2020/05/27

Chi sono i sauditi coinvolti nei rapporti con i dirottatori

di Leonardo Salvaggio (Hammer)

Alcune settimane fa l'FBI ha per errore depositato in tribunale, nell'ambito di una causa intentata da famiglie delle vittime dell'11/9 contro il regime saudita, un documento che rivelava il nome di un funzionario dell'ambasciata di Riyadh a Washington che fornì aiuto logistico a Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi durante il periodo che trascorsero in California.


Il nome dell'uomo è Mussaed Ahmed al-Jarrah e le informazioni su di lui sono al momento molto scarse. In ogni caso, il fatto che Fahad al-Thumairy e Omar al-Bayoumi, i due sauditi citati dalle 28 pagine del Joint Inquiry desecretate nel 2016, non avessero agito da soli nel fornire aiuto logistico ai dirottatori era noto da tempo.

Da una dichiarazione dell'ex agente speciale dell'FBI Catherine Hunt, pubblicata dal giornalista investigativo Michael Isikoff nella suo recente articolo sul al-Jarrah, e da un rapporto dell'FBI del 2012, reso pubblico nel 2016 ancora fortemente censurato, le persone riconducibili al governo saudita che collaborarono con al-Thomairy e al-Bayoumi nel dare supporto ai due terroristi sono addirittura sette e nella dichiarazione di Hunt è riportata la lista integrale dei loro nomi. Tra loro compare al-Jarrah e Smail Mana (anche noto come Ismail Mana), che è un altro funzionario governativo, in quanto lavorava per il consolato saudita a Los Angeles. Due delle persone elencate, Adel Mohamed al-Sadhan e Mutaeb Abdelaziz al-Sudairy, lavoravano per il Ministero degli Affari Islamici. Al-Bayoumi incaricò inoltre altre tre persone di assistere i due dirottatori: i nomi del collaboratori sono Mohdar Abdullah, Mohamed Johar e Akram Alzamari. Il primo dei tre è yemenita; non sono note le nazionalità degli altri due.

Una dichiarazione dell'ex agente dell'FBI Stephen Moore, che oggi assiste le famiglie delle vittime, chiarisce che il primo punto di contatto per al-Mihdhar e al-Hazmi era al-Thumairy, e che il gruppo guidato dai sauditi diede loro aiuto nel trovare una casa, pagare l'affitto, trovare un'automobile, imparare la lingua e anche frequentare la formazione da pilota di linea (anche se poi il pilota di American Airlines 77 fu Hani Hanjour). Senza questo supporto, specifica Moore, sarebbe stato molto difficile per loro muoversi negli Stati Uniti, visto che non parlavano inglese né conoscevano gli usi locali.

Undicisettembre ha chiesto all'ex agente speciale dell'FBI Mark Rossini (che svolge consulenza per Undicisettembre dal 2016 e che ci ha concesso un'intervista, ha scritto una dichiarazione sulle 28 pagine e ci ha autorizzato a tradurre e pubblicare un suo lungo scritto sulle responsabilità del governo di Riyadh) un parere sul fatto che i sauditi abbiano aiutato i terroristi di al-Qaeda a frequentare le scuole di volo e come questo sia compatibile con l'ipotesi che al-Bayoumi e i suoi collaboratori fossero in realtà agenti dei servizi segreti che stavano indagando su al-Qaeda e che volevano reclutare al-Hazmi e al-Mihdhar come informatori. Rossini ritiene tuttora che lo scopo dell'avvicinamento ai terroristi fosse quello di reclutarli, ma nel fare ciò a causa dell'incompetenza di al-Bayoumi e al-Jarrah non capirono le intenzioni dei terroristi né perché volessero frequentare scuole di volo, portando così al disastro che avvenne nel 2001. Undicisettembre concorda con il parere di Mark Rossini, anche perché non emerge da nessuna parte che al-Bayoumi o al-Jarrah conoscessero le vere intenzioni di al-Hazmi e al-Mihdhar.

Quanto noto finora è frutto di un'indagine sui rapporti tra Riyadh e i terroristi avviata dall'FBI nei primi anni 2000 chiamata Operation Encore: il nome dell'operazione è stato rivelato dal New York Times solo a gennaio di quest'anno. Quello tra le connessioni tra il regime saudita e i dirottatori è il più fitto mistero riguardo agli attentati dell'11/9, e finalmente grazie alle indagini dell'FBI qualche pezzo del puzzle si sta componendo.

2020/05/13

L'FBI rivela il nome di un funzionario dell'ambasciata saudita che aiutò i dirottatori

di Leonardo Salvaggio (Hammer)

Un documento depositato in tribunale dall'FBI nell'ambito di una causa intentata da alcune famiglie di vittime degli attentati dell'11/9 contro il regime saudita, ritenuto complice dell'attacco, rivela il nome di un funzionario dell'ambasciata dell'Arabia Saudita negli Stati Uniti che avrebbe aiutato e dato supporto logistico a Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi, dirottatori del volo American Airlines 77 che si schiantò contro il Pentagono, durante il periodo che trascorsero negli USA.

Il documento è stato depositato erroneamente dall'assistente direttrice della divisione antiterrorismo Jill Sanborn: infatti il nome del funzionario saudita è censurato in quasi tutto il testo ed è visibile in una sola occasione.

L'ambasciata saudita a Washington


Nel documento compare solo il cognome dell'uomo: Jarrah. Secondo la ricostruzione del giornalista investigativo Michael Isikoff si tratterebbe di Mussaed Ahmed al-Jarrah che lavorò a Washington nel 1999 e nel 2000. Nei suoi incarichi rientrava quello di supervisionare le attività delle moschee che ricevevano sovvenzioni dall'Arabia Saudita per conto del Ministero degli Affari Islamici. Dopo aver lavorato negli USA l'uomo fu spostato alle ambasciate saudite di Malesia e Marocco, dove sarebbe rimasto almeno fino allo scorso anno.

Il nome di Mussaed Ahmed al-Jarrah (che non ha alcun legame con il dirottatore pilota di United Airlines 93 Ziad Jarrah, essendo quest'ultimo libanese) si aggiunge a quelli di Fahad al-Thumairy, citato nelle 28 pagine del Joint Inquiry rilasciate nel 2016, e a quello del ben più noto Omar al-Bayoumi, che ad oggi sembra aver avuto il ruolo principale nell'aiuto logistico ai due dirottatori.

La teoria più probabile per giustificare il supporto dato ai dirottatori è che degli agenti dei servizi segreti sauditi stessero indagando su degli individui legati ad al-Qaeda, forse allo scopo di arruolarli come informatori, e che abbiano al contempo sottovalutato la minaccia.

Questo documento da poco trapelato conferma che l'Arabia Saudita ha in ogni caso delle grosse responsabilità, e anche che per quanto l'amministrazione Trump tenti di nascondere il ruolo dei sauditi in quanto accaduto, prima o poi anche i peggiori segreti emergono.

2020/05/11

L'aereo che si schiantò contro un grattacielo a Wall Street

di Leonardo Salvaggio (Hammer)

Il bombardiere B-25 che si schiantò contro l'Empire State Building nel luglio del 1945 non fu l'unico velivolo a colpire un grattacielo di New York per errore. Pochi mesi dopo, il 20 maggio del 1946, un Beechcraft C-45 militare si schiantò contro la facciata a nord-ovest del palazzo al numero 40 di Wall Street, al tempo noto semplicemente come 40 Wall Street e oggi chiamato Trump Building (da non confondere con la Trump Tower della Quinta Avenue) da quando nel 1995 l'attuale presidente degli USA comprò la struttura. L'edificio, completato nel 1930, ha 72 piani ed è alto 283 metri.

Il velivolo era decollato dal Chennault International Airport di Lake Charles, in Louisiana, alle 14:16 locali (le 15:16 a New York) ed era diretto all'aeroporto di Newark. Alle 20:10, mentre si trovava in fase di avvicinamento alla propria destinazione, l'aereo colpì il palazzo di Wall Street all'altezza del cinquantottesimo piano. Il Beechcraft C-45 ha una massa a vuoto di circa due tonnellate e mezza e raggiunge una velocità massima di 230 chilometri orari: è quindi ovviamente molto più piccolo e leggero dei Boeing 767 che si schiantarono contro le Torri Gemelle e anche del B-25 che colpì l'Empire State Building.

Lo schianto causò un buco nella facciata di sei metri per tre e parte dei detriti cadde all'esterno: un pezzo del carrello e un pezzo di motore caddero in Pine Street (la strada su cui si affaccia il lato nord-est dell'edificio) mentre un altro pezzo di motore uscì dalla fiancata di sud-est del palazzo e fu trovato nei piani interrati dell'edificio adiacente, al numero 44 di Wall Street. La valigia di uno dei passeggeri fu trovata intatta sul davanzale di una finestra al sedicesimo piano del numero 30 di Pine Street e un paracadute aperto fu trovato sulla pensilina dell'ottavo piano, forse in seguito di un disperato tentativo di fuga di uno degli occupanti resosi conto del tragico destino a cui il velivolo stava andando incontro. Nel palazzo si svilupparono due incendi: uno nella zona dello schianto e uno al ventiquattresimo piano, dove erano atterrati alcuni detriti.

Immagine tratta dal sito di vendita online di giornali storici RareNewspapers.com

Tutti i cinque passeggeri del velivolo, un maggiore, un capitano e tre tenenti dell'esercito, persero la vita nello schianto, mentre nessuno dei duemila occupanti del palazzo fu coinvolto nell'incidente, così come nessuno per strada fu colpito dalle macerie dell'aereo cadute all'esterno, in quanto a quell'ora non passava nessuno per le strade adiacenti al palazzo.

La causa dell'incidente fu la fitta nebbia che quella sera avvolgeva la città di New York, causando scarsa visibilità e costringendo il pilota a volare sotto la nube di foschia. Due incidenti nel giro di meno di un anno confermarono che il rischio di schianti analoghi era concreto ed era infatti proprio questo lo scenario previsto dai progettisti delle Torri Gemelle: lo schianto volontario e a pieno carico di carburante non era immaginabile negli anni 60.