di Paolo Attivissimo su testo e foto di Mattia Butta, citato con il suo permesso. La prima parte di quest'articolo è pubblicata qui.
English Abstract: This is the second part of a two-part article describing a visit to the 9/11 Memorial Exhibition in Caen, France. The first part is here. If you'd like an English translation, leave a comment below. Please note comments are subject to moderation and therefore are published with a slight delay.
Prosegue il resoconto di un lettore, Mattia Butta, della visita all'esposizione allestita al Mémorial di Caen per non dimenticare l'11 settembre 2001. La parte iniziale del resoconto è stata pubblicata su Undicisettembre
qui.
Con questo articolo non si intende fare opera di mero
debunking delle teorie cospirazioniste, ma presentare una mostra che permette agevolmente a chiunque, specialmente in Europa, di conoscere e capire meglio questa tragedia con l'efficacia e l'impatto che soltanto reperti tangibili possono avere.
"11 settembre, dove eravate?" di Mattia Butta
[segue da qui] Passo alla sala centrale, che rappresenta gli istanti immediatamente successivi all'attacco: in alcune bacheche troviamo gli effetti personali di persone che in quel momento si trovano nelle torri gemelle e cercano di scappare. Ci sono il notebook di una professoressa, il volante di un'automobile.
Stride la collezione di pin e toppe per bambini, con disegni allegri raffiguranti il WTC. In questa sala vengono ricordati i soccorritori che in quel momento sono accorsi sul luogo: sono esposte la portiera di un'ambulanza e quella di un camion dei pompieri.
[La didascalia che accompagna questo reperto nell'esposizione precisa che si tratta di una portiera di un veicolo dello Squad 1, con base a Brooklyn, che quel giorno perse dodici uomini. Questi, signori complottisti, sono gli uomini che accusate di nascondere la verità e di tacere le prove della messinscena – P.A.]
Uno dei pezzi più “speciali” dell'esposizione è una giacca dei NYFD, esposta sotto una gigantografia raffigurante tre pompieri; in quella foto c'è chi guarda in basso, distrutto dall'evento, e chi guarda fisso e deciso, pronto a reagire. Sulla giacca ci sono firme e motti come
“United we stand”, scritte da chi quell'evento l'ha vissuto da dentro.
Davanti a quella giacca, quando leggo quell'
“United we stand”, quella fierezza nella reazione che accomuna le persone e le fa diventare fratelli, ecco, proprio in quel momento provo una sensazione che provai solo nell'estate 2006, all'aeroporto di Glasgow. Erano i giorni del caos totale generato dagli sventati (e presunti) attacchi che si sarebbero dovuti realizzare con le bombe a base di liquidi portati in cabina. In quei giorni si doveva prendere l'aereo quasi nudi, con niente in mano.
Al check-in avevo portato un libricino col Vangelo di Luca, che mi aveva regalato un pastore protestante a Edimburgo; volevo leggerlo nei tempi morti dei lunghissimi controlli. Ebbene, mi vietarono di portarlo con me: niente, pasaporto e carta d'imbarco. Mi fecero togliere le scarpe e camminare a piedi nudi, mi perquisirono fisicamente in ogni dove, genitali compresi. Mi venne da piangere: che senso aveva tutto questo? Perché queste persone vogliono e possono condizionare la nostra esistenza in questo modo? Ecco, davanti alla divisa dei pompieri, provo ancora quella voglia di piangere irrazionale.
Questa sala ci ricorda, anche grazie alla statua della libertà del ristorante Nino's
[foto qui accanto], di ciò che avvenne dopo l'attacco, quella grande solidarietà e umanità, per cui ci si aiutava l'un l'altro anche senza conoscersi; un fenomeno impossibile normalmente in una metropoli.
[La didascalia a Caen spiega che si tratta della statua pubblicitaria della Coca-Cola del Nino's Restaurant, situato a poca distanza dal WTC, che divenne il centro d'accoglienza per poliziotti, pompieri e soccorritori e dove furono serviti oltre 500.000 pasti gratuiti durante i cinque mesi dei lavori di soccorso e recupero – P.A.]
Passo alla sala successiva, l'ultima del piano superiore, che simboleggia il giorno dopo. Vengo accolto dal colpo d'occhio del muro dei dispersi. Si tratta di una riproduzione di soli alcuni delle migliaia di cartelli affissi per la città con la scritta
“Missing” e la foto del parente disperso.
Basta dare una rapida lettura ai nomi e un rapido sguardo alle foto, per rendersi conto che le persone coinvolte in quella strage appartenevano alle più diverse razze e nazionalità. Ci sono tutti i colori della pelle, tutti i tipi di nomi e provenienze, come è ovvio che sia in una metropoli come NYC. Ma questo mi fa pensare come l'attacco dell'11 settembre non sia stato un realtà un attacco ai WASP americani, parenti di Bush; in realtà è stato un attacco al mondo intero, e lo leggi nei nomi delle persone.
Scorgo un nome familiare (Alena Sesinová), quasi sicuramente era una signora di origine ceca (come poi vedrò confermato da una ricerca su internet). Essendo la Repubblica Ceca il paese che mi accoglie, mi sento vicino a quella persona, e questa tragedia mi fa un po' più male.
Su due schermi vengono trasmessi i telegiornali di France 2 sulla tragedia. In una teca ci sono i giornali di tutto il mondo che, in tutte le lingue, il giorno dopo annunciano la tragedia.
Il giorno dopo, il giorno in cui si pensa a chi c'è dietro quei morti, il giorno in cui i parenti che non vedono il disperso tornare a casa, capiscono che non c'è più niente da fare. Il giorno in cui si inizia ad associare una vita ad ogni nome di un morto.
Per questo su un lato della sala ci sono alcuni pannelli con le foto e le storie di alcune persone tra le tante morte quel giorno. C'è il pompiere, l'assistente di volo, la maestra in pensione, o la studentessa che tornava a casa in California dai genitori. Tutti accomunati dall'essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato, chi per un terribile fato, chi invece per aver scelto di dedicare la vita a salvare gli altri. Nella teca davanti a questi pannelli troviamo i loro effetti personali.
La visita continua al piano inferiore, dove è trattato quello che è seguito all'evento. Vengono esposti cimeli realizzati dagli studenti delle scuole, per ricordare l'evento. C'è una porzione della recinzione dei ricordi, dove per i mesi successivi furono appesi appelli, ricordi e bandiere. Troviamo anche dei frammenti di sculture presenti dentro e davanti al WTC prima dell'attacco
[una statua di Rodin e la scultura di Alexander Calder situatata davanti al WTC7]: sembra quasi ci dicano che l'attentato ha distrutto anche “il bello”, che il mondo è cambiato.
In questa sala, nel concludere la visita, troviamo anche gli unici accenni politici dell'esposizione. Su uno schermo viene trasmesso Bush, mentre dichiara al congresso americano che gli attacchi dell'11 settembre sono da considerarsi un atto di guerra, mentre su diversi pannelli si racconta la reazione della comunità internazionale all'attentato e quello che ne è seguito.
La visita si conclude. Lo scopo dell'esposizione è chiaro, e l'ho capito guardando alcuni ragazzini mentre guardavano un video che, nella sala centrale del piano superiore, trasmetteva le immagini dell'attacco alle torri gemelle. Questi ragazzini avranno avuto 11 o 12 anni al massimo, e discutevano con competenza dell'evento. Fatti due conti, nel 2001, sette anni fa, avevano 4 o 5 anni, e di certo non si ricordano dell'attentato per averlo visto in diretta.
Mi sono reso conto che il tempo passa velocemente, e sta già crescendo la generazione che non ha vissuto l'11 settembre, che non ha provato l'angoscia di quegli istanti, poi sfumata col tempo. Questa mostra serve per fare vivere a questa nuova generazione, quello che fu l'attentato e serve a noi, che invece l'abbiamo vissuto, per riportarci indietro a quei momenti e farci ripensare a quello che è stato.