2019/01/29

Pentagono: intervista al sopravvissuto Ryan Yantis

di Hammer. L'originale inglese è disponibile qui.

Nel continuo impegno affinché non si perda la memoria di quanto accaduto l'11/9, offriamo oggi ai nostri lettori il racconto di Ryan Yantis che era al Pentagono quando il volo American Airlines 77 colpì il palazzo e che dopo divenne uno dei primi soccorritori.

Ringraziamo Ryan Yantis per la sua cortesia e disponibilità.


Undicisettembre: Cosa ricordi dell’11/9? Ci puoi fare un racconto di ciò che hai visto e vissuto quel giorno?

Ryan Yantis: Ero un maggiore dell'esercito degli Stati Uniti e il mio incarico era di portavoce verso i media ed ero a capo di un gruppo di portavoce dell'esercito. Ci occupavamo delle domande sul personale e sulle risorse umane e rispondevamo a domande riguardo al “non chiedere, non dire” [La linea tenuta verso l'orientamento sessuale dei membri dell'esercito N.d.T.] o alle normative sul peso nell'esercito o alle donne nell'esercito, indagini, corti marziali e altro. Il mio ufficio era al secondo piano, anello E, l'anello più esterno del Pentagono, sul corridoio 6, stanza 36. Questo significa che l'indirizzo era 2E636, che dice esattamente dove devi andare nel Pentagono se volevi arrivare nel mio ufficio. L'anello E è anche quello dove i generali e le persone importanti hanno i loro uffici.

L’11/9 stavo uscendo da una riunione del mattino e stavamo parlando delle normali attività quotidiane, quando sentimmo i primi racconti che il World Trade Center era stato colpito. Le prime notizie erano che era stato un aereo da turismo, non sapevamo cosa fosse successo, ma era molto brutto. Nei successivi 15 minuti circa chiamai alcuni miei colleghi a New York, a Fort Drum, che a nord di New York, e a Fort Dix, nel New Jersey, perché a quell'ora molti soldati stavano andando al lavoro e volevo assicurarmi che fossero svegli e a conoscenza di ciò che era successo. Il mio incarico prima del Pentagono era a New York quindi conoscevo molte persone a New York. Alle 9:03 ero nel nostro ufficio e guardavo un grosso televisore che trasmetteva le notizie sul World Trade Center incendiato, guardavamo la tragedia. A quel punto pensavamo che fosse solo un incidente fino a quando vedemmo il secondo aereo colpire la Torre Sud.

Quando il secondo aereo colpì fu chiaro che fosse un atto volontario. C'erano circa dodici persone in quel gruppo che guardavano la televisione, tutti portavoce, uomini e donne, civili e militari. Ricordo di aver guardato una giovane donna che lavorava nella mia squadra, Elaine, che era incinta di nove mesi. Le dissi “Elaine, voglio che tu raccolga le tue cose e che vada a casa. Voglio che tu te ne vada.” Mi rispose prontamente “No, avrai molto da fare, saremo sommersi oggi, avremo molta attenzione da parte dei media; avrai bisogno di me.” Le dissi “Elaine, voglio che tu te ne vada. Noi siamo i prossimi.” Nella mia testa eravamo un obiettivo ovvio, eravamo un simbolo visibile del potere e della forza americani e occidentali. E il Pentagono è un edificio iconico. Elaine rifiutò di andarsene; al tempo non lo sapevo, ma ne uscì viva. Recentemente ho scritto a suo figlio Andrew una lettera e gli mandai una bandiera americana. E’ il più giovane sopravvissuto del Pentagono che io conosca e volevo che lui sapesse cosa fece sua madre quel giorno e nei mesi a seguire.

Dissi alle altre persone “Hey, alzate il culo, non compiangetevi perché abbiamo da fare, diamoci da fare.” perché ero in una posizione di comando. Poco dopo un tenente colonnello, il grado superiore al mio, un uomo chiamato Henry Huntley, che era nuovo nella mia squadra, mi disse “Ok, Ryan, tu sei quello che ha lavorato a New York, vieni con me e andiamo in una riunione. Se New York chiede aiuto dobbiamo essere pronti a mandarlo.” Ed è vero, come esercito americano potevamo dare supporto se ci veniva chiesto o eravamo invitati ad andare, ma non potevamo imporre la nostra presenza a meno che il presidente dichiarasse un'emergenza nazionale.

Henry e io eravamo nell'anello E, secondo piano, e stavamo andando dal corridoio 6 ai corridoi 5 e 4. La riunione doveva cominciare alle 9:30 in una stanza sul corridoio 4. Chiesi al Tenente Colonnello Huntley “Signore, dove stiamo andando? Dov'è la riunione?” e mi disse “Corridoio 4, in una stanza per conferenze.” gli dissi “Ottimo signore, quella è l’ala nuova, ha una nuova planimetria, una nuova disposizione; qual è l'indirizzo?” Mi disse “Non lo so, è una sala conferenze. La troveremo.” gli dissi “Signore, cinque piani e cinque anelli, qual è la sala riunioni? Chi la organizza? Siamo già in ritardo, facciamo una telefonata e accertiamocene.”.Non sapeva rispondere alle mie domande.

Quindi mi allontanai e lui mi seguì. Facemmo una telefonata e arrivammo dove doveva tenersi la riunione sul corridoio 7. Arrivati lì, c'era un banco della sicurezza con un sergente che ci disse “Signori, dovete lasciare il palazzo, c'è stata un'esplosione.” Gli allarmi cominciarono a suonare e ricordo di aver chiesto “Sergente, dove l'esplosione?” e lui mi disse “Vicino all'eliporto tra i corridoi 6 e 5”, dove io Henry stavamo discutendo pochi minuti prima era praticamente l'area dell'impatto. Se non fossi stato testardo e avessi voluto sapere dove era la riunione avremmo vagato lì intorno e avremmo potuto rimanere gravemente feriti o uccisi. Perché era lì che si trovava la maggior parte delle persone che sono morte.

Dopo l'annuncio tornai nei miei uffici, mi accertati che tutti se ne fossero andati e che nessuno fosse rimasto intrappolato. Ricordo di aver raccolto il mio cellulare dal tavolo. Nei nostri uffici le luci erano accese, i telefoni funzionavano, e in quel momento c'era una nebbia di fumo che scendeva dal soffitto. Feci evacuare gli uffici e percorsi l’anello E dal corridoio 6 fino all'angolo con il corridoio 5. Non ero ancora arrivato all'angolo del palazzo e il fumo si fece molto più pesante e pensai “Ok, è tempo che io me ne vada.” Avevo una figlia di tre anni e mezzo e una di dieci mesi e non ero equipaggiato e non avevo gli abiti adatti per affrontare un incendio. Fu una decisione molto dura, perché mi sentii come se stessi lasciando le persone che avevano bisogno di aiuto, preoccupato per la mia stessa sicurezza. Uscii dal corridoio 6 e camminai fino al punto di raccolta dove ci radunavamo dopo un’esercitazione antincendio o un’evacuazione.

Trovai del personale del mio ufficio, ci radunammo e il sergente maggiore, un sottufficiale, depennò il mio nome da una lista, il che significava che mi aveva visto e che ero vivo. Quindi mi disse che molte persone erano ancora disperse. Mi resi disponibile ad andare al corridoio 8, che è l'entrata principale che porta dentro il Pentagono e che è adiacente al parcheggio nord. Corsi là e fu lì che trovai delle barelle che qualcuno aveva messo da parte all'ombra di un albero, aperte pronte all'uso. Vidi alcune persone che portavano ciò che mi sembrava una borsa fuori dal Pentagono, e capii che qualcuno era rimasto ferito e che avevano improvvisato una barella. Quella che era accanto a me sarebbe stata molto più d'aiuto di una barella improvvisata, quindi la presi, corsi e iniziai ad aiutare a portare fuori le persone dal palazzo. Feci questo per la successiva mezz'ora circa. Sembrava che ci fossero molte persone ferite che uscivano dal Pentagono attraverso il corridoio 8.


Nel corridoio 8 c'era anche la clinica Di Lorenzo, che era una struttura medica interna dove potevano essere svolte piccole procedure mediche, e avevano uno staff. Il Pentagono è come una piccola città che va da 23.000 a 30.000 persone; 18.000 militari, il resto civili. Servono delle strutture interne per appuntamenti medici o emergenze. L’11/9 si stima che ci fossero 23.000 persone. Il personale paramedico fu grandioso, davano il primo soccorso e smistavano in gruppi i feriti. Ricordo di avere visto degli uomini che aiutavano a portare una barella improvvisata all'eliporto dove c'era un elicottero che era arrivato da un ospedale locale.

C'erano molte persone che correvano verso e dal palazzo, che portavano persone, che entravano e che prendevano altro materiale medico. Faceva caldo, con una temperatura di quasi 30 gradi; c’era il sole e l'aria era piena di fumo. Se ne sentiva l'odore ovunque, e non era un odore piacevole. Era la puzza di plastica bruciata e di carburante avio.

C'erano alcune centinaia di persone che facevano ciò che io stavo facendo, nessuno dava ordini. Solo uomini e donne di buona volontà che facevano ciò che doveva essere fatto per aiutare altre persone. Ad un certo punto le guardie di sicurezza si misero ad agitare le braccia e ci urlarono di allontanarci perché c'era un altro aereo in arrivo.

Sentimmo un forte “boom”, che causò della confusione ma era la sezione del Pentagono che crollava alle 10:15 circa. Sentimmo dei boom sonici che qualcuno pensò fossero una bomba che esplodeva al dipartimento di stato ma alla fine risultò che erano i caccia militari che volavano sopra di noi ma non li vedevamo. Si sparse la voce che c'era un camion bomba al Dipartimento di Stato, ma riuscivamo a vedere il centro di Washington e non c'era nessuna nuvola di fumo. C'erano molte voci incontrollate.

Ricordo di aver camminato verso l'ingresso del corridoio 8, ero stanco per tutto il correre e il trasportare che avevo fatto. Ero con un altro ufficiale, a circa quindici metri dall'ingresso del corridoio 8 quando il personale di sicurezza cominciò a urlarci “ALLONTANATEVI e CORRETE!”. Sentii un jet che si avvicinava dietro di me da nord basso e veloce. Ero troppo vicino al Pentagono per correre da qualunque altra parte prima che potessi reagire, un jet della US Air Force volò sopra di noi, basso e veloce, sopra il Pentagono verso sud.

Fui molto felice di vedere i jet perché significava che avevamo supporto aereo. Che qualcuno ci stava proteggendo. Lo prendemmo come un “Beh, non c'è più pericolo” ed andammo nel cortile interno di cinque acri del Pentagono. Ci dividemmo in squadre. Ero in una di quelle che portavano le barelle, che facevano aiuto e soccorso, e ricerca e salvataggio per cercare le vittime, quindi il personale medico allestì un punto di smistamento per i feriti per curare chiunque fosse uscito dal palazzo. Da quel punto fino alle 15:45 rimanemmo nel cortile pieno di fumo ad attendere. Il fuoco era troppo caldo e il fumo era troppo spesso perché potessimo entrare. Alle 15:30 circa ci dissero di raccogliere le nostre cose e ci condussero attraverso uno degli altri corridoi, il corridoio 10. Camminammo attorno al lato che era stato colpito. Fu allora che vidi per la prima volta il lato del Pentagono che era crollato e l'incendio che era molto più piccolo di quello che avevo visto alle 9:30 del mattino.

Fu allora che il mio capo mi vide e disse “Dobbiamo fare il nostro lavoro di ufficiali degli affari pubblici, dobbiamo cominciare a lavorare a un comunicato stampa su questo.” Ricordo che eravamo nell’Operation Center dell'esercito e c'erano degli alti ufficiali che mi dicevano “So che questa persona è morta, metti il suo nome sulla lista” e io rispondevo “No, non possiamo farlo finché non c'è un'identificazione sicura e l'abbiamo comunicata un parente stretto della famiglia” che significa che c'è una procedura per questo nella mia squadra e quotidianamente gestivo gli annunci di soldati che erano morti in esercitazioni o incidenti. C'è una procedura e devi applicarla. C'erano persone, anche ufficiali, che non lo capivano o che non lo volevano capire. Infine il mio capo mi disse “Ok non facciamolo più, interrompi.”

Quindi mi fu chiesto di accompagnare i media, l’ufficio stampa del Pentagono e altri, dentro al Pentagono. La sicurezza era rigida e portammo quaranta o cinquanta addetti dei media nella sala per le conferenze stampa del dipartimento della difesa vicino al corridoio 7. Lì il segretario della difesa Rumsfeld, Tom White, segretario dell'esercito, il generale Hugh Shelton, presidente degli stati maggiori riuniti, e i senatori Warren e Levin tenero una conferenza stampa circa alle 18:30 e io e un paio di altre persone che conoscevamo i membri dell’ufficio stampa di vista lavorammo con loro. Sono un uomo grosso, circa un metro e ottantotto per centodieci chili, quindi posso spaventare anche senza volerlo. Mi fu detto “Ok, vai a vedere, vai al corridoio 8.” e li guidammo fino alla sala per le conferenze stampa del dipartimento della difesa dove Rumsfeld e queste altre persone tennero la loro conferenza stampa che non era altro che una prova di vita del tipo “Siamo ancora vivi, siamo nel Pentagono, il Pentagono sta lavorando, sta ancora funzionando. Ci avete colpiti ma non ci avete uccisi e avrete presto nostre notizie.”

L'ultima cosa che feci fu assicurarmi che potessi prendere le chiavi della macchina e il portafogli che erano nel mio tavolo, che era dietro la scena del crimine. Dovetti intrufolarmi e presi per tutti delle cose nel mio ufficio che le persone avevano bisogno per andare a casa. Mi fu detto “Vai a casa e dormi un po', torna qui domani mattina subito.” perché facevo parte dello staff essenziale in caso di emergenza.


Undicisettembre: Mentre eri al Pentagono qualcuno aveva dubbi sul fatto che un aereo avesse colpito il Pentagono?

Ryan Yantis: No, vidi molte parti di aereo in molte aree, e una delle persone con cui parlai nel cortile stava guidando quando vide l'aereo colpire. Disse “Era un grosso aereo di linea, arrivò veloce ed era argento, rosso e blu.”


Undicisettembre: Cosa successe nei giorni successivi?

Ryan Yantis: Il 12 settembre mi alzai circa alle quattro del mattino dopo quattro ore di sonno, mi misi l’uniforme mimetica, l’uniforme BDU o Battle Dress Utility, e guidai fino al Pentagono. Le strade erano deserte, mi ci vollero venticinque minuti per arrivare lì. Arrivai al Pentagono prima che il sole sorgesse e dall'autostrada vidi il lato occidentale del Pentagono che bruciava ancora. La parte centrale intorno al corridoio 3 era senza corrente elettrica quindi era al buio. L'entrata del corridoio 2 era molto illuminata. Mentre uscivo dall'autostrada per parcheggiare, la polizia militare mi disse che il parcheggio sud era chiuso e che avrei dovuto parcheggiare da un'altra parte e fare un pezzo di strada a piedi. Quindi parcheggiai a circa quattrocento metri e camminai. Sotto l'autostrada c'è un passaggio pedonale che arriva al parcheggio sud. Da lì potei vedere il piano terra del Pentagono. Stava ancora bruciando e c'era un idrante che spruzzava acqua sugli incendi.

Camminai attraverso questo parcheggio abbandonato di circa duemila posti verso il Pentagono. C'erano sparpagliate qua e là circa venti o trenta automobili, e capii che queste macchine probabilmente appartenevano a qualcuno che era rimasto ferito o che era morto nell'attacco. Mentre attraversavo questo parcheggio uscivano dal buio davanti a me, dietro di me, in fianco a me uomini e donne. Erano tutti in uniforme da battaglia, o in uniforme di volo, o in jeans giubbotto sportivo e stivali da lavoro per i civili. Camminavamo tutti con calma e in silenzio attraverso il parcheggio sud vuoto verso l'edificio. Quando arrivammo all'ingresso del corridoio 2, la sicurezza era molto rigida. La polizia militare e la polizia del Pentagono avevano cani antidroga, e fermavano le persone per controllare i documenti d'identità e per fare annusare le borse ai cani. E prima che potessimo essere autorizzati a salire le scale per arrivare all'ingresso del corridoio 2 dovevamo tutti mostrare i documenti. Mentre salivamo c'erano altri controlli di sicurezza, in cima alle scale le persone formavano una fila per passare attraverso un magnetometro che controllava la presenza di armi e poi si facevano di nuovo controllare le borse. Tutto ciò per entrare in un palazzo che bruciava ancora, senza corrente elettrica in alcune parti, per andare al lavoro. E’ stato impressionante e umiliante, e sono incredibilmente orgoglioso di loro perché nessuno stava urlando ordini o li obbligava: questo era atteso e questo facevano.


Undicisettembre: Quanto ci volle prima che la situazione al Pentagono tornasse alla normalità?

Ryan Yantis: Ci fu un po' più di normalità ogni giorno. Il 13 settembre istituimmo delle hot-line perché le persone potessero chiamare e comunicare che erano vive. Chiamavano e dicevano “Questo è il mio numero di assistenza sociale, sono assegnato a questo reparto, e sto bene.” in seguito alle persone fu chiesto di mostrare i loro documenti d'identità per provare che erano chi dicevano di essere e non degli impostori perché c'è sempre questa possibilità, o che qualcuno si finga morto per prendere i soldi dell'assicurazione. Abbiamo anche dovuto istituire delle linee telefoniche per le famiglie e per chiunque fosse preoccupato per avere notizie di chi era ancora disperso.

Dove l'aereo colpì era tra l’ala 1, una nuova ala in cui era appena finita la ristrutturazione e dove c’erano idranti e dispositivi di sicurezza, e l’ala 2 che era una costruzione degli anni 40 e 50. Avevamo iniziato a ripopolare quella nuova ala e a portare le persone fuori dall’ala 2 in previsione di ristrutturare anche quella dopo la prima. Quindi quelle due ali dove l’aereo aveva colpito erano il posto migliore dove avrebbero potuto farlo, se avessero colpito verso il corridoio 8 o il corridoio 2 avrebbero colpito aree pienamente popolate.

La “normalità” richiese settimane e mesi per tornare. Sono stato lì ogni giorno, ma c'erano militari e civili che non sono tornati fino una settimana o dieci giorni dopo. Il loro primo giorno di ritorno nel palazzo poteva essere ad esempio il mio undicesimo giorno. Avevo già processato i fatti più di loro, i cappellani del Pentagono e i consulenti per la salute comportamentale arrivarono e fecero incontri con le persone e li aiutano a superare la rabbia il dolore e senso di colpa, perché “Perché loro perché non io?” era un pensiero molto comune. Per i sopravvissuti del Pentagono non c'è più stato un giorno che fosse “normale”, era del tipo “Quello era prima e questo è oggi.”


Undicisettembre: In cosa è diverso lavorare oggi al Pentagono rispetto a prima dell’11/9?

Ryan Yantis: Ho lasciato il Pentagono definitivamente nel 2003 e mi sono trasferito a Chicago. Mentre ero lì tecnicamente ero ancora assegnato al Pentagono con responsabilità a Chicago, ogni giorno parlavo con persone al Pentagono e là avevo anche molti amici e contatti. Le persone con cui lavoravo erano molto gentili verso di me. Pensavano che io avessi dimostrato interesse e preoccupazione per gli altri, e che l'11/9 e le settimane successive mi ero focalizzato più sugli altri che su di me, perché questo è ciò che io penso un leader debba fare.

Siamo un gruppo abbastanza unito. Siamo in contatto sui social network, cerchiamo di seguirci l'un l'altro. Siamo sopravvissuti.


Undicisettembre: Cosa pensi delle teorie del complotto secondo cui l’11/9 sarebbe un autoattentato?

Ryan Yantis: Faccio discorsi in pubblico sulla mia esperienza dell’11/9, e lavoro con sopravvissuti del World Trade Center e con altri. So quello che ho visto e so quello che ho visto relativamente al Pentagono, e il poco materiale di sicurezza disponibile. L'esplosione è compatibile con un aereo che colpisce il palazzo e con un esplosione di carburante avio: una grande palla di fuoco rossa seguita da fumo nero e fitto.

Non è stato fumo nero seguito da una palla di fuoco, che è più simile a un esplosivo, come un missile cruise o una bomba. Inoltre l'impatto ha penetrato il palazzo e poi si è allargato, portando al crollo. Se fosse stato un ordigno esplosivo o una bomba, avrebbe distrutto e fatto crollare il palazzo immediatamente invece del tempo che ci è voluto.

Quando discuto con questi cospirazionisti voglio capire qual è il loro fondamento logico. Pensano che sia stato il governo americano? Pensano che sei stato il Mossad? Gli ebrei sono stati avvisati di stare a casa quel giorno perché era una cospirazione israeliana?

Queste persone e i teorici del complotto hanno una storia alternativa e non vogliono credere ai loro stessi occhi. Ignorano la realtà e la sostituiscono con qualche altra porcheria più facile da digerire che li fa sentire meglio o che li fa dormire la notte.

Questi cospirazionisti portano avanti un programma di falsità per supportare qualcosa in cui credono, che spesso non è vero e non è sostenibile.


Undicisettembre: L’11/9 come condiziona la tua vita quotidiana?

Ryan Yantis: Quando mi sono trasferito a Chicago ero abituato a stare con un gruppo di altri sopravvissuti dell’11/9 tutti i giorni al Pentagono. Quando fai immersione e il tuo corpo si abitua a stare venti metri sott'acqua, se sali troppo veloce da quella profondità si creano bolle di azoto nel sangue. Si causa quella condizione fisica denominata “malattia da decompressione”. Quando sono stato sono arrivato qua a Chicago le persone sapevano che io arrivavo dal Pentagono e qualcuno mi diceva “Eri nel Pentagono, come è stato?” Non avevo parole e mi emozionavo più di quanto avrei dovuto. Ma ero molto orgoglioso delle persone con cui avevo lavorato e di ciò che hanno fatto. In un certo senso ero orgoglioso di ciò che avevo fatto ma mi vergognavo anche perché era avvenuto durante il mio turno e mi sentivo responsabile .

Quando qualcuno mi chiedeva “Verresti a parlare nella mia scuola?” ci provavo, ma era molto difficile. Cercavo di evitare di essere il sopravvissuto del Pentagono ma poi ho capito che era come essere alto o basso: sei ciò che sei. Accettalo e migliora nel parlarne.

Sono stato coinvolto nel raccogliere fondi per il Pentagon Memorial Fund, che è molto importante per me, e ho dovuto anche incontrare dei sopravvissuti del World Trade Center e le vittime delle famiglie. E’ stato molto salutare e catartico per me. Molti sopravvissuti del World Trade Center qui a Chicago erano a New York per un viaggio di lavoro, ad esempio per una settimana, e finirono per essere nel posto sbagliato al momento sbagliato e sono quasi morti. Avevano bisogno di processare e parlare di ciò che avevano vissuto, e io potei parlare con loro, e questo mi aiutò.

Stamattina sono stato una riunione di lavoro. Ho detto “Sono un sopravvissuto del Pentagono. Se avete domande, fatele.” perché non voglio essere colto di sorpresa. Se provo a non pensarci e qualcuno mi fa una domanda e io non sono pronto non mi va di essere colto di sorpresa e di emozionarmi.


Undicisettembre: Cosa pensi della sicurezza negli USA oggi? La nazione è più sicura che nel 2001?

Ryan Yantis: La risposta rapida e che penso che siamo più sicuri, non c'è stato un attentato nello stile dell’11/9 in 17 anni. Ma allo stesso tempo abbiamo una sfida significativa con persone instabili che hanno accesso alle armi da fuoco. Queste persone non dovrebbero mai avere armi da fuoco ma le ottengono e le usano per uccidere donne e bambini innocenti. La grande sfida per noi è mantenere le libertà individuali e allo stesso tempo proteggere la popolazione.

Qualche passo che il nostro governo ha fatto per la sicurezza crea più fastidi di quanto sia realistico o efficace. Lo capisco e preferisco togliermi le scarpe e lasciare che mi passino il computer ai raggi-x invece di trovarmi con qualcuno che ha una bomba nella scarpa sull'aereo. E’ spaventoso.

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