Il periodico Panorama pubblica sul numero 7 dell'11 febbraio 2010 una interessante intervista ad Abu Jandal, pseudonimo di Nasser al-Bahri, noto per essere stato la guardia del corpo personale di Osama bin Laden nel periodo che va dal 1996 al 2000. Ne riportiamo i passi più interessanti che ripercorrono la vicenda personale di Nasser e diversi aspetti significativi dell'organizzazione di bin Laden.
La storia che ci racconta Abu Jandal e che lo ha condotto a condividere gli ideali e la lotta di al-Qaeda è simile a quella di altri jihadisti: Bosnia, Somalia e infine Afghanistan nel 1996, dove l'incontro con bin Laden fa di lui uno dei primi membri operativi dell'organizzazione:
«Non eravamo in molti. In Occidente ci credevano migliaia, in realtà eravamo poche centinaia. Fino al 2000 i membri effettivi di Al Qaeda non erano più di 500, e anche a Guantanamo, fra i detenuti, non ce ne sono oggi più di una quindicina. Ma eravamo bene addestrati e disposti a morire».
Abu Jandal, dopo mesi di addestramento, conquista la fiducia di Osama partecipando coraggiosamente alla difesa del campo Najm al-Jihad (Stella della Jihad) a Jalalabad e diviene così capo della sua scorta personale, con l'incarico particolare di uccidere Osama piuttosto che permetterne la cattura.
«Si fidava di me perché aveva visto che ero pronto al martirio. Ci spostavamo in continuazione. La scorta era composta da 50 mujaheddin, ma tre di noi gli stavano sempre al fianco».
Secondo Abu Jandal/Nasser, nell’agosto 1998, subito dopo gli attentati alle ambasciate americane a Nairobi e Dar es-Salaam, gli Stati Uniti mancarono la loro migliore occasione per eliminare bin Laden:
«Osama si aspettava una rappresaglia e decise di lasciare Tarnak, diretto a nord. Giungemmo a un bivio: a destra la strada conduceva ai campi di addestramento di Khost, a sinistra si andava a Kabul. «Dove andiamo?» mi chiese Osama. A Kabul, risposi d’istinto. La sera dopo 75 missili Cruise investirono i campi di Khost, dove un informatore della Cia sapeva che Bin Laden era diretto. La spia era il cuoco afghano. Io ero pronto a ucciderlo, ma non fu punito. Osama lo lasciò andare e gli diede persino dei soldi. Lo sceicco è un uomo saggio e tollerante, sempre sorridente. È un modello per tutti noi».
L'attenzione per la sicurezza del nucleo centrale di al-Qaeda riguarda anche le comunicazioni, di cui Panorama delinea i meccanismi principali:
A quell’epoca Osama utilizzava un computer e guardava la tv, ma non si serviva di telefoni. Tutte le comunicazioni avvenivano a voce. I suoi ordini venivano trasmessi da noi con un codice segreto, oppure attraverso messaggeri. Aveva sei collaboratori che ogni giorno gli preparavano resoconti e analisi da tutto il mondo. Un altro briefing settimanale con numerosi file di internet arrivava da Quetta, in Pakistan, compresso in una flash card.
Abu Jandal fu poi catturato nell'ottobre del 2000 a Sana’a, nello Yemen, mentre prestava le sue cure alla moglie e al padre, entrambi malati, subito dopo l'attentato di al-Qaeda al cacciatorpediniere americano Cole, ormeggiato presso Aden, operazione della quale peraltro non aveva alcuna informazione, poiché considerata top-secret dal direttorio di al-Qaeda.
L'11 settembre 2001 Abu Jandal si trovava dunque nel carcere di Sana’a:
«Seppi dell’attentato alle Torri Gemelle dall’altoparlante di una vicina moschea. Non fui sorpreso: Osama diceva spesso che Al Qaeda avrebbe messo a segno un’operazione che avrebbe cambiato il mondo e che i regimi arabi non sarebbero stati in grado di assorbire senza conseguenze».
Da allora Abu Jandal è considerato un disertore dai suoi ex compagni, dal momento che un agente speciale dell’Fbi dichiarò di aver ottenuto proprio da lui importanti informazioni sulla struttura e sull'organizzazione di al-Qaeda e sui membri del commando che colpì l'11 settembre. Abu Jandal/Nasser rigetta con forza questa accusa, ribadendo invece la sua fedeltà alla causa di al-Qaeda.
Ammette invece di aver conosciuto Mohammed Atta, Ramzi Binalshibh e Ziad Jarrah, i membri della cosiddetta "Cellula di Amburgo" che progettarono gli attentati dell'11 settembre:
«Mi trovavo spesso con loro: ho un video in cui preghiamo insieme. Atta era il più religioso e taciturno, si comportava da leader. Jarrah era diverso: era stato Ramzi ad arruolarlo, in Germania. Ma non parlavano. Non immaginavo cosa stessero preparando. Comunque a quell’epoca, se me lo avessero chiesto, avrei partecipato con entusiasmo all’operazione».
Oggi, scarcerato dopo 22 mesi, Abu Jandal vive in semilibertà con la moglie e i figli a San'a dopo aver sottoscritto una rinuncia formale alla lotta armata:
«Ho firmato perché volevo tornare a casa dai miei bambini: la mia jihad, adesso, è farli crescere e camminare sulla via dell’Islam».
Viene sorvegliato dalla polizia yemenita e dall'FBI e per due volte hanno tentato di ucciderlo:
«I salafiti, i Fratelli musulmani, il governo yemenita e quello americano mi considerano un terrorista. E per Al Qaeda sono un kafir, un traditore da eliminare».
Secondo la sua opinione, oggi Osama non si troverebbe affatto in Pakistan, come ipotizzano la maggior parte delle fonti, ma in Afghanistan, ed anche le ipotesi sulla salute precaria di bin Laden sarebbero illazioni non rispondenti alla realtà:
«Le tribù pachistane al confine sono capaci di vendere qualsiasi informazione per pochi dollari. Sono certo che Osama si sposta tra le montagne afghane, dove è al sicuro e dove per vivere gli bastano pane, acqua e datteri. È abituato a vivere con poco e ha una salute di ferro».
Delle recenti notizie sull'infiltrazione di al-Qaeda nello Yemen, Abu Jandal/Nasser ha un'idea ben precisa:
«In Yemen Al Qaeda è radicata dagli anni Ottanta: quasi tutte le guardie del corpo di Osama sono yemenite. Ora si è rafforzata, è sostenuta e protetta dalle tribù, ha basi e campi di addestramento sulle montagne e ha esteso la sua influenza in Somalia e in Arabia Saudita. Ma altrove, nel Maghreb come in Iraq o in Nigeria, è solo un marchio di cui si fregiano gruppi armati che hanno obiettivi e strategie diversi. Oggi molti giovani che si ispirano a Osama non sanno neppure perché e per cosa combattono».
Si tratta di una intervista ricca di spunti sia di natura psicologica, sui meccanismi che possono indurre ad abbracciare la Jihad, sia di natura di cronaca e di storia per quel che riguarda alcuni aspetti dell'organizzazione degli eventi che coinvolsero al-Qaeda e la sua permanenza in Afghanistan.
Tra una dichiarazione e l'altra Abu Jandal ci porta inoltre a ripercorrere le tappe principali della Jihad nei confronti degli Stati Uniti: dagli attentati alle ambasciate americane a Nairobi e Dar es-Salaam, al Cole, fino all'11 settembre.
A questo proposito, è infine interessante notare come, ancora una volta, un membro di al-Qaeda vicino ad Osama non rigetti in alcun modo la responsabilità del suo gruppo nell'organizzazione degli attentati, ma anzi ne sottolinei con orgoglio il valore in ottica Jihadista.