di Hammer. L'originale in inglese è disponibile qui.
Offriamo oggi ai nostri lettori il racconto personale dell'ex agente dello US Secret Service Samantha Horwitz che l'11/9 intervenne a Ground Zero tra i primi soccorritori. Dopo l'11/9 Samantha Horwitz fu colpita da stress post traumatico e per raccontare la sua storia e come ne è uscita ha scritto un libro intitolato The Silent Fall.
Ringraziamo Samantha Horwitz per la sua cortesia e disponibilità.
Offriamo oggi ai nostri lettori il racconto personale dell'ex agente dello US Secret Service Samantha Horwitz che l'11/9 intervenne a Ground Zero tra i primi soccorritori. Dopo l'11/9 Samantha Horwitz fu colpita da stress post traumatico e per raccontare la sua storia e come ne è uscita ha scritto un libro intitolato The Silent Fall.
Ringraziamo Samantha Horwitz per la sua cortesia e disponibilità.
Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l'11/9?
Samantha Horwitz: Stavo andando al lavoro, l'ufficio di New York dei servizi segreti si trovava nel World Trade Center 7, e mentre andavo al lavoro sono rimasta bloccata per via di un imprevisto che, al tempo non ci pensai, mise in moto eventi che cambiarono per sempre la mia vita. Quando arrivai nel mio ufficio e parcheggiai sotto alla Torre 1 del World Trade Center, che era il nostro parcheggio, sono entrata nell'ascensore per salire al livello della Plaza e mentre ero all'interno dell'ascensore pensai che ci fosse un malfunzionamento e che stavo per rimanere bloccata. Le luci tremarono e la vettura dell'ascensore vibrò, non sapevo che novantaquattro piani sopra il volo 11 dell'American Airlines aveva appena colpito la torre.
Siamo stati molto fortunati che le porte dell’ascensore si siano aperte. Ci imbattemmo in un campo di detriti che si era già formato nell'area della lobby. Uscii dall'ascensore, salii per una scala mobile e usai un’uscita che non avevo mai usato prima in tutto il tempo che avevo lavorato lì. Mi portò al livello della Plaza, dove mi dovetti fermare per quello che vidi: i detriti piovevano dal cielo. Pezzi di metallo, pezzi di cemento e pezzi di persone. Sapevo che era accaduto qualcosa di molto brutto, pensavo fosse stata una bomba di qualche tipo che era stata fatta esplodere e arrivai fino a di fronte all'edificio 7 e potei vedere nella hall.
Potei vedere alcuni dei miei compagni di squadra e il mio supervisore che mi faceva segno di allontanarmi. Nel punto in cui mi fermai ero protetta dai detriti e dovetti correre attraverso un ponte pedonale che arrivava alla Plaza del World Trade Center, attraversai Vesey Street e arrivai nel mio edificio. Quindi iniziai a correre ed entrai nell’edificio. Pensavamo tutti che la polvere si sarebbe depositata e avremmo indagato su ciò che era appena accaduto. Poco dopo, la Torre 2 fu colpita e vedemmo il vetro del nostro edificio piegarsi verso l'interno e andare quasi in frantumi. Siamo stati fortunati che abbia tenuto, poi ci guardammo, non dovemmo dire una parola. Tutti stavamo pensando la stessa cosa “Siamo il terzo edificio più alto del complesso del World Trade Center e siamo i prossimi.”
Oltre all'ufficio di New York dei servizi segreti nel World Trade Center 7 c’erano l'ufficio di gestione delle emergenze del sindaco Giuliani e altre agenzie di cui il pubblico non era a conoscenza. Decidemmo di evacuare il palazzo, arrivammo alla West Side Highway, da dove vedemmo per la prima volta ciò che era accaduto. Mentre eravamo sulla West Side Highway e guardavamo la Torre 1 e si vedeva un enorme buco e la Torre 2 dietro di essa. Ne usciva una fitta scia di fumo nero. Non sapevamo in quel momento che aerei di linea si fossero schiantati nelle torri.
Rimanemmo lì a valutare la situazione come farebbe qualsiasi buon investigatore della scena del crimine, a capire che tipo di esplosione fosse. La nostra concentrazione fu interrotta da un altro agente che arrivò in macchina, frenò di colpo con il suo veicolo governativo attirando la nostra attenzione e ci chiese se avessimo visto gli aerei. Non comprendevamo e dicevamo "Di cosa stai parlando? Gli aerei non volano contro gli edifici più alti di New York City. Li avremmo visti, sono enormi”.
Insisteva che fossero aerei e poi sentimmo dalla sua radio che il Pentagono era stato colpito. Quindi pensammo “Ok, siamo in guerra. C'è qualcosa che va drammaticamente male qui." e noi come primi soccorritori pensammo immediatamente "Beh, se siamo in guerra, dov'è il nemico?" Eravamo armati e non c'era nessuno a cui sparare e nella nostra mente stavamo cercando di capire.
Aerei di linea passeggeri si erano appena schiantati contro la Torre 1 e la Torre 2 e contro il Pentagono, che cosa sarebbe successo dopo? Guardavamo questa scena orribile, non c'è davvero altra parola per descriverla. Poco dopo, vedemmo le persone iniziare a saltare giù dalla Torre 1 e dopo la decima smisi di contarle, potevamo sentirle quando colpivano il suolo. Eravamo tanto vicini che potevamo sentire l'onda d'urto.
Vedevamo il fumo e il fuoco continuare a uscire. Come puoi immaginare c'erano molti suoni diversi per via di ciò che stava succedendo e c'era questo suono particolare che spiccava, era come un orso grizzly che emetteva un ringhio molto profondo; divenne sempre più forte e poi all'improvviso la Torre 2 crollò. Corremmo via ed entrammo nell'edificio più vicino che avesse una porta aperta ed era una scuola. Penso fossimo in trenta, ovviamente attirammo l'attenzione della segreteria e arrivò il preside.
Lo informammo di ciò che stava accadendo e decidemmo che saremmo tornati indietro e saremmo andati dove la torre era crollata perché dovevano esserci persone da salvare. Questo è ciò che facciamo come primi soccorritori. Rispondere alle emergenze quotidiane non era necessariamente parte della missione dei servizi segreti, ma eravamo addestrati a farlo; siamo altamente qualificati nel primo soccorso. C'era però un grosso problema: quella polvere. Non potevamo stare all’aperto senza avere la bocca e il naso coperti. Un gruppo di ragazzi iniziò a strappare le magliette in modo che potessimo improvvisare delle bandane attorno ai nostri volti. Io e altri due agenti decidemmo di rimanere nella scuola per organizzare lo smistamento in modo da poter ricevere le vittime che arrivavano da noi, avremmo potuto indirizzarle e poi coordinare le ambulanze in modo che li portassero negli ospedali.
Non successe niente di tutto ciò perché circa trenta minuti dopo la scuola ricevette l'ordine di evacuare. Eravamo a circa tre isolati da quello che sarebbe stato chiamato Ground Zero entro la fine della giornata. Io stessa, i due agenti che erano con me, il preside e uno studente alto circa un metro e ottanta e il suo assistente fummo gli ultimi a uscire da quella scuola e quello che non sapevamo era che la scuola era formata da una grande popolazione di ragazzi con disabilità fisiche e mentali. Quindi abbiamo condotto un'evacuazione con deambulatori, sedie a rotelle, stampelle.
Stavamo tornando indietro verso la West Side Highway e lo studente era visibilmente scosso. Non aveva idea di chi fossimo e camminava troppo lentamente per un'evacuazione di emergenza, lo incoraggiammo a camminare più velocemente. Mentre percorrevamo la West Side Highway, sentimmo di nuovo quel basso rumore e quel ringhio e i due agenti e io ci guardammo e ci dicemmo "Dobbiamo correre ora!" Presi una delle gambe dello studente, l'altro agente prese un'altra gamba e il terzo agente lo prese sotto le scapole. Cominciammo a correre sulla West Side Highway. Avevamo una missione: superare in velocità quella nuvola di polvere proveniente dal crollo del World Trade Center 1 che veniva verso di noi. Lo abbiamo fatto, ci siamo voltati e abbiamo visto la polvere depositarsi.
Era come guardare una scena di un film horror: la gente usciva da questa nuvola di polvere completamente coperta, alcuni avevano sangue proveniente da diverse parti del corpo. Continuammo a camminare lungo la West Side Highway, ci voltammo ed apparve un'ambulanza. I paramedici tirarono fuori una barella, caricammo lo studente sulla barella e lui e il suo assistemte andarono in ospedale. La scena in cui trasportavamo lo studente fu riportata dalla rivista People. Non lo scoprii fino a quando qualcuno non me lo disse al telefono settimane dopo.
Ancora una volta ci chiedemmo “Cosa succederà dopo? E adesso cosa facciamo?” I nostri cercapersone cominciarono a suonare e ricevemmo un messaggio che ci diceva di andare al Pier 63, che è uno dei moli sul fiume Hudson. Quando arrivammo lì, i nostri supervisori avevano concordato con la polizia del parco di usare i loro battelli, per portarci da dove eravamo sul fiume Hudson al New Jersey, dove gli agenti dell'ufficio del New Jersey stavano già aspettando per portarci a casa perché avevamo perso tutti i nostri mezzi di trasporto. Tutti i veicoli del governo erano stati distrutti.
Non dimenticherò mai mentre mi allontanavo dal molo. Stavo guardando uno skyline che era cambiato per sempre, le due torri iconiche e ciò a cui tutti pensavano quando pensavano a New York City erano sparite, e al loro posto c'era solo un denso fumo nero. Per me iniziò un nuovo viaggio, chiamato affrontare lo stress post-traumatico.
I sintomi iniziarono appena tornai nel mio appartamento dove scopriie che non potevo rimanere in uno spazio chiuso perché mi avrebbe causato un attacco d'ansia, il mio cuore avrebbe iniziato a correre e avrei iniziato a sudare. Se fossi uscita all’aperto i sintomi sarebbero spariti. Gli incubi, l'ipervigilanza e il senso di colpa dei sopravvissuti alla fine mi portano a dovermi affidare all'alcol per riuscire a dormire la notte. Un giorno mi sono puntata una pistola alla testa, è arrivato a questo punto. Non è stato un momento divertente e non solo per me, so che anche altri agenti ne hanno sofferto.
Presto ci siamo resi conto, ed è quello che è successo a me, del gioco mentale che lo stress post traumatico creò in tutti noi. Ricordo di essermi seduta alla mia scrivania a leggere per l’ennesima volta lo stesso paragrafo di un rapporto che dovevo consegnare e pensai di star perdendo la testa. A quel tempo avevamo creato un ufficio temporaneo in alcuni spazi per uffici che avevamo trovato, perché il nostro edificio fu l'ultimo a crollare l'11 settembre e non avevamo nessun posto dove lavorare. Sapevo di non essere in grado di funzionare al 100%, quindi dissi ai miei supervisori "Non posso più andare avanti." e non sapevano come aiutarmi. Abbiamo fatto un debriefing con il personale del nostro quartier generale di Washington, ma a parte questo, nonostante lo avessimo chiesto, non ce ne fu, quindi presi la decisione molto difficile di dimettermi da agente. Non potevo prendermi delle responsabilità perché un agente che non funziona al 100% significa sostanzialmente che qualcuno potrebbe non andare a casa quella sera e non potevo averlo sulla mia coscienza.
Undicisettembre: Che cosa hai fatto nei giorni successivi all'11 settembre?
Samantha Horwitz: Abbiamo avuto alcuni giorni liberi, le uniche regole di base erano che dovevamo farci sentire dai nostri supervisori ogni giorno, una volta al giorno se non due, per far loro sapere che stavamo bene, perché alcuni agenti erano dispersi e altri erano morti. Ricevemmo l'ordine di presentarci all'aeroporto JFK per un debriefing che ebbe luogo tre giorni dopo ed è stato allora che il personale del quartier generale seppe dove eravamo e cosa avevamo visto.
Sapendo che eravamo stati esposti a quella polvere, ci fu ordinato di fare radiografie al torace, ma a quel tempo non si vedeva nulla. La mia famiglia era nel Maryland, io vivevo nel New Jersey e andavo in città da pendolare, e tornai nel in Maryland solo per andare via dalla città.
Undicisettembre: Che ruolo hai avuto nelle seguenti indagini e quali sono state le tue scoperte principali?
Samantha Horwitz: Il Secret Service fu incaricato di rintracciare i soldi utilizzati per l'11/9: quali banche erano coinvolte, all’estero e sul territorio nazionale, come i soldi erano stati scambiati tra i terroristi, come sono arrivati negli Stati Uniti. Ora conosciamo il resto della storia con Khalid Sheikh Mohammed e Osama bin Laden ed è stato molto gratificante essere d’aiuto. Facevamo parte della Joint Terrorism Task Force e abbiamo messo insieme i pezzi del puzzle. Siamo stati in grado di farlo e di riferire i nostri risultati collaborando con altre agenzie. Abbiamo individuato il capobanda che alla fine era lo stesso dell’attentato del 1993, ciò che è riuscito a fare l'11 settembre era quello che voleva fare nel 1993.
Undicisettembre: L'11 settembre come influisce sul lavoro quotidiano del Secret Service anche oggi?
Samantha Horwitz: Il più grande cambiamento che abbiamo visto dopo l'11 settembre fu quando il presidente Bush decise di creare il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, nessuno di noi pensava che saremmo stati assorbiti da quell'agenzia perché avevamo ruoli e competenze chiaramente definiti che l'altra agenzia non aveva, e quando accadde tutto cambiò. Avevo già dato le dimissioni insieme ad altri otto agenti, quindi non ho attraversato quel cambiamento nel comando.
Esaminiamo ogni caso di frode e vediamo se possiamo legarlo a un'organizzazione terroristica, non solo noi ma anche altre agenzie federali. L'indagine ha rivelato che i terroristi avevano le mani in molti affari diversi. Quindi una frode che veniva perpetrata dall’altra parte del mondo poteva finire per mettere soldi nelle loro banche e contribuire a finanziare attacchi terroristici. Come forze dell'ordine federali, abbiamo fermato numerosi attacchi sia qui sia all'estero. Man mano che la tecnologia si evolve e quando le attività bancarie diventano più sofisticate, i terroristi diventano più sofisticati. È nostro compito livellare il campo.
Undicisettembre: In che modo l'11 settembre influisce sulla tua vita quotidiana?
Samantha Horwitz: Mi considero uno dei più fortunati, nonostante il mio disappunto e la mia lotta dopo l'11 settembre ho ricevuto aiuto ed è stato molto efficace. È una terapia chiamata EMDR, Eye Movement Desensitization Reprocessing [ritrattamento della desensibilizzazione del movimento degli occhi, N.d.R.], e ciò che ha fatto è stato riportarmi indietro e aiutarmi a creare nuove sinapsi neurali, nuove connessioni cerebrali per cui se avessi sentito un forte botto o un aereo che volava basso non sarei entrata in modalità "scappa o combatti" e non sarei scattata. Ciò mi ha permesso di vivere di nuovo una vita normale, perché prima che se fossi stata in mezzo alla gente e fosse scoppiato un temporale, mi sarei nascosta sotto i mobili, quindi non volevo essere in mezzo alla gente per timore che potesse accadere. Questa terapia mi ha salvato la vita.
La copertina di The Silent Fall,
il libro di Samantha Horwitz
sulla sua esperienza dell'11/9.
Ogni tanto scatto, ma non ci sono flashback e non mi faccio prendere dall'ansia come una volta. Cerco di aiutare gli altri, siano essi veterani o forze dell'ordine locali o chiunque sia in prima linea tra i soccorritori esposti a traumi, a capire che c'è aiuto là fuori e che la situazione può migliorare.
Undicisettembre: Cosa pensi delle teorie del complotto secondo cui l'11 settembre fu un inside job?
Samantha Horwitz: Spesso le teorie del complotto mi sono state buttate in faccia a partire da uno o due anni dopo l'11 settembre e posso confermare al 100% ciò che è successo al WTC7. Non c'è nessun complotto, il governo non ha piazzato esplosivi in quell'edificio. Ho guardato ore e ore di video, ho parlato con ingegneri ed ero lì. Quando la Torre 1 è crollata, ha distrutto il lato frontale del WTC7 causando gravi danni all'edificio.
Oltre alla sede di New York del Secret Service, c'erano anche altre agenzie all'interno del WTC7; questo significa che tutto ciò che ci serviva per il nostro lavoro era dentro quell'edificio: munizioni, prove raccolte dalle scene del crimine, e c’era anche il materiale di altre agenzie, non solo noi. A Ground Zero c'erano dei vigili del fuoco che cercavano di spegnere l'incendio nel WTC7 e uno di loro all’improvviso mi chiese "Che cosa continua a esplodere all'interno di quell'edificio?" Dissi loro che c'erano molte munizioni.
Essendo un primo soccorritore, ho visto cose e so cose che questi teorici della cospirazione non sanno e non hanno visto. E ovviamente non hanno avuto effetti collaterali, io ho tossito per un anno intero dopo l'11 settembre e l'anno scorso ho temuto di avere un cancro. È stato vero, non era qualcosa che il governo ha ideato.
Non sto dicendo che alle agenzie non sia sfuggito qualcosa, è successo sicuramente. Voglio dire se qualcuno viene qui, va a una scuola di volo e impara solo a volare, ma non a decollare o atterrare, questo dovrebbe far scattare degli allarmi. Come mai nessuno ha fatto una telefonata? Come si sono mescolati nella società? Ovviamente non è facile, la gente vorrebbe fare il "quarterback del lunedì mattina" [chi dà giudizi sugli errori commessi quando ormai è troppo tardi, N.d.R.], come diciamo qui negli Stati Uniti, non possiamo impedire a tutti i cattivi di colpire e questo fa male. Ma i servizi segreti e altre agenzie stanno facendo tutto il possibile ogni giorno per assicurarci di vivere al sicuro.
Undicisettembre: Pensi che l'11 settembre avrebbe potuto essere evitato se le varie agenzie avessero comunicato meglio tra loro?
Samantha Horwitz: Vorrei dire "Sì", ma una cosa che abbiamo imparato in quel momento era che i gruppi terroristici sono molto pazienti e noi eravamo un po' troppo occupati e distratti, quindi non abbiamo prestato attenzione quanto avremmo dovuto. Penso che le agenzie comunichino molto meglio ora, condividendo informazioni per prevenire gli attacchi. Ma non so se l'11 settembre avrebbe potuto essere prevenuto.
Anche il presidente Clinton aveva come obiettivo Osama bin Laden molto prima dell'11 settembre, ma è facile giudicare a posteriori. Questo è ciò che si fa nei debriefing, quando qualsiasi agenzia di polizia fa una grande operazione, ci sediamo a un tavolo per chiederci “Cosa avremmo potuto fare di meglio? Cosa non avremmo dovuto fare? Come possiamo andare avanti e fare un lavoro migliore la prossima volta? ”Ed è quello che abbiamo fatto dopo l'11 settembre, abbiamo dovuto ammettere i nostri errori e che questi uomini ci sono sfuggiti.
Undicisettembre: Cosa ne pensi della sicurezza oggi? Il paese è più sicuro rispetto al 2001?
Samantha Horwitz: Assolutamente. Abbiamo attivato la sicurezza negli aeroporti perché non ce n'era prima, ora abbiamo la TSA, sia che li si ami sia che li si odi, e le agenzie comunicano di più tra loro e si scambiano informazioni. Perché i nostri sistemi sono diventati più sofisticati; ci sono tecnologie che vengono utilizzate per assistere le agenzie e identificare nuovi obiettivi e, se necessario, eliminarli prima che possano arrecare danno a beni all'estero o qui a casa.
Ho fatto intercettazioni telefoniche in passato, non è come se il governo inseguisse il tuo vicino che sta parlando con sua moglie su cosa comprare al supermercato. Ci sono livelli e ci sono leggi che regolano ciò che può essere registrato e ascoltato e ciò che non può, e chiudiamo sempre qualsiasi comunicazione personale come quella e se una determinata parola viene utilizzata la si riaccende. È una cosa necessaria a tenerci al sicuro e se può impedire un altro 11/9, sono assolutamente favorevole. Penso che siamo più sicuri, assolutamente.
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