2021/02/14

Intervista all'ex corrispondente dell'ANSA da New York Marco Bardazzi

di Leonardo Salvaggio

Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori la testimonianza del giornalista Marco Bardazzi che nel 2001 era corrispondente dell'ANSA da New York e che ci ha raccontato la sua singolare esperienza di quella giornata e dei mesi seguenti.

Ringraziamo Marco Bardazzi per la sua cortesia e disponibilità.




Undicisettembre: Ci puoi fare un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l’11 settembre?

Marco Bardazzi:
Ero il corrispondente dell’ANSA da New York. All’epoca l’ANSA aveva un ufficio di corrispondenza da New York con tre giornalisti, uno in quel periodo era in ferie in Italia quindi eravamo in due. Quella mattina dovevo entrare al lavoro un po’ più tardi, verso le dieci perché avevo il turno di metà giornata, quindi ero rimasto a casa con la mia figlia più piccola mentre mia moglie portava le altre due figlie che sono gemelle a scuola.

Vidi alla CNN il primo schianto, parlai con la redazione, chiamai mia moglie e le dissi di tornare prima possibile. Lei restò anche bloccata in metropolitana perché iniziò il caos. Vidi il secondo aereo e quando tornò mia moglie le lasciai la figlia e da lì iniziò una giornata drammatica e complicatissima. Andai dapprima in redazione, che al tempo era accanto al palazzo delle Nazioni Unite quindi midtown, raccogliendo un po’ di racconti per la strada. Rimasi in redazione a scrivere le prime cose e nel frattempo arrivò anche l’attacco al Pentagono e ci evacuarono dalla redazione. Mandai da casa della collega dell’ANSA Alessandra Baldini che abitava lì di fronte il primo pezzo di riepilogo mettendo insieme le prime cose che avevamo e poi uscii a piedi, perché era tutto fermo, per andare al World Trade Center.

Arrivai dopo il crollo della seconda torre e trovai una downtown Manhattan, che conoscevo benissimo, che sembrava un panorama lunare con la polvere che mi arrivava alle ginocchia e tantissima carta, c’erano contratti, email private, tutta la carta che era nelle Torri Gemelle era sparsa fino al ponte di Brooklyn. C’era la prima mobilitazione delle forze di polizia e c’era un aria irrespirabile che – ahimè – respirai per mesi visto che continuai ad andare a Ground Zero.

Provai a chiamare con il cellulare la redazione a Roma e a Washington ma non prendevo la linea. Mi spostai sul ponte di Brooklyn ed ebbi la fortuna di prendere la linea con un dimafonista a Roma, cioè un poligrafico che scriveva mentre gli dettavo l’articolo, e per telefono raccontai tutto quello che vedevo e feci il reportage delle ore successive. La mia giornata è stata quindi impegnata a cercare di dare un racconto di ciò che vedevo. E per un giornalista la sproporzione tra quello che vedi e quello che riesci a raccontare è enorme.



Undicisettembre: Come sono stati per te i giorni successivi?

Marco Bardazzi: Il giorno che mi colpì di più è stato il 12 settembre. Premetto che io ho una fissa per i giornali, colleziono giornali importanti e ho un’emeroteca di prime pagine e di giornali interi di giorni storici. Ma il giornale più importante che ho di quei giorni non è quello del 12, che è quello con il racconto di quanto successo, ma quello dell’11: ho la copia del New York Times che raccontava un mondo completamente diverso e che alle 8:45 era già inutile perché il mondo era cambiato, però raccontava il mondo di prima in cui c’erano altre preoccupazioni rispetto a quelle che da allora e fino a oggi sono diventate le preoccupazioni del mondo.

Il 12 settembre però vidi un altro mondo e un’altra New York. Partii di nuovo all’alba da midtown a piedi e arrivai a Canal Street, che delimita l’inizio di downtown, e che era diventata l’ultima frontiera oltre cui diventava complesso proseguire. Prima di Canal Street New York era deserta come forse si è rivista solo in questo periodo di pandemia, ma nella storia di New York quella era la prima volta che la città era senza auto e senza rumori, nel pieno silenzio ma con una luce meravigliosa perché sia l’11 sia il 12 settembre erano giorni di sole spettacolari. Quel cielo azzurro era stato come una scenografia dell’orrore creata ad hoc per quegli aerei perché ha esaltato ulteriormente la drammaticità di quelle immagini.

Quindi ricordo un 12 settembre di totale disorientamento e ho visto la città rinascere un po’ più a nord, verso Union Square che è stato il posto dove New York ha ricominciato a vivere, dove si cominciavano a creare dei memoriali, delle Torri Gemelle di carta, e a elaborare il lutto in un certo senso.

Però la cosa che più ricordo delle settimane successive erano i volantini delle persone “missing” che erano sparsi dappertutto. Con tremila persone scomparse ciascuno metteva il proprio volantino dove chiedeva chi avesse visto o avesse notizie delle loro persone care; quei volantini ci accompagnarono per lungo tempo.

Un altro giorno che per me fu particolarmente significativo fu quando accompagnai gli operatori di borsa a riaprire Wall Street una settimana dopo. Fu il segno di ripartenza non solo della città ma di tutta la nazione. Partii con la metropolitana dalla Grand Central Station, arrivai al City Hall che era l’ultima fermata della metropolitana funzionante, e uscii dalla metropolitana insieme a una moltitudine di operatori di borsa avvolti nella bandiera americana. C’erano delle transenne che indirizzavano il traffico pedonale verso Wall Street con ai lati l’esercito con i fucili spianati mentre la folla in silenzio andava a riaprire la più importante borsa del mondo, senza sapere se sarebbe crollata, e teneva duro ma a ogni incrocio da cui si vedevano le rovine in fiamme del World Trade Center scoppiava in lacrime.

Poi ci furono le lettere all’antrace ed entrammo in un’altra dimensione di crisi, tra fine settembre e ottobre, che assomigliava un po’ al COVID visto che giravamo per la città con mascherine e guanti. Finita quella crisi cadde un altro aereo, di cui spesso ci dimentichiamo, quando il 12 novembre cadde un aereo dell’American Airlines diretto a Santo Domingo e io corsi a Rockaway dove si era schiantato il velivolo. Fu un tragico incidente, però è chiaro che per noi che abitavamo a New York fu un altro colpo al cuore. Arrivammo a Natale distrutti.


Undicisettembre: Come ha cambiato l’11 settembre il tuo modo di vedere il giornalismo? O quale lezione hai imparato che ti porti dietro ancora oggi?

Marco Bardazzi: In quei giorni il giornalismo ha dato gran prova di sé, soprattutto nei giornali americani. Ad esempio la redazione del Wall Street Journal fu spazzata via dall’attacco perché stava al World Financial Center, che è proprio accanto a dove stavano le Torri Gemelle, e ciò nonostante i giornalisti sono riusciti a spostarsi in un’altra parte della città e a pubblicare il giornale.

Io ricordo delle inchieste veramente eccezionali nel ricostruire la vita quotidiana delle persone che lavoravano nelle torri gemelle e la loro storia personale foto per foto e nome per nome. Il fatto che il giornalismo abbia cercato di dare un senso alla morte, alle vittime, a ciò che era successo a New York, a Washington e in Pennsylvania ma al contempo abbia provato a dare letture geopolitiche di ciò che era successo è stato molto importante. Era un periodo in cui non esistevano i social media e internet era agli inizi, quindi la carta stampata e le televisioni erano gran parte dell’informazione mondiale. Aver cominciato a spiegare cos’era al-Qaeda e chi era Osama bin Laden e cosa c’era dietro a quell’attacco ha aperto lo sguardo degli americani su un mondo da cui negli anni 90 si erano completamente allontanati. Io ricordo che all’inizio del 2001 si era aperto a Manhattan il processo contro Osama bin Laden per gli attentati contro le ambasciate americane in Africa del 1998 ed aveva pochissimo seguito anche da parte dei media, perché venivano visti come degli attentati in cui erano morti degli americani ma avvenuti in altre parti del mondo al pari degli attentati contro gli americani a Beirut nel 1983 o altri casi analoghi. Essere attaccati in casa fu invece uno shock paragonabile solo a Pearl Harbor ma fu anche un momento in cui si fecero molte domande su ciò che avveniva nel resto del mondo e in questo il giornalismo ha avuto un merito importante all’epoca.


Undicisettembre: L’11 settembre influisce ancora sulla tua vita quotidiana? Se sì, come?

Marco Bardazzi: Influisce molto nel diffidare di chiavi di lettura strane ogni volta che ci sia qualcosa che non sappiamo spiegare pienamente e dell’idea che ci siano sempre delle mani anonime, di solito legate al governo, che fanno cose strane di nascosto. Ho visto rifiorire queste chiavi di lettura anche su temi attuali come i vaccini per il COVID o nelle ultime elezioni americane con le teorie sui presunti brogli alimentate da Trump che poi hanno portato all’assalto a Capitol Hill. In questi casi mi torna spesso in mente l’11 settembre perché è stato un caso di banalità del male. Ogni volta che ho dovuto seguire anche da giornalista degli eventi drammatici mi sono accorto che alla fine la spiegazione più drammaticamente semplice è spesso la più credibile e quella più corroborata dai fatti.

Mi sono portato dietro l’11 settembre anche nel raccontare le guerre americane: la guerra in Iraq e la guerra in Afghanistan. Sono andato a visitare Guantanamo nel 2007 portato dal Pentagono ed era anche quella una conseguenza dell’11 settembre. Anche in Medio Oriente ci sono tuttora i segni delle conseguenze e di tantissimi errori che l’America ha fatto dopo l’11 settembre.

Continuiamo a vivere le conseguenze di quello che accadde vent’anni fa a tantissimi livelli. Anche gli attacchi dell’ISIS degli ultimi anni hanno un filo conduttore che li riconduce a quel momento storico.


Undicisettembre: Cosa pensi delle teorie del complotto secondo cui l’11 settembre sarebbe stato un inside job?

Marco Bardazzi: Anzitutto penso che non abbiano mai avuto credito da parte dei media più autorevoli né da parte delle commissioni che hanno indagato sull’11/9, né da parte dell’FBI, né della magistratura. Sono fiorite sulla rete perché l’11/9 ha accompagnato la nascita anche dei nuovi strumenti di comunicazione, non a caso quelle teorie sono nate pochi anni dopo l’11/9 in una fase in cui la rete cominciava a offrire a un pubblico sempre più vasto cose che di solito passavano attraverso un filtro mediatico. Il che non è necessariamente un male anzi io sono un grande fautore della disintermediazione, cioè di nuovi strumenti come social network o blog che danno modo di raccontare la realtà senza passare dai media tradizionali, perché offre grandi opportunità come dimostra quello che fate con questo blog sull’11/9. Però questo fa sì che abbiano molto spazio anche persone che hanno delle agende particolari o delle manie di protagonismo.

In generale non ho mai trovato nessun fondamento che abbia una qualche credibilità in nessuna delle varie teorie cospirative sull’11 settembre: né quelle sulle Torri Gemelle, né quelle sull’edificio 7, né quelle sul Pentagono, né quelle sul volo 93. A me ha sempre aiutato stare di fronte alle storie delle persone. Tornando in Italia dopo essere stato dieci anni negli USA mi è capitato molto spesso di sentir dire anche da parte di persone insospettabili “Ah, ma nessun aereo si è schiantato sul Pentagono” o cose del genere. Io sono stato a molte cerimonie per le vittime del Pentagono e ho avuto l’occasione di conoscere alcuni dei genitori dei cinque bambini che stavano sul volo 77, due dei quali andavano con la famiglia a vivere in Australia e tre erano di una scuola molto povera di Washington e avevano vinto un premio del National Geographic per andare in California con un loro insegnante perché erano molto bravi. Il National Geographic tentava così di tenerli lontani da una certa criminalità che c’era nelle loro scuole e questi bambini di undici e dodici anni erano orgogliosissimi di ciò. Uno di loro, che si chiamava Bernard, era il figlio di un militare del Pentagono. Questi bambini andarono all’aeroporto Dulles, fecero tutte le procedure di imbarco e di questo esistono tutte le prove. Abbiamo anche tutte le tracce dei cinque dirottatori e sappiamo anche in che posti sedevano; sappiamo tutto di tutti i passeggeri di quell’aereo. Quando la madre di Bernard seppe che c’era stata un’esplosione al Pentagono pensò di aver perso il marito, al contrario il marito era in un altra ala e lei perse il figlio. Di Bernard fu trovato il DNA, così come degli altri quattro bambini; molto spesso si taglia via tutta questa parte. È stato raccolto tutto il materiale possibile, è stato portato in una base nel Delaware, è stato fatto un lavoro enorme ed è stato trovato il DNA di tutte le vittime.

Quindi io quando ho avuto occasione di parlare con persone che mi dicevano che l’aereo al Pentagono non è mai esistito rispondevo “Guardate, dovreste parlare con i genitori di Bernard e convincerli non del fatto che l’aereo non è mai esistito, ma che loro figlio non è mai esistito.” Queste sono le teorie cospirative: se ci metti le persone, la teoria crolla.


Undicisettembre: Che ruolo pensi possa avere oggi il giornalismo per contrastare le teorie del complotto?

Marco Bardazzi: Oggi il giornalismo è molto indebolito: non ha la credibilità né la potenza che aveva vent’anni fa. È in forte crisi come modello di business e si confronta con l’informazione che viaggia su tantissimi altri canali, la disintermediazione è un bene che ancora dobbiamo imparare ad usare che però ha diminuito molto l’autorevolezza dei giornali. Quindi il problema del giornalismo oggi è che spesso non ha le risorse per fare gli approfondimenti che faceva un tempo e al contempo viene visto da molte persone come non credibile a prescindere. Negli ultimi anni si è anche molto polarizzato, quindi l’indipendenza che i giornalisti si erano guadagnati è andata in buona parte persa. Nonostante questo il giornalismo non ha mai avuto i mezzi che ha oggi per raccontare le storie; anche l’attacco a Capitol Hill è stato raccontato dai giornali americani già dopo pochi giorni con grande ricchezza di immagini, ricostruzioni con infografiche, incrocio di dati tra gli orari delle varie immagini per capire chi si è mosso e dove è andato. Il giornalismo oggi ha la capacità di fare inchieste anche multimediali che al tempo dell’11/9 non avremmo mai immaginato.

Quindi diciamo che sono in crisi i giornali, non è in crisi il giornalismo. C’è da compiere un grandissimo lavoro educativo, soprattutto sulle nuove generazioni, per far capire di chi fidarsi sulla rete. Il lavoro di questo blog è preziosissimo da questo punto di vista, i giornali dovrebbero impegnarsi di più, invece molto spesso prestano il fianco perché si lasciano andare a lavori che non hanno la credibilità che dovrebbero avere.


Undicisettembre: A distanza di due decenni come pensi che ne sia uscita l’America? È più forte oggi o prima dell’11/9?

Marco Bardazzi: L’America di oggi è un paese in grandissima difficoltà, un paese da ricostruire sotto tanti punti di vista. Esce da un quadriennio e da una presidenza che verrà giudicata dalla storia come un’assoluta anomalia. A mio avviso la presidenza Trump non può essere giudicata né repubblicana, né democratica; il quarantacinquesimo presidente degli USA non c’entra niente con i quarantaquattro di prima. L’America ha due partiti che per motivi diversi sono entrambi in crisi e devono ricostruire un percorso.

Dall’11 settembre a oggi l’America è uscita indebolita dalla crisi del 2008. Continua ad avere un livello di ineguaglianze interne inaccettabile e un sottofondo di risentimento razziale che non ci aspettavamo più ma che invece è più forte di prima. Ma nonostante tutto questo l’America rimane e rimarrà in traino di tutto quello che riguarda l’innovazione e l’economia. Spesso diciamo che la Cina sta per superarla e che il futuro sarà cinese: francamente non ci credo. Credo che il futuro continuerà a essere occidentale a traino americano, soprattutto come capacità creativa di innovare e trovare nuove soluzioni.

Io spero che adesso l’America si riapra a quella folla di giovani immigrati che da tutto il mondo l’hanno arricchita negli ultimi anni. È sorprendente vedere come oggi i colossi della Silicon Valley sono guidati da indiani che vengono da università dell’India di non primo livello, eppure in America hanno avuto le loro opportunità e oggi uno guida Microsoft e uno guida Google. Quella è sempre stata la grandezza dell’America che forse negli ultimi anni ha dimenticato anche per colpa dell’11 settembre, che l’ha spinta a chiudersi a vedere nell’immigrato e nel diverso un nemico e a scontri quasi di religione, perché l’Islam è una realtà con cui l’America si è confrontata in modo molto complesso.

Di ferite l’11/9 ne ha lasciate tantissime e sono alla base della ricostruzione del paese che dovrà avvenire da adesso in poi.

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