2022/09/30

World Trade Center: intervista a Craig Mazzara, membro delle squadre di primo intervento

di Leonardo Salvaggio. L'originale inglese è disponibile qui.

Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori il racconto personale dell'agente dell'NYPD Craig Mazzara che fu inviato a Ground Zero pochi giorni dopo gli attacchi e che vi rimase per mesi partecipando ai lavori di sgombero.

Ringraziamo Craig Mazzara per la sua gentilezza e la sua disponibilità.




Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l’11 settembre e nei giorni seguenti?

Craig Mazzara:
L’11 settembre ero a casa dopo aver fatto il turno di notte. Al tempo lavoravo da sette anni come agente di polizia dell’NYPD, ero in un’unità di controllo dei disordini che operava in tutta la città, la nostra era un’unità di mobilitazione rapida per le emergenze che i distretti locali non potevano gestire da soli: rivolte, manifestazioni, proteste, disastri naturali, cose del genere.

Stavo dormendo quando venne colpita la prima torre e ricevetti una telefonata da mia moglie che mi svegliò. Mi disse “Sai cosa sta succedendo?”, le dissi “Stavo dormendo, non ne ho idea”, disse “Accendi la TV, devi vedere”. Mi alzai, accesi immediatamente la TV e vidi il panico, la paura, il caos totale di ciò che stava avvenendo intorno al World Trade Center. La prima torre era stata colpita, la seconda torre non ancora. Quando venne colpita anche la seconda torre lo vidi in TV. Mio figlio all’epoca aveva quattro anni e mi disse “Papà, che film stai guardando?” perché non riusciva a credere che fosse una cosa reale. Iniziai a piangere e dissi “Sam, è reale, sta succedendo davvero”. In quel momento mia moglie mi chiamò di nuovo e mi disse: “Devi entrare in servizio?” poiché sapeva che ero nell’unità di risposta rapida, dissi “Non ho ancora ricevuto la chiamata, ma vai alla alla scuola di Logan”, Logan è mia figlia maggiore che aveva sei anni, “e portala a casa” perché in quel momento non avevamo idea di cosa sarebbe stato considerato un obiettivo sensibile o uno non sensibile. L’idea generale era che ovunque ci fosse un gruppo di civili era un obiettivo non sensibile; ovunque ci fosse un grande centro commerciale, strutture governative o militari era un obiettivo sensibile. Ero in preda al panico, urlavo.

Chiusi la telefonata con mia moglie, avrebbe portato mia figlia a casa da scuola, riportai l’attenzione alla TV e vidi la prima torre crollare. Stavo cadendo in stadi di incredulità sempre più profondi, continuando a non credere che ciò stesse accadendo davvero. Chiamai la mia unità e chiesi di parlare con il sergente responsabile della formazione e chiesi “Steve, cosa facciamo?”. Nella mia unità ci sono diversi livelli di mobilitazione che vanno da uno a quattro, che è il più critico e che significa che tutto il personale in servizio e tutto il personale fuori servizio deve rispondere. Steve disse “Non lo sappiamo ancora, siamo in contatto con la sede, ti facciamo sapere non appena riceviamo un ordine”. Quando mia moglie tornò a casa, stavo per prepararmi ad andare sulla scena da solo se la mia unità non mi avesse chiamato. Per quanto fosse spaventoso, volevo essere lì, mi sentivo in colpa per il fatto di non stare andando lì ad aiutare.


Poco dopo il mio telefono squillò. Steve disse “Craig, livello quattro. Devi venire qua.” Ero pronto per andare e sia io sia mia moglie eravamo in lacrime perché non sapevamo se sarei tornato. Baciai mia moglie e i miei figli come se ci dovessimo più rivedere. Saltai in macchina e accesi la radio della polizia, come stava facendo chiunque altro, e scoprii che le autostrade erano chiuse perché Manhattan era stata isolata. Le persone uscivano con i traghetti o a piedi attraverso ponti o tunnel, ma nessuna macchina poteva uscire. Così, quando arrivai sulla strada statale, mi resi conto che non sarei potuto passato e vidi un flusso di macchine che andavano a ottanta o cento chilometri orari su una banchina erbosa sul lato destro che di sicuro non era destinata al traffico.

Pensai “Devono essere tutti soccorritori, militari, poliziotti, vigili del fuoco”, quindi mi feci strada nel traffico per infilarmi in quella corsia. Quando arrivai al mio distretto era più caotico che mai: persone che arrivavano freneticamente nel parcheggio, correvano fuori dalle loro auto ed entravano nella stazione per prendere immediatamente la loro attrezzatura, qualunque cosa. Chiunque avesse una seconda pistola prendeva la seconda pistola, chiunque avesse una terza pistola prendeva la terza pistola. Eravamo sicuri che avremmo dovuto preparaci e andare a Ground Zero. Eravamo in sessanta, ma il nostro ufficiale in comando ci disse che poiché c’erano due aeroporti che erano obiettivi sensibili, JFK e LaGuardia, nel nostro distretto di Queens South, dovevamo rimanere lì a proteggere quegli obiettivi. Quella notizia fu come essere colpiti in testa con una mazza, fu devastante, ci sentimmo inutili.

Prima che uscissimo per andare agli aeroporti arrivò un nostro collega che si chiama Mitch e che si era trovato a pochi isolati dal World Trade Center fuori servizio ma in uniforme, e invece di riferire a un comandante sul posto era uscito da Manhattan con i civili e gli ci erano volute sei o sette ore per arrivare alla stazione. Era bianco coperto di polvere. Aprì la porta e lo guardammo come se fosse uno spirito dall’oltretomba, non potevamo credere a quello che stavamo guardando perché noi volevamo disperatamente andare sulla scena e lui che era lì aveva scelto di andarsene invece che di aiutare. Ero disgustato.

Nei giorni successivi rimanemmo di guardia agli obiettivi sensibili che ci erano stati assegnati. Poi venerdì ci dissero “Stiamo cercando volontari per andare sul campo a Ground Zero ad aiutare nei lavori di ricerca e recupero”. Colsi al volo l’opportunità perché volevo andare e sentirmi come se stessi facendo qualcosa. Andai con un altro poliziotto, Matt, e il nostro sergente Dan; ci presentammo domenica mattina presto senza sapere per quanto tempo saremmo stati lì.


Per i primi mesi dopo l’11 settembre lavorammo su turni di sedici ore. La vista del campo di detriti e la dimensione della distruzione toglieva il respiro, era come cercare di respirare nel vuoto. Erano passati giorni e non avevano trovato sopravvissuti, ma ero convinto sarebbe stato possibile trovare persone sepolte vive anche allora, come accade giorni dopo nei casi di terremoti o smottamenti di fango. Ci presentammo a un punto di raccolta, ci vennero dati respiratori filtranti e ci diedero istruzioni di riferire a un comandante a Ground Zero e da lì ci avrebbero dato indicazioni. Facemmo così e finimmo in quella che venne denominata la “brigata del secchio”, una fila di circa duecento poliziotti che serpeggiava dalla punta della pila di detriti fino all’estremità del sito. In quel momento non erano state portate attrezzature pesanti perché ancora si pensava “Forse troveremo qualcuno vivo o un cadavere intatto che possiamo recuperare. O anche solo un ricordo come un portafoglio, un orologio, una fede nuziale”.

Di notte faceva molto freddo. Ero la seconda persona in cima alla pila e ricordo che qualcuno toccò la spalla dell’ufficiale davanti a me e gli disse “Hai finito”. Lui si alzò con uno sguardo scioccato negli occhi, il suo corpo era lì ma mentalmente non era del tutto lì con noi. Quello sguardo nei suoi occhi, quel vuoto, spaventò così tanto l’ufficiale di fronte a me che disse “Non riesco, me ne vado” e anche lui se ne andò. In quel momento mi chiamarono per farmi avanzare e presi il posto sulla punta del cumulo di detriti. Anche se faceva molto freddo, cominciai a sudare perché, come scoprii in seguito, c’erano ancora dei fuochi che bruciavano sotto di noi. Quindi stavamo sudando dalla testa ai piedi ma allo stesso tempo stavamo gelando.

Non so dirti da quanto tempo rimasi lì, perché anche io mi dissociavo come l’ufficiale che era davanti a me. Mi separavo dal mio corpo e non mi rendevo nemmeno conto di dove fossi. Qualcuno toccò anche me sulla spalla e mi disse “Va tutto bene figliolo, hai finito”. Questo ragazzo era più giovane di me e mi chiamava “figliolo”. In qualche modo era confortante. Gli diedi subito la pala e il secchio che stavo usando e mi allontanai dal mucchio senza meta, senza direzione, mi sentivo come se non vedessi ed è qui che inizia a diventare difficile da ricordare per me perché ricordo di essere sceso dal mucchio ma non ricordo nient’altro che il mio amico Matt che mi si è avvicinò, mi prese e mi disse “Craig, stai bene?”. Non ero responsivo e non ricordo di avergli risposto.

C’è stato per un po’ di tempo un battello di salvataggio attraccato al molo. Era un posto dove i primi soccorritori si recavano per prendere un caffè caldo, un pasto caldo o vestiti puliti. Matt mi portò lì, in quelle condizioni non l’avrei mai trovato da solo, e c’era una giovane ragazza bruna che non dimenticherò mai per la sua gentilezza; mi disse “Agente, hai un aspetto terribile e credo che tu abbia freddo, siamo qui per aiutarti” e mi ha diede una felpa rossa della Champion che indossai subito. Ventun anni dopo ho ancora quella felpa.

La speranza che avremmo potuto trovare qualche sopravvissuto o qualcosa di utile andò in frantumi quando arrivammo alla pila e capimmo la portata di ciò che era successo. Era schiacciante, era una disperazione debilitante. Quel giorno, quella prima dissociazione, fu l’inizio del mio disturbo da stress post traumatico, ma non mi sono curato per altri diciotto anni.


Undicisettembre: In che modo l’11 settembre influisce sulla tua vita anche oggi?

Craig Mazzara: Recentemente, tre anni fa, mi è stato diagnosticato il disturbo da stress post traumatico, ma anche prima sapevo che c’era qualcosa che non andava, sapevo di non essere più la stessa persona. Non ero sicuro di cosa e come fosse cambiato, ma ero molto rabbioso e costantemente in collera. Potevo andare su tutte le furie per la cosa più piccola, ero sempre molto suscettibile.

Abbiamo lavorato su turni di sedici ore per molti mesi dopo l’11 settembre e poi passammo a turni di dodici ore per circa un anno, e quando vivi con quella pressione costante diventa una parte così intima di te che te la porti appresso per il resto del la tua vita. Per il resto della tua vita devi essere aggressivo e ipervigile, non puoi mostrare segni di cedimento perché non vuoi essere l’anello debole della catena.

Avevo incubi, una rabbia che non riuscivo a controllare e per un agente di polizia come puoi immaginare non va per niente bene. Avevo attacchi di depressione e penso che si ricollegasse alla disperazione e all’impotenza che ho provato. Ho sicuramente avuto il cosiddetto "senso di colpa del sopravvissuto", perché due miei amici sono morti durante i soccorsi a Ground Zero e mi chiedevo “Perché sono qui quando altre 2.600 altre persone hanno perso la vita quel giorno?”. Mi sentivo in colpa di essere vivo ed è una cosa che solo di recente ho iniziato ad affrontare in modo positivo con il mio terapeuta e il mio psichiatra.

Nel 2019 stavo parlando con una mia vicina e di punto in bianco mi chiese “Eri un poliziotto a New York, giusto? Sei stato a Ground Zero?” Ho avuto di nuovo la dissociazione, ero fuori di me da qualche altra parte, il mio corpo fisico era in grado di continuare quella conversazione, anche in modo abbastanza coerente, ma ha innescato qualcosa che ha causato per mesi una maggiore frequenza di dissociazione. Avevo molti altri flashback e incubi particolarmente espliciti, violenti e inquietanti. Alcuni mesi dopo pensai che potesse essere stress post traumatico, ho fatto dei test online e in tutti ottenevo un punteggio fuori scala, avevo un grave disturbo da stress post-traumatico.

Dovevo fare qualcosa, non potevo vivere così; mentre guidavo potevo soffrire di dissociazione e avrei potuto guidare per un miglio mentre ero fuori di me e poi tornare nel mio corpo. Avrei potuto uccidere qualcuno, dovevo chiedere aiuto. Chiesi al mio medico cosa sapesse del disturbo da stress post-traumatico e scoppiai in lacrime, mi mise una mano sulla spalla e disse “Non ne so molto, ma so che ti aiuterò”. Mi ha fissato un paio di appuntamenti con uno psichiatra e un terapista, ma come è abbastanza comune il primo professionista per la salute mentale può non essere quello giusto per il tuo caso specifico. In seguito ho trovato uno psichiatra che era un veterano di guerra con venticinque anni di esperienza che è sorprendentemente esperto nel trattare lo stress post traumatico con militari e primi soccorritori, e ho anche trovato un terapeuta che ha sei anni di esperienza con le forze armate statunitensi come appaltatore e che ora lavora principalmente con i soccorritori. Entrambi mi sono stati incredibilmente utili nell’aiutarmi a vivere una vita normale come faccio oggi.

Sfortunatamente, l’11 settembre è ancora molto ossessionante per me. Ho ancora quelli che sono conosciuti nell’ambito dello stress post-traumatico come “pensieri intrusivi”, improvvisamente durante il giorno mi vengono in mente cose come la ragazza con la felpa rossa, o se sento una brezza fredda mi ricordo quanto faceva freddo a Ground Zero, o l’odore di un fuoco di legna all’aperto mi ricorda gli incendi di Ground Zero. Ci sono molte cose che possono farmi scattare e molti fattori scatenanti di cui non sono consapevole e che sto cercando di riconoscere. Non è stato facile nemmeno per la mia famiglia, sono stati molto coraggiosi e amorevoli mentre cercavano di aiutarmi a superare questo problema; apprezzo quello che fanno, sono sicuro che non ero una persona facile con cui convivere già prima dell’11 settembre, ma il disturbo da stress post-traumatico esaspera gli aspetti negativi di una persona.


Undicisettembre: Sei stato alle celebrazioni per il ventesimo anniversario l’anno scorso?

Craig Mazzara: No, non ci sono andato. Ma una cosa che facciamo qui è tenere cerimonie commemorative alla nostra base operativa. Indossiamo le divise, usciamo, salutiamo la bandiera e osserviamo un momento di silenzio per le persone che hanno perso la vita. Questo è ciò che facciamo, ma non ho mai partecipato a una delle grandi celebrazioni.

Dopo che è finito il lavoro di sgombero a Ground Zero, non mi sono sentito di andare nelle vicinanze del World Trade Center fino al 2015, quando sono andato al memoriale con mia figlia. Come era ovvio ho pianto pensando a tutti quelli che sono morti. Ma anche il solo fatto di essere su quel terreno sacro mi ha riportato alla mente i ricordi di come era; ero lì a guardare le fontane ma vedevo ancora la pila e la distesa dei detriti. È stato bello e terrificante allo stesso tempo.

Ci tornerei? No, non tornerei.

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