2019/12/16

Garrett M. Graff - The Only Plane in The Sky: The Oral History of 9/11

di Hammer

In occasione del diciottesimo anniversario degli attentati dell'11/9, il giornalista Garrett Graff ha pubblicato il volume The Only Plane in The Sky: The Oral History of 9/11, in cui ricostruisce gli eventi drammatici di quel giorno attraverso i racconti in prima persona di testimoni, sopravvissuti, soccorritori, di chi ha perso i propri congiunti negli attentati e di persone coinvolte negli attacchi a vari livelli, come gli insegnanti di una scuola di Arlington.

Il libro di Graff costituisce davvero un lavoro monumentale, avendo raccolto centinaia di contributi che offrono uno spaccato completo e toccante dello svolgimento di quei tragici attentati. Grazie ai racconti raccolti da Graff riviviamo infatti le emozioni di chi si è trovato a dover evacuare dalle Torri Gemelle e dal Pentagono in fiamme, dei soccorritori che sono stati chiamati a intervenire e anche di chi ha assistito inerme allo svolgersi degli eventi.

Oltre a raccontare i fatti che si sono svolti nelle tre zone del disastro, narrati anche in numerosi altri libri e documentari, Graff ha raccolto testimonianze più rare come quelle dei controllori di volo, del personale del NORAD, di quello presente nel Presidential Emergency Operations Center (struttura interrata della Casa Bianca utilizzata come centro di comando in caso di emergenze nazionali), dei medici e degli infermieri che accolsero i feriti negli ospedali e di chi era presente sull'Air Force One (come personale della stampa, collaboratori del Presidente e ufficiali dello United States Secret Service) che volava in una zona mai precisamente chiarita al pubblico sul Golfo del Messico. Inoltre, Graff riporta le testimonianze anche di personalità di spicco come Dick Cheney, Condoleezza Rice, Richard Clarke e Rudy Giuliani, che servono a chiarire come l'evento fosse completamente imprevedibile anche per le autorità che dovettero prendere decisioni mai prese prima su come fronteggiare la crisi.

Il libro di Graff è quindi prezioso non solo perché approfondisce i fatti ampiamente noti, ma anche perché racconta aspetti meno conosciuti degli attenti, come ciò che è accaduto nel pomeriggio al World Trade Center e al Pentagono per la gestione della situazione e anche l'intervento dei soccorritori a Shanksville che hanno rinvenuto sul luogo dello schianto solo i frammenti dell'aereo e nessun ferito da soccorrere.

The Only Plane in The Sky: The Oral History of 9/11 è ad oggi uno dei migliori libri mai pubblicati sull'11/9, proprio per la sua completezza e per aver approfondito aspetti che spesso non vengono messi in luce. Garret Graff deve sicuramente essere encomiato per il suo sforzo e per il risultato della sua ricerca che aggiunge una pietra miliare utile a preservare la memoria di quanto avvenuto in quei tragici momenti.

2019/12/02

L'incendio al World Trade Center del 1975

di Hammer

Ventisei anni prima dell'11/9 e diciotto anni prima dell'attentato del 1993, il World Trade Center fu colpito da un incendio all’undicesimo piano della Torre Nord il 13 febbraio del 1975, in quello che fu il primo grave incidente occorso al complesso fino ai due attentati terroristici.


Di questo evento parla il libro Tall Building Criteria and Loading, scritto nel 1980 dal progettista delle Torri Gemelle, Leslie Robertson, insieme all'ingegnere giapponese Takeo Naka. Secondo quanto riportato, intorno alle 23:45 un facchino si accorse del fuoco all'undicesimo piano e attivò manualmente l'allarme. La squadra dei pompieri arrivò sulla scena e salì con il montacarichi fino al nono piano, i vigili del fuoco collegarono i tubi agli idranti al decimo piano per poi salire lungo le scale per affrontare l'incendio al piano superiore.

Arrivati all'undicesimo piano, si accorsero che il fuoco si era esteso al piano inferiore e ai piani superiori fino al sedicesimo, passando lungo le condutture per i cavi telefonici; tuttavia agli altri piani i danni furono limitati alle condutture dei cavi e le fiamme non raggiunsero gli uffici. I pompieri impiegarono tre ore a spegnere le fiamme. Inoltre incendi isolati furono trovati al nono e al diciannovesimo piano e furono spenti senza problemi.

Al tempo le condutture per i cavi non erano dotate di protezioni ignifughe e i palazzi stessi non avevano un impianto antincendio ad acqua, in quanto la Port Authority di New York e New Jersey non era tenuta a rispettare le norme di sicurezza locali. Inoltre il sistema di rilevamento del fumo, che pure era presente, non rilevò l'incendio prima che se ne accorgesse il facchino.

Al momento dell'incidente gli unici occupanti dell'edificio erano del personale delle pulizie e di servizio, che furono fatti evacuare; otto di loro dovettero essere curati per ferite o per esposizione al fumo. Dei 132 pompieri coinvolti, 28 rimasero feriti e 16 dovettero essere curati sul posto. Il capitano dei pompieri Harold Kull riferì in seguito che data la violenza dell'incendio, tutti gli uomini della sua squadra riportarono bruciature al collo e all'orecchio; inoltre il calore sprigionato fu sufficiente a causare l'imbarcamento di parte della soletta dell'undicesimo piano, che rimase danneggiato al 21%.

Il dipartimento dei vigili del fuoco chiarì subito che l'incendio era doloso: un piromane aveva imbottito di carta un quadro tecnico dell'apparato telefonico e aveva dato fuoco alla carta stessa. A conferma dell'ipotesi, alcuni giorni dopo la polizia della Port Authority e la Temco Industries (società incaricata della manutenzione dei palazzi) ricevettero telefonate anonime che minacciavano altri incendi se i lavoratori della Temco non avessero ricevuto i pagamenti arretrati che la società doveva loro.

Nella notte del 19 maggio dello stesso anno una nuova serie di incendi scoppiò nella Torre Sud: al ventiseiesimo, ventisettesimo, ventottesimo e trentaduesimo piano. In seguito a questo secondo atto di incendio intenzionale, il dipartimento dei vigili del fuoco, grazie alla presenza di due comandanti sotto copertura come addetti alle pulizie, riuscì a individuare il responsabile di entrambi gli atti nel diciannovenne Oswald Adorno, che lavorava come guardiano notturno alle dipendenze della Temco. Adorno ammise la propria colpevolezza e aggiunse che il motivo dell'assurdo e reiterato gesto stava nel non vedere opportunamente riconosciuto dall'azienda il proprio lavoro faticoso, in quanto l'uomo riteneva di essere responsabile di troppi piani dell'edificio.

Il rapporto del NIST sul crollo delle Torri Gemelle spiega che in seguito ai due incidenti la Port Authority avviò uno studio per il miglioramento della sicurezza negli edifici e questo portò all'installazione di porte tagliafuoco attivate da elettromagneti, al potenziamento del sistema di allarme e di quello di rilevazione dei fumi. Inoltre furono isolate maggiormente le scale, in modo che il fumo non potesse invaderle, e fu migliorata l'aerazione del core che, nel caso dell'incendio causato da Adorno, aveva funzionato come un camino, portando il fumo nei piani superiori, al punto che anche persone oltre il quarantesimo piano riferirono di aver sentito l'odore del fumo. Tra i miglioramenti introdotti ci fu ovviamente l'installazione di un sistema antincendio, che fu completato solo nel 1993.

Purtroppo tutte le contromisure prese non bastarono contro lo sfacelo causato dai terroristi l'11 settembre 2001: a riprova del fatto che l'orrore di quella mattina superò abbondantemente le peggiori previsioni dei progettisti e di chi doveva garantire la sicurezza degli edifici.

2019/11/18

Cosa sapeva l'NSA prima dell'11/9: il centro per le comunicazioni di Sana'a

di Hammer

A metà degli anni 90 al-Qaeda attivò a Sana'a, capitale dello Yemen, un centro di comando che fu utilizzato principalmente come snodo per le comunicazioni. La scelta di porre questa sede nello Yemen fu dettata dai migliori collegamenti telefonici e aerei che la penisola araba aveva rispetto a quelli afghani.

L'edificio utilizzato come centro per le comunicazioni si trova, secondo quanto riportato dal libro The Shadow Factory di James Bamford del 2008, al vertice nord-occidentale del quartiere di Madbah e lo stesso Bamford riferì nel documentario The Spy Factory di averlo identificato con quello riportato nella foto sottostante. Il proprietario dell'edificio che lo mise a disposizione di al-Qaeda era lo yemenita Ahmed al-Hada la cui figlia Hoda avrebbe sposato il terrorista e dirottatore del volo American Airlines 77 (quello che si schiantò sul Pentagono) Khalid al-Mihdhar.


La struttura era dotata di un telefono satellitare Compact M comprato dal miliziano di al-Qaeda Ziyad Khalil a Deer Park, nello stato di New York, per 7.500$ che si poteva connettere alla rete telefonica satellitare Inmarsat.

Il dispositivo venne usato per coordinare molte e importantissime operazioni di al-Qaeda. Non è chiaro quando gli investigatori americani siano venuti a conoscenza dell'esistenza di questa base a Sana'a; secondo James Bamford l'NSA lo scoprì alla fine del 1996, mentre secondo quanto riportato da Lawrence Wright (autore del più completo volume sulla storia di al-Qaeda, The Looming Tower) la scoperta dell'esistenza di questa sede avvenne nel 1998. Gli investigatori riuscirono a risalire al numero di telefono del dispositivo, che al tempo era +967-1-200-578, e grazie a questa scoperta risalirono anche al numero di telefono personale di Osama bin Laden il quale comunicava spesso con il centro yemenita. Al tempo bin Laden utilizzava il numero telefonico +873-682505331 (873 era al tempo il prefisso Inmarsat dell'area dell'Oceano Indiano, i prefissi locali per Inmarsat sono stati dismessi a dicembre del 2018).

La CIA mise sotto controllo il telefono nella casa di Sana'a ed ottenne informazioni sulle attività di al-Qaeda come summit del terrore che si sarebbe tenuto in Malesia nel gennaio del 2000, ottenendo anche i nomi di due dei partecipanti: Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi (entrambi futuri dirottatori dell'11/9). Tuttavia la CIA non comunicò le informazioni raccolte all'FBI, ma le condivise solo con i servizi segreti Sauditi grazie a cui scoprì che i due erano legati ad al-Qaeda. Grazie a queste informazioni alcuni agenti della CIA riuscirono ad entrare nella camera di albergo di Dubai in cui al-Mihdhar si era fermato durante il suo viaggio verso la Malesia, gli agenti fotocopiarono il passaporto del terrorista e scoprirono che aveva un visto per entrare negli USA, ma di nuovo non ne informarono l'FBI né il Dipartimento di Stato.

Al-Mihdhar e al-Hazmi arrivarono negli USA pochi giorni dopo l'incontro in Malesia e da San Diego effettuarono varie telefonate verso la sede di Sana'a, e durante il periodo che trascorsero in California ricevettero anche molte chiamate dalla stessa sede. Alcune di queste comunicazione erano di carattere personale, ad esempio tra al-Mihdhar e la moglie che viveva proprio nella casa utilizzata come centro per le comunicazioni, ma altre servivano a dare indicazioni operative ai terroristi.

L'NSA intercettò queste chiamate ma, stando a quando a quanto asserito da Michael Hayden, direttore dell'NSA dal 1999 al 2005, l'agenzia di cui era a capo non poteva risalire al luogo da cui le chiamate venivano effettuate. Tuttavia il membro del Senior Executive Service dell'NSA Thomas Drake sostenne che la tesi di Hayden non corrispondeva alla realtà perché l'NSA è sempre stata in grado di individuare la provenienza delle telefonate al centro di Sana'a, come confermato dal fatto che sono stati in grado di identificare il telefono da cui chiamava bin Laden già negli anni 90.

Un'analisi di Peter Bergen del 2013 evidenzia come ciò che è mancato prima dell'11/9 non è stato tanto la raccolta delle informazioni, quando la condivisione delle stesse tra le varie agenzie e mostra come la situazione non sia migliorata dopo il 2001; l'articolo cita infatti altri quattro casi di mancata comunicazione avvenuti tra il 2008 e il 2009. Il cittadino americano David Headley ebbe un ruolo fondamentale nel coordinamento dell'attentato che a Mumbai uccise 166 persone nel 2008; le autorità americane avevano avuto informazioni sulle sue affiliazioni a gruppi terroristi ma non indagarono a fondo per tempo. Il medico militare Nidal Hasan uccise 13 persone in una sparatoria a Fort Hood in Texas nel 2009; i suoi legami con il terrorista yemenita Anwar al-Awlaki erano noti, ma sottovalutati dagli investigatori. Carlos Bledsoe, americano convertito all'Islam, uccise un soldato a Little Rock nell'Arkansas nel 2009; l'uomo era sorvegliato dall'FBI per un suo recente viaggio in Yemen, tuttavia riuscì a comprare le armi e a realizzare il suo folle intento. Il nigeriano Umar Farouk AbdulMutallab nel giorno di Natale del 2009 tentò di far esplodere il volo Northwest Airlines 253, partito da Amsterdam, sopra la città di Detroit, ma l'ordigno non funzionò; il padre aveva avvisato l'ambasciata del fatto che suo figlio avesse tendenze estremiste e che forse stava pianificando un attentato.

L'analisi di Bergen è tristemente corretta: il caso del centro operativo di Sana'a indica infatti come anche l'11/9 avrebbe potuto essere evitato se le agenzie investigative non avessero sottovalutato la minaccia dei terroristi sul suolo americano.

2019/10/28

World Trade Center: an interview with former US Secret Service agent Samantha Horwitz

by Hammer. An Italian translation is available here.

We are offering our readers today the personal account of former US Secret Service agent Samantha Horwitz who on 9/11 intervened at Ground Zero as a first responder. After 9/11 Horwitz was a victim of post traumatic stress disorder and to tell her story and how she went through it she also wrote a book entitled The Silent Fall.

We would like to thank Samantha Horwitz for her kindness and willingness to help.


Undicisettembre: Can you give us a general account of what you saw and experienced on 9/11?

Samantha Horwitz: I was on my way to work, the Secret Service field office in New York was located in World Trade Center 7, and while on my way to work I got stuck in an accident that - I didn't think about it at the time - would set into motion events that forever changed my life. When I arrived at my field office and parked underneath World Trade Center Tower 1, which was our parking area, I got into the elevator to go up to the Plaza level and while inside the elevator I thought there was a malfunction or I was getting stuck. The lights flickered and the elevator car shook and little did I know, 94 stories above, American Airlines flight 11 had just struck the tower.

We were very lucky that the elevator doors opened. We were met with a debris field that was already in the lobby level area. I got out of the elevator, made my way up an escalator and used an exit door that I never used before in all the time working down there. It put me on the Plaza level where I was stopped in my tracks by what I saw – debris was raining down from the sky. Pieces of metal, pieces of concrete and pieces of people. I knew something very bad had happened, I thought it was some sort of bomb that had been detonated and I made my way around the area across from building 7 and I could see into the lobby.

I could see some of my squad mates and my supervisor who was motioning for me to run. At that point where I stopped, I was shielded from all the debris and I had to run across a pedestrian bridge that connected the World Trade Center Plaza, crossed over the top of Vesey Street and into my building. I finally just took off running and made it into my building. We all thought the dust would settle and we’d be investigating what had just happened. Soon after, Tower 2 got hit and we watched the glass in our building bow inward and almost shatter. We were lucky it held and we then looked at each other, we didn't have to say a word. Everybody was thinking the same thing “We are the 3rd tallest building in the World Trade Center complex and we are next.”

In addition to the Secret Service New York Field Office being in World Trade Center 7, then Mayor Giuliani's Office of Emergency Management was inside that building along with other agencies that the public didn't have knowledge of. We decided to evacuate our building, we made it to West Side Highway where we got our first glimpse as to what had occurred. We were standing on West Side Highway looking at Tower 1 and you could see a huge gaping hole in it and Tower 2 behind it. A thick black smoke trail was coming out of it. We had no idea at that time that full sized passenger jets had flown into the towers.

We stood there assessing the situation as any good crime scene investigator would, figuring out what kind of explosion it was. Our concentration was broken by a fellow agent who was driving, he slammed on his brakes of his government vehicle and got our attention and he asked us if we had seen the planes. We were not comprehending and we were like “What are you talking about? Planes do not fly into the two tallest buildings in New York City. You would have seen them, they are huge”.

He was pretty insistent they were planes and then we heard over his radio that the Pentagon was hit. So we thought “Okay, we are at war. Something is drastically wrong here.” and for us being first responders we immediately thought “Well if we are at war, where's the enemy?” We were armed and there was nobody to shoot at and in our minds we were trying to figure everything out.

Passenger airliners had just flown into Tower 1 and Tower 2 and into the Pentagon, what was going to happen next? We were watching this horrific scene unfold, there's really no other word to describe it. Soon after, we watched as people started jumping out of Tower 1 and after the tenth one I stopped counting, you could feel them as they hit the ground. That's how close we were, we could feel the shockwave.

We watched the smoke and fire continue to pour out. As you can imagine there were a lot of different sounds related to what was going on and there was this one particular sound that stuck out, it was like a grizzly bear making a really deep growl; it got louder and louder and then all of a sudden Tower 2 came down. We took off running and we made it into the closest building that had a front door that was open which happened to be a school. I think there had to be thirty of us, obviously it got some attention from the front office and the principal came out.

We briefed him on what was going on and we decided that we were going to go back out and go down to where the tower collapsed because there had to be people to rescue. That's what we do as first responders. Responding to every day emergencies wasn’t necessarily part of the Secret Service’s mission, but we were trained to do that; we are highly trained in the first aid. There was one big problem though - that dust. You could not be outside without having your mouth and nose covered. A bunch of the guys started ripping up their shirts so we could fashion bandanas around our faces. Myself and two other agents decided to stay behind at the school to set up a triage so that we could receive the victims that were coming to us, we could triage them and then get the ambulances coordinated and get them off to the hospital.

None of that happened because about thirty minutes later the school got orders to evacuate. We were about three blocks from what would be called Ground Zero by the end day. Myself, the two agents that were with me, the principal and a student who is about six feet tall and his aide were the last ones out of that school and what we didn't know was the school was made up of a very large population of physically and mentally challenged kids. So we had an evacuation with walkers, wheelchairs, crutches.

We were walking back towards West Side Highway and the student was visibly shaken. He had no idea who we were and he was walking too slow for an emergency evacuation, we were encouraging him to walk faster. As we hit West Side Highway, we heard that low grumbling and growling sound again and the two agents and I looked at each other and said “We’ve got to go now!” I took one of the student’s legs, the other agent took another leg and the third agent scooped him up underneath his shoulder blades. We started running up West Side Highway. We had one mission - To outrun that dust cloud from World Trade Center 1’s collapse coming for us. We did, and we turned around and watched that dust settle.

It was as if watching a scene from a horror movie: people were coming out of this dust cloud completely covered, some of them had blood coming from different areas of their body. We continued our walk up West Side Highway, when we turned around and an ambulance appeared. The paramedics got their stretcher out, we loaded the student onto the stretcher and he and his aide went off to the hospital. The scene of us carrying the student was captured in People magazine. I didn't find out until somebody called me on the phone weeks later.

Again we were wondering “What's going to happen next? And what do we do now?” Our pagers went off and we received a message to go to Pier 63, which is one of the piers on the Hudson River. When we got there our supervisors had arranged with the US Park Police to use their small ferry boats, to ferry us from where we were across the Hudson River to New Jersey where the New Jersey field office agents were already waiting for us to take us home because we had lost all of our transportation. All the government vehicles were gone.

I’ll never forget as I pulled away from the dock. I was looking at a skyline that was forever changed, the two iconic towers and what everybody thought about when they thought about New York City were gone, and in their place was just thick black smoke. It started a new journey for me, called dealing with post-traumatic stress.

The symptoms started as soon as I got back to my apartment where I found that I couldn’t be in an enclosed space because it would cause an anxiety attack, my heart would start racing and I would start sweating. If I got out into the open the symptoms would go away. The nightmares, the hyper-vigilance and survivor’s guilt eventually lead to having to rely on alcohol to go to sleep at night. One day I was holding a gun to my head, it got that bad. It was not a fun time and not only for me, I know that other agents suffered as well.

What we soon realized, and what happened with me, was the mental game that post traumatic stress created in all of us. I remember sitting at my desk reading the same paragraph of a report I had to hand in for the umpteenth time and I thought I was losing my mind. At that time we had set up a makeshift office in some office space that we found, because our building was the last time to come down on 9/11 and we had nowhere to work. I knew I wasn’t able to function 100% so I told my supervisors “I can’t do this anymore” and they didn’t know how to offer help. We had one debriefing by the folks that came from our headquarters in Washington, DC, but other than that, despite asking for it, we didn’t have it, so I made the very difficult decision to resign as an agent. I couldn’t risk being a liability because an agent that doesn’t function 100% basically means someone might not go home that night and I couldn’t have that on my conscience.


Undicisettembre: What did you do on the next days after 9/11?

Samantha Horwitz: We had a few days off, the only ground rules were check in with our supervisors everyday, once a day if not twice, to let them know that we were okay, because we had some agents that were missing and one who was killed. We got orders to report to the JFK airport for a debriefing that took place three days later and that’s when the folks from the headquarters came up to find out where we were and what we saw.

Knowing we had some exposure to that dust, we were ordered to get chest x-rays but at that time nothing was visible. My family was in Maryland, I lived in New Jersey commuting to the city everyday, and I went back to Maryland just to get out of the city.


Undicisettembre: What role did you have in the following investigations and what were your major findings?

Samantha Horwitz: The US Secret Service was tasked with tracing the money from 9/11: what banks were involved, overseas and domestically, how money exchanged hands between the terrorists, how they got to the United States. Now we know the rest of the story with Khalid Sheikh Mohammed and Osama bin Laden and it was very rewarding to help with that. We were part of the Joint Terrorism Task Force and we were putting the puzzle pieces together. We were able to do that and to report our findings working together with other agencies. We pinpointed the ringleader who ended up being the same ringleader as for the bombing in 1993, what he succeeded in doing on 9/11 was what he wanted to do in 1993.


Undicisettembre: How does 9/11 affect the everyday work of US Secret Service even today?

Samantha Horwitz: The biggest change that we saw after 9/11 was when President Bush decided to create the Department of Homeland Security, no one of us thought we would have been absorbed into that agency because we had clearly defined roles and a skillset that no other agency had, and when that happened everything changed. I had already resigned my position along with eight other agents, so I did not go through that change in leadership.

We look at every case of fraud and see if we can tie it back to a terrorist organization, not only us but other federal agencies as well. The investigation revealed the terrorists had their hands in many different pies. So a fraud that was being perpetrated across the globe ended up putting money in their banks and help fund terrorist attacks. As federal law enforcement agencies, we have stopped numerous attacks both here and abroad. As technology expands, and as banking becomes more sophisticated, the terrorists became more sophisticated. It’s our job to level the playing field.


Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life?

The cover of The Silent Fall,
the book by Samantha Horwitz
about her 9/11 experience.
Samantha Horwitz: I consider myself one of the lucky ones, despite floundering and struggling after 9/11 I got help and it was very effective. It’s a therapy called EMDR, Eye Movement Desensitization Reprocessing, and what it did was take me back and help me create new neural synapses, new brain connections where if I heard a loud bang or a plane flying low overhead I didn’t go into the “fight of flight” response or be triggered. That allowed me to live a normal life again, because before that if I was out in public and there was a thunderstorm, I’d be diving under furniture, so I didn’t want to be out in public fearing this might happen. This therapy saved my life.

Every once in while I get triggered but there’s no flashback or anxiety response the way it used to. I’m trying to help others, whether they are veterans or local law enforcement or anybody in the first responder community who is exposed to traumas, understand that there’s help out there and that they can get better as well.


Undicisettembre: What do you think of conspiracy theories that claim that 9/11 was an inside job?

Samantha Horwitz: I have had many conspiracy theories thrown in my face pretty much starting a year or two after 9/11 and I can confirm 100% what happened to WTC7. There is no conspiracy, the government did not plant explosives in that building. I watched hours and hours of videos, I’ve talked to engineers and I was there. When Tower 1 came down it sheared off the entire front of WTC 7 doing severe damage to the building.

In addition to the US Secret Service having their New York office in there, there were other agencies inside WTC7 as well; that means we had everything inside that building to do our job: ammunition, evidence collected from the crime scenes, and that was multi agency, not just us. At Ground Zero there were firefighters trying to put the fire out in WTC7 and point blank one of them asked me “What is continuing to explode inside that building?” I told them there were a lot of ammunition.

Being a first responder I saw things and I know things these conspiracy theorists don’t know and did not see. And of course they didn’t experience the after effects, I coughed for an entire year after 9/11 and I had a cancer scare last year. This was real, this was not something the government created.

I am not saying agencies didn’t miss stuff, we absolutely did. I mean if anyone comes here, goes to a flying school and only learns how to fly but not how to take off or land that should throw up some serious red flags. How were phone calls not made? How did they just disappear into public life? Of course it’s not easy, people want to sit back and be the “Monday morning quarterback”, as we say here in the United States, we can’t prevent all the bad guys from striking and it hurts us. But the Secret Service and other agencies are doing everything that they can every single day to make sure that we are safe.


Undicisettembre: Do you think 9/11 could have been avoided if different agencies communicated better between each other?

Samantha Horwitz: I’d love to say “Yes”, but one thing we learned at that time was that terrorist groups are so patient and we were a little too busy and distracted, so we did not pay attention as much as we should have. I think agencies communicate a lot better now, sharing information to prevent attacks from happening. But I don’t know if 9/11 could have been prevented.

President Clinton also had Osama bin Laden in sight long before 9/11, but it’s easy to look at any situation after the fact. That’s what debriefing is about, when any law enforcement agency goes and does a big operation we always come back to the table and we say “What could we have done better? What should we have not done? How do we move forward and do a better job next time?” And that’s what we had to do after 9/11, we had to admit our faults and that we missed these guys.


Undicisettembre: What do you think of security today? Is the country safer than in 2001?

Samantha Horwitz: Absolutely. We put in place security at the airports because there wasn’t any before, we now have the TSA – love them or hate them – and agencies are talking more with each other and exchanging information. Because our systems have become more sophisticated; there are technologies that are used to assist agencies and identifying new targets and if necessary eliminating them before they can do harm to overseas assets or here at home.

I have done wiretaps before, it’s not like the government is going after your neighbor who’s talking to his wife about what to pick up at the grocery store. There are levels and there are laws that govern what can be recorded and listened to and what cannot, and we always shut down any personal thing like that and if a certain word is used to turn it back on. It’s a necessary part of keeping us safe and if it’s going to prevent another 9/11 I am all for it. I do think we are safer, absolutely.

World Trade Center: intervista all'ex agente dello US Secret Service Samantha Horwitz

di Hammer. L'originale in inglese è disponibile qui.

Offriamo oggi ai nostri lettori il racconto personale dell'ex agente dello US Secret Service Samantha Horwitz che l'11/9 intervenne a Ground Zero tra i primi soccorritori. Dopo l'11/9 Samantha Horwitz fu colpita da stress post traumatico e per raccontare la sua storia e come ne è uscita ha scritto un libro intitolato The Silent Fall.

Ringraziamo Samantha Horwitz per la sua cortesia e disponibilità.


Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l'11/9?

Samantha Horwitz: Stavo andando al lavoro, l'ufficio di New York dei servizi segreti si trovava nel World Trade Center 7, e mentre andavo al lavoro sono rimasta bloccata per via di un imprevisto che, al tempo non ci pensai, mise in moto eventi che cambiarono per sempre la mia vita. Quando arrivai nel mio ufficio e parcheggiai sotto alla Torre 1 del World Trade Center, che era il nostro parcheggio, sono entrata nell'ascensore per salire al livello della Plaza e mentre ero all'interno dell'ascensore pensai che ci fosse un malfunzionamento e che stavo per rimanere bloccata. Le luci tremarono e la vettura dell'ascensore vibrò, non sapevo che novantaquattro piani sopra il volo 11 dell'American Airlines aveva appena colpito la torre.

Siamo stati molto fortunati che le porte dell’ascensore si siano aperte. Ci imbattemmo in un campo di detriti che si era già formato nell'area della lobby. Uscii dall'ascensore, salii per una scala mobile e usai un’uscita che non avevo mai usato prima in tutto il tempo che avevo lavorato lì. Mi portò al livello della Plaza, dove mi dovetti fermare per quello che vidi: i detriti piovevano dal cielo. Pezzi di metallo, pezzi di cemento e pezzi di persone. Sapevo che era accaduto qualcosa di molto brutto, pensavo fosse stata una bomba di qualche tipo che era stata fatta esplodere e arrivai fino a di fronte all'edificio 7 e potei vedere nella hall.

Potei vedere alcuni dei miei compagni di squadra e il mio supervisore che mi faceva segno di allontanarmi. Nel punto in cui mi fermai ero protetta dai detriti e dovetti correre attraverso un ponte pedonale che arrivava alla Plaza del World Trade Center, attraversai Vesey Street e arrivai nel mio edificio. Quindi iniziai a correre ed entrai nell’edificio. Pensavamo tutti che la polvere si sarebbe depositata e avremmo indagato su ciò che era appena accaduto. Poco dopo, la Torre 2 fu colpita e vedemmo il vetro del nostro edificio piegarsi verso l'interno e andare quasi in frantumi. Siamo stati fortunati che abbia tenuto, poi ci guardammo, non dovemmo dire una parola. Tutti stavamo pensando la stessa cosa “Siamo il terzo edificio più alto del complesso del World Trade Center e siamo i prossimi.”

Oltre all'ufficio di New York dei servizi segreti nel World Trade Center 7 c’erano l'ufficio di gestione delle emergenze del sindaco Giuliani e altre agenzie di cui il pubblico non era a conoscenza. Decidemmo di evacuare il palazzo, arrivammo alla West Side Highway, da dove vedemmo per la prima volta ciò che era accaduto. Mentre eravamo sulla West Side Highway e guardavamo la Torre 1 e si vedeva un enorme buco e la Torre 2 dietro di essa. Ne usciva una fitta scia di fumo nero. Non sapevamo in quel momento che aerei di linea si fossero schiantati nelle torri.

Rimanemmo lì a valutare la situazione come farebbe qualsiasi buon investigatore della scena del crimine, a capire che tipo di esplosione fosse. La nostra concentrazione fu interrotta da un altro agente che arrivò in macchina, frenò di colpo con il suo veicolo governativo attirando la nostra attenzione e ci chiese se avessimo visto gli aerei. Non comprendevamo e dicevamo "Di cosa stai parlando? Gli aerei non volano contro gli edifici più alti di New York City. Li avremmo visti, sono enormi”.

Insisteva che fossero aerei e poi sentimmo dalla sua radio che il Pentagono era stato colpito. Quindi pensammo “Ok, siamo in guerra. C'è qualcosa che va drammaticamente male qui." e noi come primi soccorritori pensammo immediatamente "Beh, se siamo in guerra, dov'è il nemico?" Eravamo armati e non c'era nessuno a cui sparare e nella nostra mente stavamo cercando di capire.

Aerei di linea passeggeri si erano appena schiantati contro la Torre 1 e la Torre 2 e contro il Pentagono, che cosa sarebbe successo dopo? Guardavamo questa scena orribile, non c'è davvero altra parola per descriverla. Poco dopo, vedemmo le persone iniziare a saltare giù dalla Torre 1 e dopo la decima smisi di contarle, potevamo sentirle quando colpivano il suolo. Eravamo tanto vicini che potevamo sentire l'onda d'urto.

Vedevamo il fumo e il fuoco continuare a uscire. Come puoi immaginare c'erano molti suoni diversi per via di ciò che stava succedendo e c'era questo suono particolare che spiccava, era come un orso grizzly che emetteva un ringhio molto profondo; divenne sempre più forte e poi all'improvviso la Torre 2 crollò. Corremmo via ed entrammo nell'edificio più vicino che avesse una porta aperta ed era una scuola. Penso fossimo in trenta, ovviamente attirammo l'attenzione della segreteria e arrivò il preside.

Lo informammo di ciò che stava accadendo e decidemmo che saremmo tornati indietro e saremmo andati dove la torre era crollata perché dovevano esserci persone da salvare. Questo è ciò che facciamo come primi soccorritori. Rispondere alle emergenze quotidiane non era necessariamente parte della missione dei servizi segreti, ma eravamo addestrati a farlo; siamo altamente qualificati nel primo soccorso. C'era però un grosso problema: quella polvere. Non potevamo stare all’aperto senza avere la bocca e il naso coperti. Un gruppo di ragazzi iniziò a strappare le magliette in modo che potessimo improvvisare delle bandane attorno ai nostri volti. Io e altri due agenti decidemmo di rimanere nella scuola per organizzare lo smistamento in modo da poter ricevere le vittime che arrivavano da noi, avremmo potuto indirizzarle e poi coordinare le ambulanze in modo che li portassero negli ospedali.

Non successe niente di tutto ciò perché circa trenta minuti dopo la scuola ricevette l'ordine di evacuare. Eravamo a circa tre isolati da quello che sarebbe stato chiamato Ground Zero entro la fine della giornata. Io stessa, i due agenti che erano con me, il preside e uno studente alto circa un metro e ottanta e il suo assistente fummo gli ultimi a uscire da quella scuola e quello che non sapevamo era che la scuola era formata da una grande popolazione di ragazzi con disabilità fisiche e mentali. Quindi abbiamo condotto un'evacuazione con deambulatori, sedie a rotelle, stampelle.

Stavamo tornando indietro verso la West Side Highway e lo studente era visibilmente scosso. Non aveva idea di chi fossimo e camminava troppo lentamente per un'evacuazione di emergenza, lo incoraggiammo a camminare più velocemente. Mentre percorrevamo la West Side Highway, sentimmo di nuovo quel basso rumore e quel ringhio e i due agenti e io ci guardammo e ci dicemmo "Dobbiamo correre ora!" Presi una delle gambe dello studente, l'altro agente prese un'altra gamba e il terzo agente lo prese sotto le scapole. Cominciammo a correre sulla West Side Highway. Avevamo una missione: superare in velocità quella nuvola di polvere proveniente dal crollo del World Trade Center 1 che veniva verso di noi. Lo abbiamo fatto, ci siamo voltati e abbiamo visto la polvere depositarsi.

Era come guardare una scena di un film horror: la gente usciva da questa nuvola di polvere completamente coperta, alcuni avevano sangue proveniente da diverse parti del corpo. Continuammo a camminare lungo la West Side Highway, ci voltammo ed apparve un'ambulanza. I paramedici tirarono fuori una barella, caricammo lo studente sulla barella e lui e il suo assistemte andarono in ospedale. La scena in cui trasportavamo lo studente fu riportata dalla rivista People. Non lo scoprii fino a quando qualcuno non me lo disse al telefono settimane dopo.

Ancora una volta ci chiedemmo “Cosa succederà dopo? E adesso cosa facciamo?” I nostri cercapersone cominciarono a suonare e ricevemmo un messaggio che ci diceva di andare al Pier 63, che è uno dei moli sul fiume Hudson. Quando arrivammo lì, i nostri supervisori avevano concordato con la polizia del parco di usare i loro battelli, per portarci da dove eravamo sul fiume Hudson al New Jersey, dove gli agenti dell'ufficio del New Jersey stavano già aspettando per portarci a casa perché avevamo perso tutti i nostri mezzi di trasporto. Tutti i veicoli del governo erano stati distrutti.

Non dimenticherò mai mentre mi allontanavo dal molo. Stavo guardando uno skyline che era cambiato per sempre, le due torri iconiche e ciò a cui tutti pensavano quando pensavano a New York City erano sparite, e al loro posto c'era solo un denso fumo nero. Per me iniziò un nuovo viaggio, chiamato affrontare lo stress post-traumatico.

I sintomi iniziarono appena tornai nel mio appartamento dove scopriie che non potevo rimanere in uno spazio chiuso perché mi avrebbe causato un attacco d'ansia, il mio cuore avrebbe iniziato a correre e avrei iniziato a sudare. Se fossi uscita all’aperto i sintomi sarebbero spariti. Gli incubi, l'ipervigilanza e il senso di colpa dei sopravvissuti alla fine mi portano a dovermi affidare all'alcol per riuscire a dormire la notte. Un giorno mi sono puntata una pistola alla testa, è arrivato a questo punto. Non è stato un momento divertente e non solo per me, so che anche altri agenti ne hanno sofferto.

Presto ci siamo resi conto, ed è quello che è successo a me, del gioco mentale che lo stress post traumatico creò in tutti noi. Ricordo di essermi seduta alla mia scrivania a leggere per l’ennesima volta lo stesso paragrafo di un rapporto che dovevo consegnare e pensai di star perdendo la testa. A quel tempo avevamo creato un ufficio temporaneo in alcuni spazi per uffici che avevamo trovato, perché il nostro edificio fu l'ultimo a crollare l'11 settembre e non avevamo nessun posto dove lavorare. Sapevo di non essere in grado di funzionare al 100%, quindi dissi ai miei supervisori "Non posso più andare avanti." e non sapevano come aiutarmi. Abbiamo fatto un debriefing con il personale del nostro quartier generale di Washington, ma a parte questo, nonostante lo avessimo chiesto, non ce ne fu, quindi presi la decisione molto difficile di dimettermi da agente. Non potevo prendermi delle responsabilità perché un agente che non funziona al 100% significa sostanzialmente che qualcuno potrebbe non andare a casa quella sera e non potevo averlo sulla mia coscienza.


Undicisettembre: Che cosa hai fatto nei giorni successivi all'11 settembre?

Samantha Horwitz: Abbiamo avuto alcuni giorni liberi, le uniche regole di base erano che dovevamo farci sentire dai nostri supervisori ogni giorno, una volta al giorno se non due, per far loro sapere che stavamo bene, perché alcuni agenti erano dispersi e altri erano morti. Ricevemmo l'ordine di presentarci all'aeroporto JFK per un debriefing che ebbe luogo tre giorni dopo ed è stato allora che il personale del quartier generale seppe dove eravamo e cosa avevamo visto.

Sapendo che eravamo stati esposti a quella polvere, ci fu ordinato di fare radiografie al torace, ma a quel tempo non si vedeva nulla. La mia famiglia era nel Maryland, io vivevo nel New Jersey e andavo in città da pendolare, e tornai nel in Maryland solo per andare via dalla città.


Undicisettembre: Che ruolo hai avuto nelle seguenti indagini e quali sono state le tue scoperte principali?

Samantha Horwitz: Il Secret Service fu incaricato di rintracciare i soldi utilizzati per l'11/9: quali banche erano coinvolte, all’estero e sul territorio nazionale, come i soldi erano stati scambiati tra i terroristi, come sono arrivati negli Stati Uniti. Ora conosciamo il resto della storia con Khalid Sheikh Mohammed e Osama bin Laden ed è stato molto gratificante essere d’aiuto. Facevamo parte della Joint Terrorism Task Force e abbiamo messo insieme i pezzi del puzzle. Siamo stati in grado di farlo e di riferire i nostri risultati collaborando con altre agenzie. Abbiamo individuato il capobanda che alla fine era lo stesso dell’attentato del 1993, ciò che è riuscito a fare l'11 settembre era quello che voleva fare nel 1993.


Undicisettembre: L'11 settembre come influisce sul lavoro quotidiano del Secret Service anche oggi?

Samantha Horwitz: Il più grande cambiamento che abbiamo visto dopo l'11 settembre fu quando il presidente Bush decise di creare il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, nessuno di noi pensava che saremmo stati assorbiti da quell'agenzia perché avevamo ruoli e competenze chiaramente definiti che l'altra agenzia non aveva, e quando accadde tutto cambiò. Avevo già dato le dimissioni insieme ad altri otto agenti, quindi non ho attraversato quel cambiamento nel comando.

Esaminiamo ogni caso di frode e vediamo se possiamo legarlo a un'organizzazione terroristica, non solo noi ma anche altre agenzie federali. L'indagine ha rivelato che i terroristi avevano le mani in molti affari diversi. Quindi una frode che veniva perpetrata dall’altra parte del mondo poteva finire per mettere soldi nelle loro banche e contribuire a finanziare attacchi terroristici. Come forze dell'ordine federali, abbiamo fermato numerosi attacchi sia qui sia all'estero. Man mano che la tecnologia si evolve e quando le attività bancarie diventano più sofisticate, i terroristi diventano più sofisticati. È nostro compito livellare il campo.


Undicisettembre: In che modo l'11 settembre influisce sulla tua vita quotidiana?

La copertina di The Silent Fall,
il libro di Samantha Horwitz
sulla sua esperienza dell'11/9.
Samantha Horwitz: Mi considero uno dei più fortunati, nonostante il mio disappunto e la mia lotta dopo l'11 settembre ho ricevuto aiuto ed è stato molto efficace. È una terapia chiamata EMDR, Eye Movement Desensitization Reprocessing [ritrattamento della desensibilizzazione del movimento degli occhi, N.d.R.], e ciò che ha fatto è stato riportarmi indietro e aiutarmi a creare nuove sinapsi neurali, nuove connessioni cerebrali per cui se avessi sentito un forte botto o un aereo che volava basso non sarei entrata in modalità "scappa o combatti" e non sarei scattata. Ciò mi ha permesso di vivere di nuovo una vita normale, perché prima che se fossi stata in mezzo alla gente e fosse scoppiato un temporale, mi sarei nascosta sotto i mobili, quindi non volevo essere in mezzo alla gente per timore che potesse accadere. Questa terapia mi ha salvato la vita.

Ogni tanto scatto, ma non ci sono flashback e non mi faccio prendere dall'ansia come una volta. Cerco di aiutare gli altri, siano essi veterani o forze dell'ordine locali o chiunque sia in prima linea tra i soccorritori esposti a traumi, a capire che c'è aiuto là fuori e che la situazione può migliorare.


Undicisettembre: Cosa pensi delle teorie del complotto secondo cui l'11 settembre fu un inside job?

Samantha Horwitz: Spesso le teorie del complotto mi sono state buttate in faccia a partire da uno o due anni dopo l'11 settembre e posso confermare al 100% ciò che è successo al WTC7. Non c'è nessun complotto, il governo non ha piazzato esplosivi in quell'edificio. Ho guardato ore e ore di video, ho parlato con ingegneri ed ero lì. Quando la Torre 1 è crollata, ha distrutto il lato frontale del WTC7 causando gravi danni all'edificio.

Oltre alla sede di New York del Secret Service, c'erano anche altre agenzie all'interno del WTC7; questo significa che tutto ciò che ci serviva per il nostro lavoro era dentro quell'edificio: munizioni, prove raccolte dalle scene del crimine, e c’era anche il materiale di altre agenzie, non solo noi. A Ground Zero c'erano dei vigili del fuoco che cercavano di spegnere l'incendio nel WTC7 e uno di loro all’improvviso mi chiese "Che cosa continua a esplodere all'interno di quell'edificio?" Dissi loro che c'erano molte munizioni.

Essendo un primo soccorritore, ho visto cose e so cose che questi teorici della cospirazione non sanno e non hanno visto. E ovviamente non hanno avuto effetti collaterali, io ho tossito per un anno intero dopo l'11 settembre e l'anno scorso ho temuto di avere un cancro. È stato vero, non era qualcosa che il governo ha ideato.

Non sto dicendo che alle agenzie non sia sfuggito qualcosa, è successo sicuramente. Voglio dire se qualcuno viene qui, va a una scuola di volo e impara solo a volare, ma non a decollare o atterrare, questo dovrebbe far scattare degli allarmi. Come mai nessuno ha fatto una telefonata? Come si sono mescolati nella società? Ovviamente non è facile, la gente vorrebbe fare il "quarterback del lunedì mattina" [chi dà giudizi sugli errori commessi quando ormai è troppo tardi, N.d.R.], come diciamo qui negli Stati Uniti, non possiamo impedire a tutti i cattivi di colpire e questo fa male. Ma i servizi segreti e altre agenzie stanno facendo tutto il possibile ogni giorno per assicurarci di vivere al sicuro.


Undicisettembre: Pensi che l'11 settembre avrebbe potuto essere evitato se le varie agenzie avessero comunicato meglio tra loro?

Samantha Horwitz: Vorrei dire "Sì", ma una cosa che abbiamo imparato in quel momento era che i gruppi terroristici sono molto pazienti e noi eravamo un po' troppo occupati e distratti, quindi non abbiamo prestato attenzione quanto avremmo dovuto. Penso che le agenzie comunichino molto meglio ora, condividendo informazioni per prevenire gli attacchi. Ma non so se l'11 settembre avrebbe potuto essere prevenuto.

Anche il presidente Clinton aveva come obiettivo Osama bin Laden molto prima dell'11 settembre, ma è facile giudicare a posteriori. Questo è ciò che si fa nei debriefing, quando qualsiasi agenzia di polizia fa una grande operazione, ci sediamo a un tavolo per chiederci “Cosa avremmo potuto fare di meglio? Cosa non avremmo dovuto fare? Come possiamo andare avanti e fare un lavoro migliore la prossima volta? ”Ed è quello che abbiamo fatto dopo l'11 settembre, abbiamo dovuto ammettere i nostri errori e che questi uomini ci sono sfuggiti.


Undicisettembre: Cosa ne pensi della sicurezza oggi? Il paese è più sicuro rispetto al 2001?

Samantha Horwitz: Assolutamente. Abbiamo attivato la sicurezza negli aeroporti perché non ce n'era prima, ora abbiamo la TSA, sia che li si ami sia che li si odi, e le agenzie comunicano di più tra loro e si scambiano informazioni. Perché i nostri sistemi sono diventati più sofisticati; ci sono tecnologie che vengono utilizzate per assistere le agenzie e identificare nuovi obiettivi e, se necessario, eliminarli prima che possano arrecare danno a beni all'estero o qui a casa.

Ho fatto intercettazioni telefoniche in passato, non è come se il governo inseguisse il tuo vicino che sta parlando con sua moglie su cosa comprare al supermercato. Ci sono livelli e ci sono leggi che regolano ciò che può essere registrato e ascoltato e ciò che non può, e chiudiamo sempre qualsiasi comunicazione personale come quella e se una determinata parola viene utilizzata la si riaccende. È una cosa necessaria a tenerci al sicuro e se può impedire un altro 11/9, sono assolutamente favorevole. Penso che siamo più sicuri, assolutamente.

2019/10/14

9 settembre 2001: l'attentato che uccise il leader dell'Alleanza del Nord Ahmad Shah Massoud

di Hammer

Il 9 settembre del 2001, solo due giorni prima degli attentati dell'11/9, il leader dell'Alleanza del Nord Ahmad Shah Massoud fu ucciso in un attentato terroristico nel villaggio afghano di Khvajeh Baha od Din, vicino al confine con il Tajikistan. I perpetratori dell'attentato furono i tunisini Dahmane Abd al-Sattar e Bouraoui el-Ouaer, i quali entrarono in Afghanistan tre settimane prima spacciandosi per giornalisti belgi di origine marocchina intenzionati a intervistare Massoud per il canale Arabic News International, che nella realtà non è mai esistito. I due terroristi riuscirono a entrare nello stato asiatico grazie a passaporti rubati e alterati che recavano i nomi fittizi di Karim Touzani e Kacem Bakkali. Durante il periodo che trascorsero in Afghanistan come falsi giornalisti intervistarono anche l'ex presidente Burhanuddin Rabbani e il miliziano dell'Alleanza del Nord Abd al-Rasul Sayyaf.


Gli attentatori ottennero il permesso per l'intervista a Massoud solo l'8 settembre per il giorno dopo e lo incontrarono in una casa di Khvajeh Baha od Din. L'intervista si svolse alla presenza del giornalista Mohammad Fahim Dashty, dell'ambasciatore afghano in India Massoud Khalili e del miliziano dell'Alleanza del Nord Mohammed Asim Suhail. Dasthy aveva incontrato gli attentatori anche nei giorni precedenti e in seguito riferì che i due si erano comportato in modo normale e gentile e non avevano destato nessun sospetto.

Mohammad Fahim Dashty raccontò nel documentario olandese Who Killed Massoud, che mostra anche gli interni del luogo dell'attentato, che poco dopo l'inizio dell'intervista il finto cameraman Bouraoui el-Ouaer fece esplodere degli ordigni che erano nascosti nella videocamera e nella cintura con cui portava la batteria di riserva.

L'esplosione uccise Mohammed Asim Suhail, mentre Mohammad Fahim Dashty e Massoud Khalili rimasero feriti, in particolare quest'ultimo rimase cieco da un occhio e sordo da un orecchio. Anche l'attentatore Bouraoui el-Ouaer, che teneva in mano gli ordigni al momento dell'esplosione, rimase ucciso nell'attentato; mentre il secondo attentatore fu catturato da alcune guardie di Massoud, richiamate sulla scena dal rumore dell'esplosione, e rinchiuso in una stanza accanto. Al-Sattar tentò quindi la fuga da una finestra ma poco dopo essersi allontanato fu ucciso dalle guardie con colpi di arma da fuoco.

L'esplosione non uccise sul colpo Massoud, ma lo ferì gravemente. Due delle guardie presero il leader ferito e lo caricarono su un'auto, guidata da Dashty, che lo portò a un eliporto, dove fu spostato su un elicottero che avrebbe dovuto portarlo a un ospedale di Farkor, in Tajikistan, ma Massoud morì durante il volo. L'Alleanza del Nord sulle prime non comunicò alla stampa la morte del proprio leader, infatti un articolo del New York Times del 10 settembre 2001 riporta che Ahmad Shah Massoud era stato ferito in un esplosione.

In un'intervista rilasciata al network tedesco multilingue Deutsche Welle Massoud Khalili disse di essere stato sicuro fin dal primo momento che il mandante dell'attentato fosse Osama bin Laden e le indagini successive confermarono la prima ipotesi del diplomatico.

Gli inquirenti riscontrarono infatti che la telecamera usata dai due finti giornalisti era stata rubata a un reporter francese a Grenoble a dicembre del 2000 e che i documenti che i terroristi usarono per entrare in Afghanistan furono rubati e modificati in Belgio da cellule jihadiste legate ad al-Qaeda. Inoltre un cablogramma della CIA reso pubblico in seguito a una richiesta FOIA (Freedom of Information Act) nel 2003 confermò che i due attentatori erano miliziani di al-Qaeda e nello stesso anno la CNN riportò che sulla rivista online Voice of Jihad al-Qaeda aveva rivendicato l'uccisione di Massoud. I legami tra i due terroristi e al-Qaeda sono riscontrabili anche a livello personale, in quanto Dahmane Abd al-Sattar era il marito dell'attivista marocchina Malika El Aroud che ammise in un'intervista alla CNN la propria devozione verso Osama bin Laden.

Ovviamente il fatto che al-Qaeda abbia voluto eliminare uno dei capi dell'Alleanza del Nord due giorni prima dell'11/9 non è casuale. Commissionando l'assassino di uno dei più strenui oppositori dei Talebani, Osama bin Laden si assicurò la protezione del regime per i mesi successivi nei quali la reazione militare americana si sarebbe abbattuta sull'Afghanistan. Inoltre privando l'Alleanza del Nord della guida di Massoud indebolì i possibili alleati delle forze statunitensi.

Secondo quanto riportato dal giornalista Steve Coll nel libro Ghost Wars del 2005, che vinse anche un premio Pulitzer, la CIA teneva Massoud in grande considerazione per le sue doti di leadership e per le sue capacità militari. Ahmad Shah Massoud è sepolto a Bazarak, sua città natale nella provincia afghana del Panjshir, e a Kabul gli è stata intitolata la strada in cui si trova l'ambasciata degli Stati Uniti.

2019/09/15

La Casa Bianca conferma: Hamza bin Laden è stato ucciso

di Hammer

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha confermato con un messaggio pubblicato sul sito internet della Casa Bianca che Hamza bin Laden, figlio di Osama bin Laden, è stato ucciso in un'operazione condotta dalle forze USA al confine tra Afghanistan e Pakistan. La notizia era apparsa su varie testate a fine luglio, ma fino ad ora il presidente Trump si era astenuto dal commentare. La nota aggiunge che non solo al-Qaeda perde un importante leader e un simbolo, ma che il decesso del terrorista mina anche le capacità di azione della stessa organizzazione per via del legami stretti da Hamza bin Laden con altri gruppi terroristici.


Una conferma importante era già arrivata ad agosto, quando il segretario della difesa degli Stati Uniti Mark Esper aveva confermato in un'intervista a Fox News, senza aggiungere altri dettagli, che Hamza bin Laden era stato ucciso da forze americane.

Non è ancora noto come l'attacco sia stato condotto né quando sia avvenuto. La famiglia bin Laden ha comunicato alla BBC che Hamza era rimato ucciso in un bombardamento e secondo il New York Times questo sarebbe avvenuto durante l'amministrazione Trump, ma non ci sono ancora conferme ufficiali né informazioni più precise.

2019/09/10

World Trade Center: an interview with U.S. Marshal Dominic Guadagnoli

by Hammer. An Italian translation is available here.

On the eighteenth anniversary of the attacks of September 11, 2001, Undicisettembre offers its readers the account of U.S. Marshal Dominic Guadagnoli, who rushed to the World Trade Center after the two plane crashes and experienced the collapses of the two towers at close range.

We wish to thank Dominic Guadagnoli for his kindness and willingness to share his experience.


Undicisettembre: Can you give us a full account of what you saw and experience on 9/11?

Dominic Guadagnoli: At that time I worked for the Warrant Squad of the SDNY Marshals Office located on the third floor of the new US Courthouse, 500 Pearl Street, about five blocks away from the Twin Towers. My colleague John Svinos and I were planning an operation to arrest someone later that night that was wanted by the ATF. We were sitting at our desks and when the first tower was attacked, the explosion actually shook our building and we thought either our building or one of the other prominent city or federal buildings close by had been the target of a bomb. Within about a city two block radius you have two US Courthouses, the US attorney’s office, NYPD headquarters, federal prison (the Metropolitan Correctional Center), the New York State supreme court, the mayor’s office, 26 Federal Plaza – which was the office of many federal agencies including the FBI - NYC municipal building, NYC courthouse.

Within less than a minute you could see all the paper and debris floating to the ground between our buildings. However, as close as we were, from the angle of the courthouse we could not see the Trade Center or the towers. John and I immediately ran outside to see what happened. While we were out there people were telling us that a plane had just struck the Twin Towers. We couldn’t believe it so we ran over to see what was happening and that’s when the second plane was flown into the second tower. At that point, we realized that the city was under attack, most likely by terrorists. We ran back to our office to see what the plan of action was. At that time there was none. So we decided on our own to go start helping people out of the buildings. On our way out we ran into another US Marshal, Bill Schuchact, who wanted to go with us and we took him along.

We started at the doors of WTC 7 and down the tunnel to the lobby. I went down the escalators and came back up. There’s a tunnel, a mall down there which is a long walkway, it is huge. We were helping people out and telling them to go north or east. As you saw people it was like all the people had asthma, and they had a hard time and needed oxygen. I remember a young pregnant lady, someone was trying to help her walk. And so I helped get her across to the triage area and in your mind, once you got them there you are like “they are okay” and I turned around go back to help more people.

The first wave of people had jackets, purses, and were trying to use their cellphones; they were upset and concerned. The next wave were a little more haggard. They were more confused. But still not panicking. Some people couldn’t handle it, they were visibly shaken. The third wave had torn clothes, cuts and scratches, definitely more wet from the sprinklers, more tired. At first I thought it was sweat. That’s what it looked like and for some people it might have been, it was a hot day in the building, no AC. I realized what it was when I saw the last wave of people because of how wet they were. They just had to be wet from the sprinklers. They weren’t “jump in the pool soaked”, but they were pretty wet. Anyway, the final wave of people looked like they were in a battle; they were bleeding profusely, bad cuts, gashes, head wounds and some needed to be carried on some kind of makeshift stretcher.

I later learned that in the meantime, an employee of the Aon Corporation named Donna Spera and her coworkers from the 101st floor waited for an express elevator on the 78th floor, along with several hundred other people, so that they could get out of their building as quickly as possible. It was then that the second plane crashed directly into the 78th floor sky lobby. With the exception of Donna and only eleven other people, everyone in that sky lobby was killed. Every single coworker that Donna was standing with had died instantly. As fire and smoke consumed the floor where she stood, she crawled past dead coworkers and over shards of glass in search of the only remaining exit on that floor. Despite the fact that she was burned and bleeding, Donna climbed down 78 flights of stairs with the help of a coworker. When she reached the base of the building, she collapsed into my arms and I carried her to a triage that was set up across the street from the burning buildings. She wasn’t wet at all. Maybe the sprinklers didn’t work up there.

Though I tried to shield her from people snapping photos, an Associated Press photographer managed to capture a shot that would tie us together in history [picture below]. After putting Donna in the back of an ambulance, I returned to help people out of the Trade Center. Shortly after that, the first tower began to collapse and I just started running. Everyone scattered in different directions. I saw there was an overhang between buildings 5 and 7 so I was going to hide under there, and with the corner of my eye I saw John running a different way.


I fell on my hands and knees for a second and that’s when I cut my hands because I saw the blood, but I did like a “tuck and roll” onto my right side and I got up and continued running again. This is when I saw a subway stairwell across from the post office. There were two cars parked in front and I saw I had just enough room to get between those two cars. And that’s when the black cloud caught up to me and things just went dark. Just as I got to the top of the subway stairs, there was a female NYPD officer who was wearing a helmet. And we literally went shoulder to shoulder we dove down the stairs and it went totally black.

As that cloudless sunny day turned shockingly black as night, I feared that I was going to be crushed and buried alive. For a moment I thought it was the end of the world, I almost expected to see Jesus come out of the clouds.

When I came out of the subway, I was disoriented and I saw the LED display on the post office and it said “Yankees/Twins PPD”, meaning “postponed”. And that’s how I realized where I was.

So I was helping people and this young black guy came up to me and he had a mask on his face and he said “We need to get you some help.” And I said “What are you talking about?” I saw a guy with silver badge around his neck, Port Authority or NYPD, he had a flannel shirt on and his wrist and his bone was sticking out and another guy in uniform was helping him. So the black guy said “We need to get you some help.” and I didn’t realize that I had blood on my arms and on my hand, but I think the blood on my arm was from Donna. He took me into Saint Peter’s church and they had everyone in the back, like behind the altar in the room back there rinsing off. I took my jacket and shirt off and I took my gun off. And he was like “Whoa.” And I said “Just so you know, I’m a cop.” Someone came in and said “It’s not safe in here, we gotta get out of here. Everyone’s got to leave.” So they gave me a rag. I got my stuff back on and as I started walking out the same cop with the bone exposed was coming in.

So I started heading back toward the building and I walked up to a patrol officer and a sergeant and they said “You gotta go back.” I said “I’m looking for my partner.” And just then we heard that rumble again, that same noise.

So we all started running and I headed toward that church again and just as I hooked to the right, a police car was coming with the lights on and I started shouting “No, No, don’t go that way. Don’t go that way.” And he went past me. And when I looked back I saw that big cloud of dust coming down the street again. But this time, it blew right behind me.

I started running back to the office, and I was trying to think about how to get back. All I could think about was John and I thought I would take care of his family. I’d had them live with me, not sure how, but we’d take care of them. At that point I gave up and figured he was dead. I saw Bill after the first tower fell, so I knew he was okay.

So I started walking toward a Greek restaurant called Mt. Everest that John and I used to go to. They had no power and the door was half open and there was a uniform cop on a pay phone. I asked the people working there if they had seen John. They didn’t know who I was either and they said “Sorry we don’t know who you are talking about, we are closed, sorry.” I said “It’s me, Dominic, you know me and my partner John.” We went to lunch there all the time. For some reason I thought John might meet me at some place that we were comfortable, to rest, maybe get a drink. I don’t know. Then they recognized me and helped clean me up.

I finally got to the office and found out that John was there. When we finally saw each other we hugged and we cried. Bill showed up too and we hugged as well. We were then brought to a hospital outside of Manhattan because of the injuries we each sustained.

On the morning of Sept. 12, 2001, I learned of the photo of Donna and me. Because it was taken by an Associated Press photographer, it made its way into newspapers and magazines around the world. It was even published by Corriere della Sera on that day. About a month later, our families met at her home in New Jersey. We have since become very good friends and we both say our friendship is the one positive thing to have come out of that horrific day. I’m not sure why that picture got so much attention, maybe it’s because it shows man helping man.


Undicisettembre: What happened to you on the next days and months?

Dominic Guadagnoli: I can remember the days, weeks even months after 9/11 the brotherhood, solidarity and unity that was felt and shown to each other.

Many of us went out and bought flags. According to the St. Petersburg Times, on September 12, 2001, Walmart sold 116,000 flags as compared to only 6400 on that same day a year earlier. There were flags flown from every home and car. I remember seeing banners and bumper stickers professing love for our country everywhere. There were people in the streets of NYC holding signs that read “Thank you for what you did”, “Thank you heroes”. This went on for months and months. People were lined up to give blood, they volunteered and supplies arrived at ground zero almost instantaneously from across the country. Donations to charities skyrocketed. Reportedly, Americans donated close to two billion dollars.

It appeared as though barriers between people seemed to disappear. It didn’t matter if you were black or white, Spanish, Asian, or European in origin. You could have believed in Jesus, God, Buddha, Allah, or no one for that matter. The common dividers fell away in place of a common uniter. To me, it was obvious that together we shared in the hurt and we were never more proud to be Americans.

I saw signs of love, kindness, spirituality, and patriotism. One could see man helping man, and people were truly grateful for one another. People leaned on each other, hoping that they could somehow get through that moment, although at the time it seemed nearly impossible.


Undicisettembre: How does 9/11 affect the everyday work of the US Marshals even today?

Dominic Guadagnoli: I can’t say it affects it in a way like it does at the airports. Things like court security for the buildings were already pretty intense because of what happened in 1993 and because at that time there were eminent threats against several judges who presided over the hearings for 1993. The sheik Omar Abdel Rahman and his group had plotted to blow up the tunnels, the FBI headquarters, the US attorney’s office and the police headquarters. So because of that the Marshals already had the security enhanced.

Since then obviously with modern technology it had been enhanced more. I don’t think there’s any daily constant changes, but when it comes to protective services obviously they are more stringent regarding judges and any kind of intel that may in come in through any kind of agency like the Joint Terrorism Task Force or the FBI.

In our daily work I would say it’s something that affects us per se.


Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life?

Dominic Guadagnoli: I think I saw a thousand times the clocks showing 9:11. Yesterday morning I had a power outage and the time that was blinking was 9:11. It seems like every time I stop to look at the clock it says 9:11.

I still have issues sometimes with loud noises, I can be jumpy sometimes. One thing I notice is with the years that have gone on, each year when it gets close to the anniversary I seem to be a little bit more edgy, a little bit more short tempered. When the anniversary is close, a month before I start to feel more anxious, things annoy me more. People come up with this conspiracy theories and I would normally blow off them as “no big deal” but close to the anniversary it becomes more of an issue for me.

The day of the anniversary is a kind of a numb day, I’m numb, it’s an odd situation and the next days it goes away again. It never goes out of your mind, it’s on your mind 24/7; you are watching a TV program and you see the Twin Towers or jets flying and it reminds you of 9/11. There hasn’t been a day that has gone by that something doesn’t make you think about it. Some days it’s there prominently, some days it’s there a little bit, but it’s always there.


Undicisettembre: What do you think of conspiracy theories that claim that 9/11 was an inside job?

Dominic Guadagnoli: I think it’s garbage. I don’t know how people can put that together in their minds and think that. Even if I weren’t there I can’t understand how people can come up with that; I think it’s a political thing or for personal attention.

I remember on the tenth anniversary I was here in Florida, I was driving down the road and I saw someone nailed to a tree a sign with www.911truth.org. I stopped my car, I ripped it off and threw it in the woods. That’s what I think about it.


Undicisettembre: What do you think of security today? Is the nation safer than in 2001?

Dominic Guadagnoli: I think there are mechanisms that are in place that make us feel safer, so in some ways yes, we learned hopefully. But being in law enforcement I walk around and as people say “You are as strong as your weakest link”; sometimes we go through security check points, such as at a concert or to a stadium, and they don’t check me, or the check this person but not that person.

I recently went to a well known amusement park in Florida, where there are shops and different things, I parked my car in the garage and I walked right in and the security guy just watched people come in. No one checked me. But if you go to Magic Kingdom they do a thumbprint, you get checked and you walk through magnetometers. Even my son, he’s a 15 year old kid and they looked in his bag and said “Ok, go ahead.” I know they profile and maybe he’s not the correct profile, they weighed the bag and made sure he didn’t have guns, but nowadays they should check everybody: I don’t care if it’s a fourteen year old or a hundred year old person. If you are willing to have security you must have security. Security is either 100% or it is not; if it is not 100%, why bother and why are you bothering people at all?

If we have to be 100% secure then be 100% secure, we can’t be picky and choosy. I think you have seen what happens in America with schools now; they are soft target, and even churches and supermarkets are soft targets. You saw what happened in New Zealand and El Paso and many other places. I don’t know what’s the right answer.

World Trade Center: intervista allo U.S. Marshal Dominic Guadagnoli

di Hammer. L'originale inglese è disponibile qui.

In occasione del diciottesimo anniversario degli attentati dell'11 settembre 2001, Undicisettembre offre ai suoi lettori la testimonianza dello U.S. Marshal Dominic Guadagnoli, che intervenne al World Trade Center dopo lo schianto dei due aerei e che sopravvisse ai crolli di entrambe le torri.

Ringraziamo Dominic Guadagnoli per la sua cortesia e disponibilità.


Undicisettembre: Ci puoi fare un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l'11/9?

Dominic Guadagnoli: A quel tempo lavoravo per la Warrant Squad [quadra che si occupa di ricercare criminali colpevoli di crimini violenti N.d.T] dell’ufficio del Marshal per il distretto meridionale di New York, che si trova al terzo piano delle nuova corte federale, al numero 500 di Pearl Street, a circa cinque isolati dalle Twin Towers. Il mio collega John Svinos e io stavamo pianificando un'operazione per degli arresti più tardi quel giorno che era voluta dall'ATF. Eravamo seduti ai nostri tavoli e quando la prima torre fu attaccata, l'esplosione fece davvero tremare il nostro edificio e pensammo che il nostro o uno degli altri importanti edifici della città o quelli federali nelle vicinanze fossero stati colpiti da una bomba. Nel raggio di due isolati si trovano le corti federali, l'ufficio del procuratore degli Stati Uniti, il quartier generale dell’NYPD, la prigione federale (il Metropolitan Correctional Center), la corte suprema dello stato di New York, l'ufficio del sindaco, il 26 Federal Plaza, che era l'ufficio di molte agenzie federali tra cui l'FBI, il municipio di New York, il tribunale di New York.

In meno di un minuto vedemmo carta e detriti che fluttuano fino a terra tra i nostri edifici. Tuttavia, nonostante fossimo così vicini, dall'angolo del tribunale non potevamo vedere il Trade Center o le torri. John e io corremmo fuori per vedere cosa fosse successo. Mentre eravamo là fuori la gente ci diceva che un aereo aveva appena colpito le Torri Gemelle. Non potevamo crederci, così ci precipitammo a vedere cosa stesse succedendo e fu allora che il secondo aereo si schiantò contro la seconda torre. A quel punto, capimmo che la città era sotto attacco, molto probabilmente da parte di terroristi. Tornammo di corsa nel nostro ufficio per vedere quale fosse il piano d'azione. In quel momento non ce n'era uno. Quindi decidemmo da soli di iniziare ad aiutare le persone a uscire dagli edifici. Mentre uscivamo, incontrammo un altro US Marshal, Bill Schuchact, che voleva venire con noi e ci venne.

Iniziammo all'ingresso del WTC7 e al tunnel che conduce alla alla lobby. Scesi le scale mobili e tornai su. C'era un tunnel, un centro commerciale sotto la piazza che era enorme e che si attraversava a piedi. Aiutavamo le persone a uscire e indicavamo loro di andare verso nord o est. Vedendo le persone sembrava che avessero attacchi di asma, perché avevano difficoltà ed ebbero bisogno di ossigeno. Ricordo una giovane donna incinta, qualcuno la stava aiutando a camminare. La aiutai ad attraversare la strada e ad arrivare nell'area del primo soccorso e nella tua mente, una volta che li hai mandati via, pensi "sono al sicuro" e ti rigiri indietro.

La prima ondata di persone aveva giacche, borse, e stavano cercando di fare telefonate con i cellulari; erano agitati e preoccupati. Nella successiva ondata erano un po' più spaventati. Erano più confusi. Ma non ancora nel panico. Alcune persone non riuscivano a reggerlo, erano visibilmente scossi. La terza ondata aveva vestiti lacerati, tagli e graffi, erano molto più bagnati dai sistemi antincendio, più stanchi. All'inizio ho pensato che fosse sudore. Mi sembrava che fosse così e per alcune persone lo avrebbe potuto essere, era un giorno caldo nell'edificio, senza aria condizionata. Mi resi conto di cosa fosse quando vidi l'ultima ondata di persone e quanto fossero bagnati. Dovevano essere bagnati dal sistema antincendio. Non erano "bagnati come se si fossero tuffati in piscina", ma erano molto bagnati. Ad ogni modo, l'ultima ondata di persone sembravano usciti da una battaglia. Stavano sanguinando copiosamente, brutti tagli, lacerazioni, ferite alla testa e alcuni dovettero essere trasportati su barelle improvvisate.

In seguito appresi che nel frattempo un’impiegata della Aon Corporation di nome Donna Spera e i suoi colleghi del centounesimo piano aspettavano un ascensore espresso al 78° piano, insieme a diverse centinaia di persone, in modo che potessero uscire dall'edificio il più rapidamente possibile. Fu allora che il secondo aereo si schiantò direttamente nella sky lobby del 78° piano. Tranne Donna e altre undici persone, tutti quelli che si trovavano in quella lobby rimasero uccisi. Ogni singolo collaboratore con cui si trovava Donna era morto all'istante. Mentre il fuoco e il fumo consumavano il pavimento su cui si trovava, strisciava davanti a colleghi morti e su schegge di vetro alla ricerca dell'unica uscita rimasta su quel piano. Nonostante il fatto che fosse ustionata e sanguinante, Donna scese 78 rampe di scale con l'aiuto di un collega. Quando raggiunse il piano terra, crollò tra le mie braccia e la portai in una zona per lo smistamento dei feriti che si trovava dall'altra parte della strada rispetto agli edifici in fiamme. Non era per nulla bagnata. Forse il sistema antincendio non funziona a quell'altezza.

Anche se cercai di proteggerla da chi stava scattando delle foto, un fotografo dell’Associated Press riuscì a catturare uno scatto che ci legò insieme nella storia [foto sotto, N.d.T]. Dopo aver messo Donna su un'ambulanza, tornai ad aiutare le persone a uscire dal Trade Center. Poco dopo, la prima torre iniziò a crollare e io iniziai a correre. Corremmo tutti in direzioni diverse. Vidi una pensilina tra gli edifici 5 e 7, stavo per nascondermi lì sotto, e con la coda dell'occhio vidi John correre in una direzione diversa.


Caddi sulle mani e sulle ginocchia per un secondo e mi tagliai le mani e vidi del sangue, feci una capriola verso destra, mi rialzai e ricominciai a correre. Fu allora che vidi le scale della metropolitana dall'altra parte della strada rispetto all'ufficio postale. C'erano due macchine parcheggiate davanti e vidi che avevo abbastanza spazio per infilarmici in mezzo. E quello fu il momento in cui la nuvola nera mi raggiunse e tutto divenne buio. Appena arrivai alle scale della metropolitana, c'era un ufficiale donna della polizia di New York che indossava un casco. Andammo spalla a spalla e ci lanciammo giù dalle scale e tutto divenne completamente nero.

Mentre quella giornata di sole senza nuvole diventava incredibilmente nera come la notte, temevo di rimanere schiacciato e sepolto vivo. Per un attimo pensai che fosse la fine del mondo, quasi mi aspettavo di vedere Gesù uscire dalle nuvole.

Quando uscii dalla metropolitana, ero disorientato e ho visto il display a LED sull'ufficio postale che diceva "Yankees / Twins PPD", che significa che la partita era stata rinviata. E fu così che capii dov'ero.

Quindi stavo aiutando le persone e un giovane uomo di colore si avvicinò a me con una maschera sul viso e mi disse "Hai bisogno di aiuto." E gli dissi "Ma che dici?" Vidi un ragazzo con un distintivo d'argento al collo, Port Authority o NYPD, con una camicia di flanella e gli usciva l’osso del polso e un altro in uniforme lo stava aiutando. Quindi l’uomo di colore mi disse "Hai bisogno di aiuto." E non mi resi conto che avevo sangue sulle braccia e sulla mano, ma penso che il sangue sul mio braccio fosse di Donna. Mi portò nella chiesa di Saint Peter e avevano portato tutti nella parte posteriore, dietro l'altare e in una stanza per sciacquarsi. Mi tolsi la giacca e la camicia e mi tolsi la pistola. Lui disse "Whoa." E io dissi "Solo perché tu lo sappia, sono delle forze dell’ordine." Qualcuno entrò e disse “Non è sicuro qui, dobbiamo uscire. Tutti devono uscire.” Quindi mi diedero una benda. Recuperai la mia roba e quando stavo uscendo lo stesso poliziotto con l'osso esposto stava arrivando.

Così iniziai a dirigermi verso l'edificio e mi avvicinai a un ufficiale di pattuglia e a un sergente che mi dissero "Devi tornare indietro". Dissi "Sto cercando il mio compagno". E proprio in quel momento sentimmo di nuovo il rombo, quello stesso rumore.

Così iniziammo a correre e io mi diressi di nuovo verso quella chiesa e, mentre giravo a destra, una macchina della polizia stava arrivando con le luci accese e io iniziai a gridare "No, no, non andare in quella direzione. Non andare in quella direzione." E mi superò. E quando guardai indietro, vidi di nuovo quella grande nuvola di polvere che veniva giù per la strada. Ma questa volta, mi passò proprio dietro.

Ricominciai a correre verso l’ufficio, stavo cercando di pensare a come tornare. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare era John e pensavo che mi sarei preso cura della sua famiglia. Li avrei fatti vivere con me, non so come, ma ci saremmo presi cura di loro. A quel punto mi ero arreso e pensavo che fosse morto. Avevo visto Bill dopo il crollo della prima torre, quindi sapevo che stava bene.

Così iniziai a camminare verso un ristorante greco chiamato Mt. Everest a cui io e John andavamo regolarmente. Non avevano corrente elettrica, la porta era semiaperta e c'era un poliziotto che stava usando un telefono a pagamento. Chiesi alle persone che ci lavoravano se avessero visto John. Non mi riconobbero e dissero "Scusa non sappiamo di chi stai parlando, siamo chiusi, mi dispiace". Dissi "Sono io, Dominic, tu conosci sia me sia il mio compagno John." Andavamo spesso lì a pranzo. Per qualche motivo pensavo che John potesse aspettarmi in un posto che conoscevamo, per riposare, bere qualcosa. Non so. A quel punto mi riconobbero e mi aiutarono a pulirmi.

Finalmente salii in ufficio e scoprii che John era lì. Quando finalmente ci vedemmo ci abbracciammo e abbiamo pianto. Bill arrivò e ci abbracciammo anche con lui. Ci portarono in un ospedale fuori Manhattan a causa delle ferite che riportammo.

La mattina del 12 settembre 2001, seppi della foto con me e Donna. Dato che era stata scattata da un fotografo dell'Associated Press, è stata diffusa sui giornali e sulle riviste di tutto il mondo. È stata anche pubblicata dal Corriere della Sera quel giorno. Circa un mese dopo, le nostre famiglie si sono incontrate a casa sua nel New Jersey. Da allora siamo diventati ottimi amici e entrambi diciamo che la nostra amicizia è l'unica cosa positiva che è venuta fuori da quella giornata orribile. Non so bene perché quella foto abbia ricevuto così tanta attenzione, forse perché mostra che l’umanità che si aiuta.


Undicisettembre: Cosa ti è successo nei giorni e nei mesi successivi?

Dominic Guadagnoli: Ricordo i giorni, le settimane, anche mesi dopo l'11 settembre, la fratellanza, la solidarietà e l'unità che si sentivano e si vedevano.

Molti di noi uscirono e comprarono bandiere. Secondo il St. Petersburg Times, il 12 settembre 2001, Walmart ha venduto 116.000 bandiere rispetto alle 6400 dello stesso giorno dell'anno precedente. C'erano bandiere che sventolavano da ogni casa e macchina. Ricordo di aver visto ovunque striscioni e adesivi che testimoniavano l'amore per il nostro paese ovunque. C'erano persone per le strade di New York con cartelli che dicevano "Grazie per quello che hai fatto", "Grazie eroi". Andò avanti per mesi e mesi. Le persone erano in fila per donare il sangue, si offrivano volontariamente e arrivarono provviste a Ground Zero quasi istantaneamente da tutto il paese. Le donazioni alle associazioni di beneficenza salirono alle stelle. Secondo quanto riferito, gli americani donarono quasi due miliardi di dollari.

Sembrava che le barriere tra le persone scomparissero. Non importava se eri nero o bianco, ispanico, asiatico o europeo. Potevi credere in Gesù, Dio, Buddha, Allah o nessuno per quel che importava. Le divisioni caddero per far posto all’unione. Per me era ovvio che insieme avevamo condiviso il dolore e non siamo mai stati più orgogliosi di essere americani.

Ho visto segni di amore, gentilezza, spiritualità e patriottismo. Si vedeva l’umanità aiutare l’umanità, e le persone erano veramente grate l'una all'altra. La gente si appoggiava l'un l'altra, sperando di riuscire in qualche modo a superare quel momento, anche se all'epoca sembrava quasi impossibile.


Undicisettembre: In che modo l'11/9 influenza ancora oggi il lavoro quotidiano degli US Marshals?

Dominic Guadagnoli: Non posso dire che lo influenza come accade ad esempio per gli aeroporti. Cose come la sicurezza negli uffici dei tribunali erano già piuttosto intense a causa di ciò che accadde nel 1993 e perché al tempo c'erano state importanti minacce contro diversi giudici che presiedevano le deposizioni per l’attentato del 1993. Lo sceicco Omar Abdel Rahman e il suo gruppo avevano pianificato di saltare in aria i tunnel, il quartier generale dell'FBI, l'ufficio del procuratore degli Stati Uniti e il quartier generale della polizia. Quindi a causa di ciò i Marshals avevano già avuto un aumento della sicurezza.

Da allora ovviamente con la tecnologia moderna era ulteriormente migliorata. Non penso ci siano stati cambiamenti con effetti quotidiani, ma i servizi di protezione per i giudici o i servizi di intelligence come la Joint Terrorism Task Force o l’FBI ovviamente sono più rigidi.

Nel nostro lavoro quotidiano direi che è non qualcosa che ha effetti di per sé.


Undicisettembre: In che modo l'11/9 influisce sulla tua vita quotidiana?

Dominic Guadagnoli: Penso di aver visto mille volte gli orologi che mostrano le ore 9:11. Ieri mattina è andata via la corrente e l’orario che lampeggiava era 9:11. Sembra che ogni volta che mi fermo a guardare l'orologio siano le 9:11.

Ho ancora problemi a volte con forti rumori, a volte posso essere nervoso. Una cosa che noto con gli anni che sono passati è che ogni anno quando si avvicina l'anniversario mi sembra di essere un po' più irritabile, un po' più irascibile. Quando si avvicina l'anniversario, un mese prima inizio a sentirmi più ansioso, mi irrito più facilmente. La gente se ne esce con queste teorie del complotto e normalmente le escluderei come "un piccolo problema", ma vicino all'anniversario mi danno più fastidio.

Il giorno dell'anniversario è una giornata in cui mi sento intontito, è una situazione strana e nei giorni successivi torna tutto normale. Non esce mai dalla tua mente, è nella tua mente 24 ore su 24; stai guardando un programma TV e vedi le Twin Towers o dei jet che volano e ti viene in mente l'11/9. Non è passato un giorno in cui qualcosa non ti ci faccia pensare. Alcuni giorni è lì in primo piano, alcuni giorni c'è solo un po’, ma è sempre lì.


Undicisettembre: Cosa ne pensi delle teorie del complotto secondo cui l'11/9 è stato un inside job?

Dominic Guadagnoli: Penso che sia spazzatura. Non so come la gente possa creare queste idee nelle loro menti. Anche se non fossi stato lì, non capirei come la gente possa inventare queste cose; penso che sia una cosa politica o per ottenere attenzione.

Ricordo che nel decimo anniversario ero qui in Florida, stavo guidando lungo una strada e vidi che qualcuno aveva attaccato a un albero un cartello con l’indirizzo del sito www.911truth.org. Fermai la macchina, lo strappai e lo gettai nel bosco. Questo è ciò che penso.


Undicisettembre: Cosa pensi della sicurezza oggi? La nazione è più sicura rispetto al 2001?

Dominic Guadagnoli: Penso che ci siano meccanismi che ci fanno sentire più sicuri, quindi in qualche modo sì, spero che abbiamo imparato. Ma essendo nelle forze dell'ordine, vedo varie cose e come si suol dire "Una catena è tanto forte quanto il suo anello più debole"; a volte passiamo attraverso i controlli di sicurezza, come ad un concerto o allo stadio, e non mi controllano, o controllano una persona ma non l’altra.

Di recente sono andato a un famoso parco di divertimenti della Florida, dove ci sono negozi e altre cose, ho lasciato la macchina nel parcheggio e sono entrato direttamente e l’addetto alla sicurezza ha solo guardato la gente che entrava. Nessuno mi ha controllato. Ma se vai a Magic Kingdom [parco tematico all’interno di Disney World], ti prendono l'impronta digitale, vieni controllato e passi attraverso i magnetometri. È successo anche a mio figlio, è un ragazzino di 15 anni e gli hanno guardato la borsa e hanno detto "Ok, vai." So che fanno profiling e forse lui non ricade nel profilo corretto, hanno soppesato la borsa e si sono assicurati che non avesse armi da fuoco, ma al giorno d’oggi dovrebbero controllare tutti: indipendentemente dal fatto che abbiano quattordici o cento anni. Se vuoi avere sicurezza, devi avere sicurezza. La sicurezza è al 100% oppure non è sicurezza; se non è al 100%, perché preoccuparsi e perché infastidire le persone?

Se dobbiamo essere sicuri al 100%, dobbiamo essere sicuri al 100%, non possiamo essere schizzinosi. Penso che tu sappia cosa succede in America nelle scuole ora; sono obiettivi vulnerabili, persino le chiese e i supermercati sono obiettivi vulnerabili. Hai visto cosa è successo in Nuova Zelanda e a El Paso e in molti altri luoghi. Non so quale sia la risposta per questo, ma se vuoi avere sicurezza devi andare fino in fondo. Solo metà non ha senso.