2022/01/08

World Trade Center: intervista al sopravvissuto Nicholas Cagliuso

di Leonardo Salvaggio. L'originale in inglese è disponibile qui.

La mattina dell'11 settembre Nicholas Cagliuso si trovava nel suo ufficio all'ottantaseiesimo piano della Torre Nord quando il primo aereo si schiantò. Per raccontarci la sua storia di quel giorno e le sue conseguenze, Cagliuso ha accettato la nostra proposta di un'intervista che offriamo oggi ai nostri lettori.

Ringraziamo Nicholas Cagliuso per la sua cortesia e disponibilità.





Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l’11 settembre?

Nicholas Cagliuso:
Al tempo lavoravo come dirigente per la Port Authority al World Trade Center. Quella mattina mio padre, che pure aveva lavorato per la Port Authority ed era andato in pensione nel 1996, mi accompagnò da casa nostra a Brooklyn fino a davanti al One World Trade Center come aveva fatto molte altre volte. Ero sposato, avevamo un bambino e mia moglie aspettava il nostro secondo figlio. Mio padre mi lasciò e andò a Jersey City, nel New Jersey, per trovare i suoi ex colleghi.

Arrivai in ufficio che erano le 8:20 o le 8:30. Ero all'ottantaseiesimo piano, il nostro ufficio era il numero 8647; avevo iniziato quel lavoro a luglio, quindi ero lì solo da due mesi. Ero in ufficio con uno dei miei colleghi e con la nostra responsabile; avevamo un ufficio interno senza finestre. Quando il primo aereo colpì più che il suono, che ovviamente fu molto forte, ciò che ricordo fu il movimento. In quel momento pensai che fosse esploso un condizionatore d'aria, ovviamente non avrei mai pensato che fosse un aereo di linea. La nostra responsabile aveva un problema al cuore e io avevo lavorato sulle ambulanze, quindi immediatamente io e il mio collega andammo a vedere come stava. Stava bene, ma come noi si chiedeva "Cos'è stato?"

Non ci furono annunci e iniziammo a sentire odore di fumo e suoni. Siccome il fumo diventava più intenso, pensammo "Forse dovremmo provare ad aprire qualcuna di queste finestre". Io e il mio collega entrammo nell'ufficio d'angolo dove c’era un signore che quel giorno rimase ucciso; tra due scaffali c'era un martello. Pensai che con la mia esperienza di primo soccorso e di antincendio avremmo potuto rompere alcune di quelle finestre; andammo in fondo al corridoio, le finestre erano a tutta altezza, e con tutte le mie forze iniziai a rompere una specifica finestra. Non dimenticherò mai di aver detto al mio collega "Quando torneremo qui la prossima settimana tutti si chiederanno 'Chi diavolo ha rotto questa finestra?' Sono un nuovo dipendente, mi costerà un anno di stipendio la sostituzione della finestra”.

I venti a quell’altezza sono molto più forti rispetto a terra e fecero quasi uscire una porta dai cardini. Il fumo si diradò un po', andai in un altro ufficio d'angolo da dove potevo vedere il Ponte di Verrazzano e la Statua della Libertà e lì vidi una cosa sorprendente: mobili da ufficio, come tavoli e sedie, che uscivano da sopra di noi e cadevano fuori dall'edificio. Capimmo che chiaramente stava succedendo qualcosa. Andammo nella nostra dispensa e sentimmo gente urlare, non sapevamo da dove venisse finché non ci siamo resi conto che dietro a una delle pareti c’era la tromba dell'ascensore e c'erano persone intrappolate nella cabina. Ricordo di essere salito su un piccolo divano e di aver detto, un’altra volta irrealisticamente, “Se riuscissimo a rompere il muro e ad arrivare sopra la cabina dell'ascensore, potremmo aprire il portello e far uscire queste persone”. Di nuovo, in quel momento non stavo pensando in modo logico.

Pochi minuti dopo, il secondo aereo colpì e questo fece precipitare le cose perché significava "Qualunque cosa fosse, è successo di nuovo" ed è stato più impattante di quando era stato colpito il nostro edificio. Ci dicemmo "Va bene, andiamocene di qui". Ci avventurammo per la scala più vicina; era vuota, ora ovviamente sappiamo perché, perché pochissime persone riuscivano a scendere dai piani sopra di noi. C'erano un uomo e una donna, l’uomo era coperto di sangue perché era stato colpito da qualcosa. Il mio collega, la responsabile e io iniziammo a scendere; le luci erano accese, non c'era fumo, non c’era niente che ci cadesse addosso, non c'era acqua che ci si versasse addosso. Scendemmo fino a una delle sky lobby e la attraversammo; lì l'edificio era al buio totale, alcuni vani dell'ascensore erano aperti ma non c’era la cabina, c'era personale della Port Authority che ci diceva "Fate attenzione a non cadere."


Continuammo a scendere e a cambiare rampa di scale perché l'edificio si era deformato al punto che non riuscivamo ad aprire alcune delle porte, quindi quando eravamo in una scala si poteva scendere solo fino a un certo punto. Arrivammo tra il cinquantesimo e il sessantesimo piano e non avevamo informazioni chiare su quello che stava succedendo, si sentiva qualcuno dire “È stato un aereo” ma pensavamo “Forse un piccolo Cessna” perché era una bella giornata cristallina.

Proseguimmo fino al ventesimo piano e la polizia della Port Authority e quella della città di New York chiesero chi fosse in grado di praticare una rianimazione cardiopolmonare; mi feci avanti, mi diedero un casco ma per fortuna nessuno aveva bisogno della rianimazione. C'era una donna anziana che non riusciva a camminare; insieme ad altre tre persone la prendemmo per gli arti e la portammo giù di alcuni piani, purtroppo non ricordo cosa sia successo poi.

Arrivammo al terzo piano e sentimmo dei tonfi che adesso so per certo erano corpi che colpivano il suolo. Giunti al terzo piano sentimmo un tremendo rumore simile a un terremoto e le luci iniziarono a tremare; era la Torre 2 che crollava. Il cellulare funzionava e chiamai mia moglie per dire "Sto bene". Pensava che fossi andato al Trade Center e che avessi preso un'auto aziendale della Port Authority per andare a una riunione a Staten Island, quindi pensava che fossi lì.

Quando arrivai alla plaza, vidi a terra un sedile di un aereo, che non era un sedile di un piccolo aereo ma uno di un aereo commerciale. Scesi dalla "Scala dei Sopravvissuti" [nome con cui è nota l’ultima rampa di scale sopravvissuta al crollo, oggi conservata al 9/11 Memorial Museum] fino a Church Street dove le macerie mi arrivavano al polpaccio. Camminai per circa cinque isolati tra la gente che urlava quando la seconda torre crollò. Camminai fino a Canal Street, attraversai il ponte e tornai a Brooklyn.


Undicisettembre: A che ora sei tornato a casa?

Nicholas Cagliuso: Qualche ora dopo, probabilmente nel primo pomeriggio o qualcosa del genere.


Undicisettembre: Qual è stata la reazione della tua famiglia quando ti hanno visto?

Nicholas Cagliuso: I miei suoceri erano lì; mia madre era lì e nostro figlio Nick III era nella culla che saltava e urlava “Cadono i palazzi! Cadono i palazzi!”, lo stava elaborando in quel modo. Aveva un anno e mezzo . Mio zio Benny, siciliano, venne all’ingresso laterale e disse “Quel poveretto! Quel poveretto!» perché pensava che fossi morto.

Mio padre dovette guidare attraverso il New Jersey e la parte settentrionale dello stato New York attraverso Westchester. Tornò a casa e non mi disse molto, non c'era bisogno di parlare. Sapevamo entrambi cosa era appena successo. Per tutto il giorno aveva visto il fumo dall'altra parte del fiume Hudson.


Undicisettembre: Cosa ti successe nei giorni seguenti?

Nicholas Cagliuso: I giorni seguenti furono una grande confusione. Non ti posso dare i dettagli perché non li ricordo, ricordo telefonate della Port Authority perché ero nella lista dei “dispersi” e questo andò avanti per giorni. Io rispondevo “Sono Nick, sto bene, cancellami dalla lista”.

Una cosa che ricordo era l'odore, anche se vivevamo a Brooklyn, a chilometri di distanza. Un odore che non avevo mai sentito prima, non era solo fumo, ma anche di resti umani e una puzza pungente singolare che non avevo mai provato. Non ricordo quando finì, ma da allora non l'ho più sentito.


Undicisettembre: Quando e come hai ripreso a lavorare dopo l'11 settembre?

Nicholas Cagliuso: Fu uno sforzo collettivo perché quelli erano i nostri edifici. Per me fu una questione anche molto personale perché anche mio padre aveva lavorato per la Port Authority dal 1968 al 1996, era un tecnico dei materiali al World Trade Center, si occupava dei campioni di acciaio, vernice, cemento e cose del genere. Quindi c'era una componente personale molto, molto forte.

Alla fine fummo trasferiti al Centro Tecnico della Port Authority di Jersey City ed essenzialmente ci occupammo solo della gestione delle emergenze, della continuità aziendale e del ripristino delle condizioni lavorative. Rimasi lì per diversi mesi, mi ci volevano due ore e mezza da Brooklyn, attraverso Staten Island e il New Jersey, per arrivarci. Pur con le perdite inimmaginabili, tutti fummo disponibili a collaborare. Con i nostri colleghi uccisi e il nostro quartier generale distrutto, le persone si gettarono in avanti e la Port Authority fece in modo che nessuno di noi perdesse mai uno stipendio. C'era un vero, reale senso di impegno e unità che non aveva precedenti.


Undicisettembre: Sei andato a Ground Zero per i festeggiamenti del ventesimo anniversario?

Nicholas Cagliuso: No. L'ho volutamente evitato per anni e non sono mai stato a nessuna cerimonia per gli anniversari, è una mia decisione emotiva e personale. Ci penso ogni giorno, penso ai miei colleghi e a come ha cambiato il mondo. Ho ricominciato a lavorare a Lower Manhattan nel 2014; un giorno stavo camminando, mi sono girato e "Woo, eccolo lì!" e mi sono sentito molto a disagio. Alcuni anni fa mia moglie, sono andato con mia moglie e i miei figli a un ristorante proprio fuori dal World Trade Center; ci fecero sedere al tavolo, guardai fuori dalla finestra e vidi una delle fontane e mi sentii molto a disagio. Per me questo è un meccanismo di gestione del trauma, evito la zona. Non sono andato alle fontane e nemmeno al museo.


Undicisettembre: Cosa ne pensi delle teorie del complotto secondo cui l'11 settembre sarebbe stato un inside job?

Nicholas Cagliuso: Sono una persona fortemente orientata alle evidenze e non ho mai visto nessuna evidenza che supporti alcuna teoria del complotto. Il solo fatto che qualcuno ha un'opinione, non la rende un fatto universale o una verità assoluta. In vent'anni non ho visto nulla che mi convincesse di quelle teorie e di quelle idee.

Inoltre, il fatto che quegli edifici abbiano resistito a quegli impatti e agli incendi e che così tante persone ne siano uscite vive è straordinario. Mio padre ora ha 90 anni e parlo con lui tutti i giorni, mi complimento con lui e i suoi colleghi, era uno scenario inimmaginabile, eppure la fisica di base di ciò che quegli edifici hanno retto, in termini di carico e calore, consentendo di compiere quella missione di salvataggio grazie alle mani di Dio che hanno lavorato attraverso i vigili del fuoco, la polizia di New York, la polizia della Port Authority, i paramedici e molti altri, è straordinario. Assolutamente straordinario.


Undicisettembre: Qual è secondo te la posizione degli USA nel mondo a distanza di vent'anni? La nazione è più forte o più debole di prima?

Nicholas Cagliuso: Beh, non puoi dormire sugli allori e dire “Noi siamo gli USA e bla bla bla”, questo da solo non basta. Le divisioni sociali sono state molto dannose per gli Stati Uniti. Il nostro nome contiene la parole "uniti", quindi dovremmo essere uno. Non necessariamente identici, ma uno. I recenti problemi sociali non ci hanno rafforzato. La buona notizia è che il pendolo oscilla verso l'equilibrio e noi regrediamo alla media, ma credo che la divisione ci abbia diviso internamente ed esternamente. E sono fermamente convinto che famiglie, squadre e nazioni abbiano successo dall'interno verso l'esterno; è molto facile fare la vittima e puntare all'esterno per incolpare qualcun altro, ma penso che la forza e la debolezza vengano in gran parte dall'interno. Ci sono opportunità significative, in particolare sulle questioni sociali su cui gli Stati Uniti devono continuare a lavorare.

2 commenti:

marcorighi1979@gmail.com ha detto...

ciao Leonardo, mentre leggo le tue interviste, peraltro condotte in modo professionale, aspetto con ansia il momento in cui fai la fatidica domanda. intendo quando chiedi al tuo intervistato cosa ne pensa delle varie teorie del complotto. quella domanda completa l'intervista. mi sento di affermare questo in quanto oggi viviamo in un mondo dove ognuno ha un'opinione, pochi sono capaci di ascoltare, e la verità oggettiva dei fatti sembra scappare un pò di mano..non so se ho reso l'idea. buona continuazione !

Leonardo Salvaggio ha detto...

Grazie dell'apprezzamento e di leggere questo blog. Capisco benissimo cosa intendi, ti sei spiegato benissimo. A presto