicisettembre is offering its readers today the personal account of former NYPD detective Vic Ferrari, who was on duty on 9/11 and arrived on the scene after the collapse of both towers.

We would like to thank Vic Ferrari for his kindness and time.




Undicisettembre: What happened to you on 9/11? Can you give us an account of what you saw and experienced on that day?

Vic Ferrari:
I had worked twenty years for the NYPD, when 9/11 happened I had fourteen years in. That day was Tuesday and it was election day, my office was in the Bronx which is a forty-five minutes to an hour drive from the Twin Towers. Previous to that I had arrested a guy who was selling stolen vehicles, he was in jail in Manhattan, and on that day I was going to the court in Manhattan with my sergeant and we were going to meet with his defense attorney. I was going to take him out of jail because he was going to become an informant, he was going to provide people who were selling stolen cars and he knew a guy who was working in the Department of Motor Vehicles who was selling phoney driver licenses.

We were going to meet at nine in Manhattan. So I came into the Bronx at seven. At eight o'clock my sergeant, who was supposed to come with me, was nowhere to be found. He arrived some minutes later and I was looking at my watch and said "Come one, we have got to go! It's going to take us an hour to go into Manhattan and find parking". He was taking his time, dragging his feet. Our office was at the second floor of the police station, one of the police officers ran upstairs, entered the detective squad and said "Turn the TV on, a plane has just hit the World Trade Center". We put the TV on and were watching it like everybody else. New York city has three major airports within 40 miles from each other, so we thought either the pilot had a heart attack or a small plane had hit the building; nobody knew anything. As we were watching this the second plane came and hit the second tower, then we knew it was terrorism.

We were told to get into our uniforms and stand by. Around noon we received the order to go, so we jumped into our unmarked police cars, drove through the west side highway of Manhattan, parked our cars and by 13 or 13:15 I was down there. It was chaos, they had us in uniforms but they didn't really know what to do with us; my lieutenant volunteered and said "I'll take my people from my team and we'll march in", which we did. They gave us these masks that we put on our mouths, but it was just a paper mask, not a very good one. We walked in and it was wild, there were a couple of buildings on fire, one of which was World Trade Center 7. We were a couple of blocks away and we could feel the heath and see flames coming out of the windows of these buildings.

The closer you got to the World Trade Center the darker it got, because when the buildings collapsed you had this volcanic ash and dust that was thrown into the air: concrete, asbestos, anything else that got pulverized went up into the air. So the closer you got the more difficult it was for sunlight to get through the particles, it was like a twilight in broad daylight. Everything was covered with this ash. And one thing I'll never forget is there were thousands and thousands of pairs of women high heel shoes, because a lot of women who worked in the financial district were wearing them but when you have to run you can't run in high heel shoes, so they took them off and just threw them in the street and took off. It looked like a movie: you had hot dog trucks abandoned, everything else you can think of was abandoned and covered with that ash. It was very hot and itchy in those polyester uniforms because of the toxic dust blowing all around us. It was a ghost town down there. For a while, it felt like my co-workers and I were the only people in the area.

As we got up to the World Trade Center, a piece of the facade had come down thousands of feet and embedded itself in the concrete in front of this tremendous pile. It looked like the last scene of "The Planet of the Apes" when Charlton Heston sees the head of the Statue of Liberty on the beach. I had seen many terrible things: car accidents, people stabbed or people shot, but I could not wrap my head around what I was looking at.


Nothing was open, so you couldn't get water or use the bathroom. So we started looking for a place to take a break, and that's where we found an office building on Broadway with some of the maintenance workers hadn't leaved. They let us into the building to take a break, to take our masks off and get some water. One of the guys who worked in that building was from Afghanistan but had worked in the United States more than twenty years and he explained us, chapter and verse, what was going on, he explained us about the Taliban and Osama bin Laden. I knew who the Taliban were and I knew about Osama bin Laden, that he was behind the two attacks to the embassies in Africa and that he was on the FBI most wanted terrorists list, I knew he was making noise about hitting the United States, but this man explained us the details about how the Taliban came in, took over his country and gave refuge to all these jihadists. Everything started to make sense, as much sense as it could make.

It was so chaotic. I remember when we walked up to the pile on day one a guy walked passed us in something that looker a space suit and he had some kind of device that looked like a Geiger counter. We looked at him and said "Does this guy work for the government or is he just a random nut with a Geiger counter who thought 'Today is the day I'm going to use my Geiger counter'?"

The first day we didn't have a perimeter set around the area like we had in following days when you couldn't get down there unless you could produce ID and explain what you had to do in the area.

I remained there till 5 or 6 the morning after, they told us to go home, run our clothes through a washing machine because the dust was toxic and we were required to show up at the Bronx at 5:30 pm. By 7:30 at night I was at Ground Zero again and stayed there till 6 o'clock in the morning, I did that for the first couple of days. But we didn't really do rescue and recovery because there was no real organization, it was still cahos. By the second day there were a lot of different police agencies from other states and some squads with cadaver dogs. A day or two later there was a Winnebago camper with a bunch of cops from Chicago, I remember thinking "Wow! How fast do these guys drive to be here in a day and a half?"

All the cars in the area that were not crashed had ash all over. Cops have like a gallows humor and I remember walking past a car and someone had written in the ash "Fuck you bin Laden. We are coming for you".

The days after they put a perimeter so that people couldn't get in and start stealing things, but that happened anyway and the police were catching imposters pretending to be off duty police officers, people showing up in firemen costumes, bogus charities that didn't exist trying to raise money. People would also go down there to try to steal motorized scooters or power generators and were getting caught.

There was nobody alive in the rubble, it was clear to us after a few days but we couldn't say that because there were thousands of people hoping that their loved ones could somehow get out of that. But being down there we knew no one was going to come out of that. It was like pulverization of humanity.

My team and I were going building to building in the outskirts of Ground Zero and we would go to the roof to look for remains of the aircrafts. We went on the roof of a building in Murray Street and we found a piece of landing gear, it went several blocks away from the Towers.

After a week they pulled us out, I was not there for a couple of weeks and then they sent us back to do the bucket brigade. We were like ants on a pile of sugar, we were a single line of a hundred cops and firemen, we were bringing debris down in a five gallon bucket and everybody was passing it down the line. At the certain point they said "We have to speed this up" and they brought in heavy equipment that started pulling large sections out. After that in Staten Island in an abandoned dump that the city had closed decades before they brought large sections of debris from the World Trade Center so that we could sift through them to look for evidence or remains. I got sent there and since my team worked in auto crime we were give special equipment like the Jaws of Life to cut and open cars, trucks and firetrucks that got pulled out to make sure no one had perished inside.

The NYPD treated us well during that period. There was a church a couple of blocks away from Ground Zero where you can go to take a break; there was a woman playing the piano and they had professional masseuses giving massages. We weren't used to that treatment in NYPD. Also famous people volunteered their time to came to visit us. I saw Robert De Niro who came while we were taking a break and he shook everybody's hands.


Undicisettembre: Have you seen World Trade Center 7 collapse?

Vic Ferrari: No, but we heard it. We went passed it while making our way to a bus a block or two away, we heard it and we jumped out of the bus, even out of the windows, and run for our lives because we didn't know if it was going to come over us. It was a tremendous sound.


Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life, if it does?

Vic Ferrari: Today it doesn't. It was a terrible and horrific thing, but I don't have nightmares from it. It was one of the worst things I've even seen, but to be successful in the line of work that I was in you have to be able to compartmentalize things. Especially when going through something like that you have to tell yourself "Yes, this is bad but I can't go to pieces; I have to fight through this, things will get better, I have to push through this".

There were people who had problems as a result of this and I can call myself very lucky. Probably it's my personality type. It's one of the worst days in American history and in my lifetime but I moved passed it.


Undicisettembre: You now live far away from New York so I understand you cannot easily attend celebrations like for the anniversaries, but what do you think of those?

Vic Ferrari: It's a good thing to remember so people don't forget it because in the United States we tend to forget about things and that day should not be forgotten. There are a lot of people who lost their lives as a result of that, I knew people who died on the first day and I know a lot of cops and firemen who died of cancer in the following years as a result of being down there. They told us in the first couple of days that the air was safe, but it wasn't. I also have to go every year to cancer screening, so it's always on the back of my mind.


Undicisettembre: What is your personal opinion about what happened in Afghanistan? Was going away like that the only possible thing to do or was there another option?

Vic Ferrari: There's always another option, we never learn from our mistakes. We pushed the Soviets out and provided Afghans with stinger missiles that ended up in the hands of the Taliban and of the other jihadists. We tend to leave something alone and create a vacuum, then some scumbag takes over and this is what happened this time too.

World Trade Center: intervista all'ex detective dell'NYPD Vic Ferrari

di Leonardo Salvaggio. L'originale in inglese è disponibile qui.

Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori il racconto personale dell'ex detective dell'NYPD Vic Ferrari che l'11/9 era in servizio e arrivò sulla scena dopo il crollo di entrambe le torri.

Ringraziamo Vic Ferrari per la sua cortesia e disponibilità.




Undicisettembre: Cosa ricordi dell'11 settembre? Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto quel giorno?

Vic Ferrari:
Ho lavorato per la polizia di New York per vent'anni, quando avvenne l'11 settembre erano quattordici anni che ci lavoravo. Quel giorno era martedì e c'erano le elezioni, il mio ufficio era nel Bronx da cui si raggiungevano le Torri Gemelle in tre quarti d'ora o un'ora di macchina. Nei giorni prima avevo arrestato un uomo che vendeva veicoli rubati, era in prigione a Manhattan, e quel giorno dovevo andare in tribunale a Manhattan con il mio sergente e avremmo incontrato il suo avvocato difensore. Lo volevamo portare fuori di prigione perché sarebbe diventato un informatore, ci avrebbe portato a persone che vendevano auto rubate e conosceva un uomo che lavorava nel Dipartimento dei Veicoli a Motore che vendeva patenti false.

Ci saremmo incontrati alle nove a Manhattan. Così arrivai nel Bronx alle sette. Alle otto il mio sergente, che doveva venire con me, non era ancora arrivato. Arrivò pochi minuti dopo e io guardando l'orologio gli dissi "Dai, dobbiamo andare! Ci vorrà un'ora per andare a Manhattan e trovare parcheggio". Lui continuava a fare le cose con calma, senza fretta. Il nostro ufficio era al secondo piano della stazione di polizia, uno dei poliziotti corse di sopra, entrò nell'ufficio della squadra investigativa e disse "Accendete la TV, un aereo ha appena colpito il World Trade Center". Accendemmo la TV e iniziammo a guardare come chiunque altro stava facendo. La città di New York ha tre aeroporti principali entro un raggio di settanta chilometri l'uno dall'altro, quindi abbiamo pensato che un pilota avesse avuto un infarto o che un piccolo aereo avesse colpito l'edificio; nessuno sapeva niente. Mentre stavamo guardando, il secondo aereo arrivò e colpì la seconda torre, quindi capimmo che si trattava di terrorismo.

Ci venne detto di indossare le nostre uniformi e restare in attesa. Verso mezzogiorno ricevemmo l'ordine di partire, quindi salimmo sulle nostre auto della polizia senza loghi, attraversammo l'autostrada sul lato ovest di Manhattan, parcheggiammo le nostre auto e alle 13 o 13:15 ero là. C'era il caos, eravamo in divisa ma non sapevano proprio che incarico darci; il mio luogotenente si fece avanti e disse "Prendo la mia squadra e andiamo sulla scena", e così facemmo. Ci diedero delle maschere con cui ci coprimmo la bocca, ma erano semplici maschere di carta, non servivano a molto. Arrivammo ed era tutto folle, c'erano degli edifici in fiamme, uno dei quali era il World Trade Center 7. Eravamo a un paio di isolati di distanza eppure sentivamo il calore e vedevamo le fiamme uscire dalle finestre di questi edifici.

Più ci avvicinavamo al World Trade Center più diventava buio, perché quando gli edifici sono crollati hanno sollevato ceneri e polvere come in un'eruzione vulcanica che venivano lanciate in aria: cemento, amianto, qualsiasi altra cosa che era stata polverizzata volava nell'area. Quindi più ci avvicinavamo, più difficile era per la luce del sole passare attraverso il particolato, era come un crepuscolo in pieno giorno. Tutto era ricoperto da questa cenere. E una cosa che non dimenticherò mai è che c'erano migliaia e migliaia di paia di scarpe da donna con tacco alto, perché molte donne che lavoravano nel distretto finanziario le avevano indossate ma dovendo scappare e non potendo correre con i tacchi alti se le erano tolte, le avevano gettate in strada ed erano scappate. Sembrava un film: c'erano furgoni che vendano hot dog abbandonati, tutto ciò a cui si possa pensare era abbandonato e ricoperto da quella cenere. Faceva molto caldo e avevamo prurito in quelle uniformi di poliestere a causa della polvere tossica che volava tutto intorno a noi. Era una città fantasma. Per un po' mi sembrò che io e i miei colleghi fossimo le uniche persone della zona.

Quando arrivammo al World Trade Center vedemmo un pezzo della facciata che era caduto da centinaia di metri di piedi e si era incastrato al suolo di fronte al terribile cumulo di macerie. Sembrava la scena finale de "Il pianeta delle scimmie" quando Charlton Heston vede la testa della Statua della Libertà sulla spiaggia. Avevo già affrontato molte scene terribili: incidenti automobilistici, persone accoltellate o colpite da colpi di arma da fuoco, ma non riuscivo a a dare un senso a ciò che stavo guardando.


Non c'era nulla di aperto, quindi non potevamo prendere acqua da bere o usare un bagno. Così iniziammo a cercare un posto dove fermarci per una pausa, e trovammo un palazzo di uffici a Broadway in cui alcuni addetti alla manutenzione non erano usciti. Ci fecero entrare per fare una pausa, toglierci le mascherine e bere un po' d'acqua. Uno dei manutentori veniva dall'Afghanistan ma lavorava negli Stati Uniti da più di vent'anni e ci spiegò in dettaglio cosa stava succedendo, ci spiegò dei Talebani e di Osama bin Laden. Sapevo chi erano i talebani e sapevo di Osama bin Laden, che c'era lui dietro i due attentati alle ambasciate in Africa e che era nella lista dei terroristi più ricercati dell'FBI, sapevo che incitava i terroristi a colpire gli Stati Uniti, ma quest'uomo ci spiegò i dettagli su come i Talebani avevano preso il controllo del suo paese e avevano dato un rifugio a tutti questi jihadisti. Tutto iniziò ad avere un senso, per quanto potesse averne.

Era il caos totale. Ricordo che quando ci siamo avvicinammo alla pila il primo giorno, un uomo che indossava qualcosa che sembrava una tuta spaziale ci passò accanto, aveva con sé un dispositivo che sembrava un contatore Geiger. Lo guardammo e ci dicemmo "Quest'uomo lavora per il governo o è solo un matto a caso che ha un contatore Geiger e che ha pensato 'Oggi è il giorno in cui userò il mio contatore Geiger'?"

Il primo giorno l'area non era delimitata come lo sarebbe stato nei giorni successivi quando non si poteva entrare sulla scena senza un tesserino di identificazione e spiegando qual era il proprio ruolo.

Rimasi lì fino alle 5 o le 6 del mattino dopo, quindi ci dissero di andare a casa, di lavare i vestiti in lavatrice perché la polvere era tossica e di presentarci nel Bronx alle 17:30. Alle 19:30 ero di nuovo a Ground Zero e ci sono rimasto fino alle 6 del mattino, lo feci per i primi due giorni. Non prendemmo parte al soccorso e recupero perché non c'era una vera organizzazione, era ancora il caos. Il secondo giorno c'erano molte diverse agenzie di polizia di altri stati e alcune squadre con cani da cadavere. Un giorno o due dopo c'era un camper Winnebago con un gruppo di poliziotti di Chicago, ricordo di aver pensato "Wow! Quanto guidano veloce questi ragazzi per essere qui in un giorno e mezzo?"

Tutte le auto della zona che non erano rimaste schiacciate erano ricoperte di cenere. I poliziotti hanno un umorismo nero e ricordo di essere passato davanti a un'auto su cui qualcuno aveva scritto nella cenere "Fottiti bin Laden. Veniamo a prenderti".

I giorni dopo l'area era stata delimitata in modo che nessuno potesse entrare a rubare cose, ma è successo lo stesso e la polizia catturò impostori che fingevano di essere agenti di polizia fuori servizio, persone che si presentavano con costumi da pompiere, enti di beneficenza fasulli che non esistevano e che cercavano di raccogliere fondi. La gente andava nella zona anche per cercare di rubare monopattini elettrici o generatori di corrente e veniva scoperta.

Non c'era nessuno vivo tra le macerie, lo capimmo dopo pochi giorni ma non potevamo dirlo perché c'erano migliaia di persone che speravano che i loro cari potessero in qualche modo uscirne. Ma noi che eravamo lì sapevamo che nessuno ne sarebbe uscito. Era come la polverizzazione dell'umanità.

Io e la mia squadra andavamo da un edificio all'altro nelle vicinanze di Ground Zero per andare sui tetti a cercare resti degli aerei. Salimmo sul tetto di un edificio a Murray Street e trovammo un pezzo di carrello di atterraggio che era finito a vari isolati dalle Torri.

Dopo una settimana ci tolsero da quell'incarico, prima della fine della seconda settimana ci mandarono alla brigata del secchio. Eravamo come formiche su un mucchio di zucchero, eravamo un'unica fila di un centinaio di poliziotti e vigili del fuoco, riempivamo di detriti dei secchi da venti litri e li facevamo passare lungo la fila. A un certo punto dissero "Dobbiamo fare più in fretta" e portarono attrezzature pesanti con cui hanno estratto pezzi più grossi. Dopodiché a Staten Island, in una discarica abbandonata che era stata chiusa decenni prima, furono portati grandi pezzi di detriti dal World Trade Center in modo che potessimo setacciarli per cercare prove o resti. Venni mandato lì e, poiché la mia squadra lavorava nel crimine legato alle automobili, ci diedero strumenti speciali come gli utensili idraulici per il soccorso per tagliare e aprire auto, furgoni e camion dei pompieri che erano stati estratti per assicurarci che nessuno fosse morto all'interno.

La polizia di New York ci trattò bene durante quel periodo. C'era una chiesa a un paio di isolati da Ground Zero dove potevamo andare a fare una pausa; c'era una donna che suonava il pianoforte e c'erano massaggiatrici professioniste che facevano massaggi. Non eravamo abituati a quel trattamento alla polizia di New York. Anche personaggi famosi sono spontaneamente venuti a trovarci. Ho visto Robert De Niro che è venuto mentre facevamo una pausa e ha stretto la mano a tutti.


Undicisettembre: Hai visto crollare il World Trade Center 7?

Vic Ferrari: No, ma l'abbiamo sentito. Ci siamo passati accanto mentre ci dirigevamo verso un autobus a un isolato o due di distanza, l'abbiamo sentito crollare e siamo saltati giù dall'autobus, anche dai finestrini, per scappare e salvarci la vita perché non sapevamo se sarebbe crollato verso di noi. È stato un rumore tremendo.


Undicisettembre: In che modo l'11 settembre influisce sulla tua vita quotidiana, se lo fa?

Vic Ferrari: Oggi no. È stata una cosa terribile e orribile, ma non ho incubi. È stata una delle cose peggiori che abbia mai visto, ma per avere successo nella linea di lavoro in cui mi trovavo devi essere in grado di tenere divise le cose. Soprattutto quando affronti qualcosa del genere devi dire a te stesso "È vero, è brutto ma non posso andare in pezzi; devo lottare, le cose andranno meglio, devo farcela".

Ci sono persone che hanno avuto problemi a causa di quanto accaduto e posso ritenermi molto fortunato. Probabilmente è il mio tipo di personalità. È stato uno dei giorni peggiori della storia americana e della mia vita, ma l'ho superato.


Undicisettembre: Ora vivi lontano da New York quindi capisco che non puoi partecipare facilmente a celebrazioni come per gli anniversari, cosa ne pensi in ogni caso?

Vic Ferrari: È una buona cosa commemorare, così che la gente non lo dimentichi perché negli Stati Uniti tendiamo a dimenticarci delle cose e quel giorno non deve essere dimenticato. Ci sono molte persone che hanno perso la vita a causa di ciò che è successo, conoscevo persone che sono morte il giorno stesso e conosco molti poliziotti e vigili del fuoco che sono morti di cancro negli anni successivi per il fatto di essere stati lì. Ci hanno detto nei primi due giorni che l'aria era sicura, ma non lo era. Devo fare ogni anno lo screening del cancro, quindi rimane sempre nel retro della mia mente.


Undicisettembre: Qual è la tua opinione personale su quanto accaduto in Afghanistan? Andarsene in quel modo era l'unica cosa possibile o c'era un'altra possibilità?

Vic Ferrari: C'è sempre un'altra possibilità, non impariamo mai dai nostri errori. Abbiamo cacciato i sovietici e fornito agli afghani missili stinger che sono finiti nelle mani dei Talebani e degli altri jihadisti. Tendiamo ad abbandonare certe situazioni e a creare il vuoto, poi subentra qualche bastardo ed è quello che è successo anche questa volta.