di Leonardo Salvaggio
Lo scorso mese di novembre è stato desecretato il verbale dell'intervista al Presidente George Bush e al Vicepresidente Dick Cheney della 9/11 Commission, la Commissione di indagine istituita per indagare sugli attentati dell'11/9. L'intervista si è svolta il 29 aprile del 2004 e, come già emerso al tempo, non è stata registrata; il documento infatti non è una trascrizione ma un memorandum redatto da una persona presente durante la discussione che aveva il compito di prendere appunti su quanto veniva trattato. L'ordine di pubblicazione del documento è stato emesso dalla Interagency Security Classification Appeals Panel, ente creato dall'amministrazione Obama nel 2009 che include rappresentanti di vari dipartimenti federali e che ha il compito di decidere sulla desecretazione di documenti sensibili.
Il PDF pubblicato è di 31 pagine ed è ancora censurato in alcune parti, che sono comunque ridotte al minimo. L'incontro si svolse nello Studio Ovale della Casa Bianca, di cui il verbalizzante riporta anche dei dettagli sugli ornamenti, come la presenza di un ritratto di George Washington e dei busti di Abraham Lincoln e Winston Churchill. L'inizio della discussione è indicato alle 12:40 e la durata fu di poco superiore a tre ore. La discussione si aprì con la domanda del Presidente della Commissione Thomas H. Kean che chiese a Bush quale fosse lo stato delle segnalazioni sulle minacce terroristiche che riceveva nel President's Daily Brief (briefing quotidiano su temi di intelligence che richiedono particolare attenzione) che teneva con George Tenet, al tempo direttore della CIA, alle otto di ogni mattina. L'incontro avveniva alla presenza anche di Dick Cheney, Condoleezza Rice (chiamata con il soprannome Condi in tutto il documento, forse per la necessità di scrivere in fretta da parte del verbalizzante) e del capo di gabinetto Andy Card. Kean fece particolare riferimento alla riunione del 6 agosto 2001 il cui rapporto parlava esplicitamente dell'intenzione di bin Laden di colpire negli Stati Uniti. Il Presidente rispose che le minacce erano relative a obiettivi americani all'estero e di aver dato ordine di indagare ulteriormente sul rischio di attacchi sul suolo americano, ma che nulla di concreto gli arrivò in tempo.
La discussione si spostò quindi sui primi attimi cruciali seguenti agli attacchi alle Torri Gemelle. Da quanto riportato dal Presidente e dal suo vice emerge il caos che regnava in quei minuti tra falsi allarmi e informazioni incomplete. Vennero riportate alla Casa Bianca informazioni di un aereo dirottato schiantatosi al confine tra Kentucky e Ohio, dell'esplosione di un'autobomba (probabilmente in centro a Washington), di un attacco contro il Campidoglio (nelle cui vicinanze avrebbe dovuto trovarsi la First Lady) e di uno contro la residenza del Presidente a Ranch Crawford. Si susseguirono anche notizie errate di altri dirottamenti, tra cui un volo dirottato in ingresso dalla Corea del Sud e un altro da Madrid per il quale fu dato l'ordine di abbattimento e che pochi minuti dopo atterrò a Madrid da dove era partito. Fu riferito anche un volo dirottato diretto verso la Casa Bianca e anche per questo venne dato l'ordine di abbattimento, ma si trattò probabilmente del volo United 93 che i terroristi fecero schiantare a terra. Oltre a queste seguirono innumerevoli segnalazioni sbagliate che contribuirono a creare confusione tra i vertici del paese.
Il Presidente della Commissione chiese quindi quali fossero le strategie per affrontare il terrorismo e il Presidente Bush rispose che l'azione sarebbe stata in tre parti. Anzitutto sarebbe stato necessario combattere le organizzazioni terroriste, in secondo luogo potenziare la sicurezza interna e in ultimo attuare politiche tendenti a evitare le condizioni sociali che favoriscono la nascita del terrorismo.
L'intervista si spostò quindi sullo scenario internazionale e di come gli Stati Uniti avessero bisogno di alleati tra gli stati islamici, tra cui la Turchia, il Pakistan e l'Arabia Saudita. In particolare per quanto riguarda Islamabad il Presidente sottolineò come il Pakistan fu dapprima uno strenuo alleato dell'Afghanistan, ma i rapporti tra i due paesi iniziarono a incrinarsi dopo che i Talebani tentarono per due volte di uccidere il generale Pervez Musharraf, Presidente pakistano dal 1999.
La Commissione affrontò quindi il tema delle teorie del complotto. Chiese dapprima al Presidente perché avesse continuato la sua presentazione nella scuola Emma E. Booker di Sarasota, in Florida, dopo essere stato raggiunto dalla notizia dell'attacco; il Presidente rispose che fu un errore e di non aver immediatamente capito la gravità della situazione pensando che fosse lo schianto di un piccolo bimotore. La Commissione chiese quindi perché il governo non intervenne efficacemente dopo aver avuto notizia delle intenzioni di al-Qaeda di colpire sul suolo americano, Bush ribadì, come detto in precedenza, che le informazioni in suo possesso riguardavano solo la minaccia a obiettivi americani all'estero. In ultimo la Commissione chiese se il Presidente o il suo vice ebbero un ruolo nell'autorizzare l'uscita di cittadini sauditi dal pese dopo gli attentati, il Presidente rispose di non aver autorizzato la partenza e di averlo saputo dai giornali. Bush insistette sul tema delle teorie del complotto specificando che fosse compito della Commissione chiarire che gli attentati erano stati compiuti dai terroristi, su questo punto la Commissione espose il proprio favore sostenendo che fossero loro intenzione affrontare le teorie del complotto e mettere la nazione al sicuro.
Un'ampia parte delle discussione riguardò i rapporti tra gli USA e l'Arabia Saudita. Il Presidente Bush spiegò alla Commissione che la famiglia reale non deve essere vista come monolitica e che alcune frange effettivamente sono vicine a organizzazioni non governative legate al terrorismo. Il Presidente si disse preoccupato della situazione e del fatto che al-Qaeda potesse guadagnare più potere o che Riyadh potesse stringere alleanza con l'Iran.
L'intervista passò quindi a discutere la possibile uccisione di bin Laden, che al tempo dell'intervista era ancora in vita. Il Presidente risponde che un'operazione speciale non era in quel momento pianificabile perché non era noto dove il terrorista si nascondesse e che in ogni caso le operazioni speciali possono fallire, come accaduto nelle prime fasi della guerra mentre le forze USA davano la caccia al Mullah Omar.
L'ultima parte dell'intervista riguarda quanto fatto in termini di prevenzione prima dell'11/9 per fermare la minaccia di al-Qaeda prima che colpisse. Bush riporta che nel passaggio di consegne da parte dell'amministrazione Clinton la minaccia di al-Qaeda non fu trattata con particolare priorità, ma che al contrario il principale nemico fu indicato nella Corea del Nord. Bush aggiunse di aver discusso con il premier britannico Tony Blair se avessero perso l'occasione di distruggere al-Qaeda prima dell'11/9, Blair si trovò d'accordo sul fatto che all'epoca non era in alcun modo parte della discussione e che sarebbe stato impensabile iniziare una guerra preventiva senza un evento che la causasse.
In chiusura al Presidente venne chiesto di commentare le dichiarazioni di Condoleezza Rice secondo cui sarebbe stato impossibile prevedere l'uso di aerei come armi di distruzione di massa. Bush confermò che in assenza di una minaccia concreta lo scenario era impossibile da prevedere. La Commissione ribatté che il Presidente egiziano Mubarak aveva avvisato le autorità italiane di un possibile uso di aerei come missili durante il G8 di Genova. Bush rispose di non aver mai sentito questa notizia e che la chiusura dello spazio aereo su Genova non implicava la previsione dell'uso di aerei come missili contro edifici abitati.
La pubblicazione di questo memorandum, dal quale si evince quanto le autorità americane siano state colte impreparate, si aggiunge allo sforzo dell'amministrazione Biden, che ha anche ordinato la desecretazione di centinaia di documenti sulle indagini dell'FBI, di fare chiarezza su colpe, responsabilità e omissioni. Iniziativa lodevole che ci auguriamo prosegua su questa strada.
2022/12/09
2022/11/04
La Rete Haqqani, uno dei principali gruppi terroristici attivi in Afghanistan
di Leonardo Salvaggio
Uno dei gruppi terroristici più attivi in Afghanistan è quello noto come Rete Haqqani, che nacque nella zona sudorientale al confine con il Pakistan nei primi anni '70, fondato dal miliziano afgano Jalaluddin Haqqani da cui l'organizzazione prende il nome. La rete ha fin dalla sua fondazione lo scopo di combattere per l'instaurazione di un regime che imponga la sharia in Afghanistan respingendo ogni forma di occidentalizzazione della nazione, per questo motivo osteggia dalla propria fondazione ogni regime non totalitario e le forze straniere che nei decenni hanno occupato l'Afghanistan.
Il primo obiettivo degli attentati della Rete Haqqani fu l'alleanza guidata da Mohammad Daoud Khan, che prese il potere nel 1973 con un colpo di stato con cui destituì il cugino Mohammed Zahir Shah. Nei primi anni i campi di addestramento della Rete Haqqani si trovavano il Pakistan nella regione del Waziristan del Nord. Il primo attentato condotto dall'organizzazione fu nel 1975 contro il governatore del distretto di Ziruk sostenuto dal governo; tuttavia la Rete Haqqani non ebbe un ruolo fondamentale nella caduta di Daud che venne ucciso nel 1978 durante il colpo di stato ordito dal Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan. Nel 1979 l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan e la Rete Haqqani combatté contro l'invasore al fianco di altri gruppi di guerriglieri locali ricevendo il supporto dell'intelligence di USA, Arabia Saudita e Pakistan. Durante questa alleanza contro un nemico comune il Presidente Ronald Reagan definì Haqqani un freedom fighter (combattente per la libertà) e si diffuse anche sui media la notizia secondo cui il terrorista sarebbe stato invitato alla Casa Bianca nel 1985, ma si trattò di un equivoco: l'uomo raffigurato in una celebre foto con il Presidente e scambiato per Haqqani era in realtà un altro miliziano di nome Mohammad Yunus Khalis (più vecchio di Haqqani di vent'anni e coerente con l'uomo nella foto).
Gli attentati della Rete Haqqani, analogamente a quelli di altri gruppi terroristici della zona, prevedono l'uso di attacchi suicidi, autobombe, ordigni esplosivi autoprodotti e razzi. La Rete trae il suo sostentamento da attività criminali quali rapine, estorsioni, rapimenti e traffico di droga, alle quali affianca fonti di denaro apparentemente legali quali la raccolta di offerte nelle madrase. Negli anni 80 la Rete Haqqani si alleò con al-Qaeda, con cui combatteva contro i sovietici, consentendo all'organizzazione di Osama bin Laden di costruire campi di addestramento e di formare i propri combattenti nelle zone controllate da Haqqani. Nel decennio successivo la rete aiutò anche la formazione dei Talebani, da un gruppo scoordinato nato nelle madrase fino all'organizzazione terroristica che riuscì a compiere un colpo di stato e a salire al potere. Durante il primo regime dei Talebani, Jalaluddin Haqqani ricoprì il ruolo di Ministro degli Affari Tribali, a riprova di quanto solida fosse l'alleanza tra i due gruppi. Nei primi vent'anni della propria esistenza, cioè circa fino alla presa del potere da parte dei Talebani, la Rete Haqqani mantenne un'organizzazione basata in gran parte su legami tribali e familiari e venne riconosciuta dagli altri gruppi jihadisti come un ente distinto e indipendente solo a metà degli anni 90.
Dopo l'inizio della guerra in Afghanistan successiva agli attentati dell'11/9, ufficiali americani e pakistani incontrarono Haqqani a Islamabad e gli chiesero di abbandonare l'alleanza con i Talebani e di unirsi ai guerriglieri alleati delle truppe angloamericane, tuttavia ottennero un rifiuto e la Rete Haqqani combatté contro le forze USA al fianco del regime. Haqqani aiutò anche Osama bin Laden a rifugiarsi a Tora Bora dopo la caduta del governo del Mullah Omar. Nei due decenni successivi le forze americane in Afghanistan e il nuovo governo di Kabul sostenuto dagli USA furono i primi obiettivi degli attentati della Rete Haqqani, che nel 2008 tentò anche di uccidere il presidente Hamid Karzai. Nel 2011 l'amministrazione Obama tentò di negoziare un accordo di pace con la Rete Haqqani tramite un incontro negli Emirati Arabi, ma le parti non giunsero a nulla. Si stima che nei primi dieci anni di guerra in Afghanistan, la Rete Haqqani sia stata responsabile del 10% degli attacchi contro forze USA e del 15% delle vittime.
Un documento pubblicato nel 2010 da Wikileaks riportò che Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin, era considerato dall'International Security Assistance Force (missione della NATO, autorizzata dall'ONU, in supporto al governo) un soggetto da uccidere o catturare. Nel 2012 l'amministrazione Obama e il Consiglio di sicurezza dell'ONU inserirono la Rete Haqqani nella lista nera delle organizzazioni terroristiche; i Talebani risposero sul proprio sito internet che non esisteva nessuna organizzazione chiamata Rete Haqqani e che si trattava di un gruppo interno ai Talebani stessi.
La Rete Haqqani è responsabile di numerosi attentati contro obiettivi occidentali in Afghanistan anche negli anni recenti, tra cui l'esplosione di un camion bomba nel 2017 vicino all'ambasciata tedesca a Kabul che ha causato 150 morti e 413 feriti, risultando nell'attentato mortale più grave avvenuto nella capitale afgana negli ultimi decenni.
Attualmente la Rete Haqqani è ancora fortemente legata ai Talebani e ad al-Qaeda, in violazione degli accordi di Doha che vietano al nuovo governo di Kabul di stringere accordi con l'organizzazione fondata da bin Laden. Sirajuddin Haqqani, attuale leader della Rete dopo la morte del padre nel 2018, è anche uno dei ministri del nuovo governo dei Talebani, nonostante sia ancora considerato dall'FBI uno dei terroristi più ricercati. Nel 2020 la Rete Haqqani contava circa 10.000 miliziani, per fare un paragone si tratta di circa il venti percento delle forze dei talebani, mentre l'ISIS-KHorasan si aggira intorno ai 5000 uomini.
La Rete Haqqani è anche il ramo dei Talebani più vicino ad alleanze con l'ISIS-Khorasan e in alcuni casi ha fatto da mediatore per l'organizzazione di attentati contro il regime sostenuto dagli USA caduto nel 2021. La pericolosità di questo gruppo è quindi concreta e non deve essere sottovalutata, anche se i media occidentali non le danno lo stesso risalto che viene dedicato ad al-Qaeda o allo Stato Islamico.
Fonti aggiuntive oltre a quelle citate nell'articolo:
Uno dei gruppi terroristici più attivi in Afghanistan è quello noto come Rete Haqqani, che nacque nella zona sudorientale al confine con il Pakistan nei primi anni '70, fondato dal miliziano afgano Jalaluddin Haqqani da cui l'organizzazione prende il nome. La rete ha fin dalla sua fondazione lo scopo di combattere per l'instaurazione di un regime che imponga la sharia in Afghanistan respingendo ogni forma di occidentalizzazione della nazione, per questo motivo osteggia dalla propria fondazione ogni regime non totalitario e le forze straniere che nei decenni hanno occupato l'Afghanistan.
Il primo obiettivo degli attentati della Rete Haqqani fu l'alleanza guidata da Mohammad Daoud Khan, che prese il potere nel 1973 con un colpo di stato con cui destituì il cugino Mohammed Zahir Shah. Nei primi anni i campi di addestramento della Rete Haqqani si trovavano il Pakistan nella regione del Waziristan del Nord. Il primo attentato condotto dall'organizzazione fu nel 1975 contro il governatore del distretto di Ziruk sostenuto dal governo; tuttavia la Rete Haqqani non ebbe un ruolo fondamentale nella caduta di Daud che venne ucciso nel 1978 durante il colpo di stato ordito dal Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan. Nel 1979 l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan e la Rete Haqqani combatté contro l'invasore al fianco di altri gruppi di guerriglieri locali ricevendo il supporto dell'intelligence di USA, Arabia Saudita e Pakistan. Durante questa alleanza contro un nemico comune il Presidente Ronald Reagan definì Haqqani un freedom fighter (combattente per la libertà) e si diffuse anche sui media la notizia secondo cui il terrorista sarebbe stato invitato alla Casa Bianca nel 1985, ma si trattò di un equivoco: l'uomo raffigurato in una celebre foto con il Presidente e scambiato per Haqqani era in realtà un altro miliziano di nome Mohammad Yunus Khalis (più vecchio di Haqqani di vent'anni e coerente con l'uomo nella foto).
Gli attentati della Rete Haqqani, analogamente a quelli di altri gruppi terroristici della zona, prevedono l'uso di attacchi suicidi, autobombe, ordigni esplosivi autoprodotti e razzi. La Rete trae il suo sostentamento da attività criminali quali rapine, estorsioni, rapimenti e traffico di droga, alle quali affianca fonti di denaro apparentemente legali quali la raccolta di offerte nelle madrase. Negli anni 80 la Rete Haqqani si alleò con al-Qaeda, con cui combatteva contro i sovietici, consentendo all'organizzazione di Osama bin Laden di costruire campi di addestramento e di formare i propri combattenti nelle zone controllate da Haqqani. Nel decennio successivo la rete aiutò anche la formazione dei Talebani, da un gruppo scoordinato nato nelle madrase fino all'organizzazione terroristica che riuscì a compiere un colpo di stato e a salire al potere. Durante il primo regime dei Talebani, Jalaluddin Haqqani ricoprì il ruolo di Ministro degli Affari Tribali, a riprova di quanto solida fosse l'alleanza tra i due gruppi. Nei primi vent'anni della propria esistenza, cioè circa fino alla presa del potere da parte dei Talebani, la Rete Haqqani mantenne un'organizzazione basata in gran parte su legami tribali e familiari e venne riconosciuta dagli altri gruppi jihadisti come un ente distinto e indipendente solo a metà degli anni 90.
Dopo l'inizio della guerra in Afghanistan successiva agli attentati dell'11/9, ufficiali americani e pakistani incontrarono Haqqani a Islamabad e gli chiesero di abbandonare l'alleanza con i Talebani e di unirsi ai guerriglieri alleati delle truppe angloamericane, tuttavia ottennero un rifiuto e la Rete Haqqani combatté contro le forze USA al fianco del regime. Haqqani aiutò anche Osama bin Laden a rifugiarsi a Tora Bora dopo la caduta del governo del Mullah Omar. Nei due decenni successivi le forze americane in Afghanistan e il nuovo governo di Kabul sostenuto dagli USA furono i primi obiettivi degli attentati della Rete Haqqani, che nel 2008 tentò anche di uccidere il presidente Hamid Karzai. Nel 2011 l'amministrazione Obama tentò di negoziare un accordo di pace con la Rete Haqqani tramite un incontro negli Emirati Arabi, ma le parti non giunsero a nulla. Si stima che nei primi dieci anni di guerra in Afghanistan, la Rete Haqqani sia stata responsabile del 10% degli attacchi contro forze USA e del 15% delle vittime.
Un documento pubblicato nel 2010 da Wikileaks riportò che Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin, era considerato dall'International Security Assistance Force (missione della NATO, autorizzata dall'ONU, in supporto al governo) un soggetto da uccidere o catturare. Nel 2012 l'amministrazione Obama e il Consiglio di sicurezza dell'ONU inserirono la Rete Haqqani nella lista nera delle organizzazioni terroristiche; i Talebani risposero sul proprio sito internet che non esisteva nessuna organizzazione chiamata Rete Haqqani e che si trattava di un gruppo interno ai Talebani stessi.
La Rete Haqqani è responsabile di numerosi attentati contro obiettivi occidentali in Afghanistan anche negli anni recenti, tra cui l'esplosione di un camion bomba nel 2017 vicino all'ambasciata tedesca a Kabul che ha causato 150 morti e 413 feriti, risultando nell'attentato mortale più grave avvenuto nella capitale afgana negli ultimi decenni.
Manifesto propagandistico diffuso in Afghanistan dalle forze USA, il terzo da sinistra è Jalahuddin Haqqani. Fonte: PSY Warrior |
Attualmente la Rete Haqqani è ancora fortemente legata ai Talebani e ad al-Qaeda, in violazione degli accordi di Doha che vietano al nuovo governo di Kabul di stringere accordi con l'organizzazione fondata da bin Laden. Sirajuddin Haqqani, attuale leader della Rete dopo la morte del padre nel 2018, è anche uno dei ministri del nuovo governo dei Talebani, nonostante sia ancora considerato dall'FBI uno dei terroristi più ricercati. Nel 2020 la Rete Haqqani contava circa 10.000 miliziani, per fare un paragone si tratta di circa il venti percento delle forze dei talebani, mentre l'ISIS-KHorasan si aggira intorno ai 5000 uomini.
La Rete Haqqani è anche il ramo dei Talebani più vicino ad alleanze con l'ISIS-Khorasan e in alcuni casi ha fatto da mediatore per l'organizzazione di attentati contro il regime sostenuto dagli USA caduto nel 2021. La pericolosità di questo gruppo è quindi concreta e non deve essere sottovalutata, anche se i media occidentali non le danno lo stesso risalto che viene dedicato ad al-Qaeda o allo Stato Islamico.
Fonti aggiuntive oltre a quelle citate nell'articolo:
2022/09/30
World Trade Center: an interview with first responder Craig Mazzara
by Leonardo Salvaggio. An Italian translation is available here.
Undicisettembre is offering today its readers the personal account of first responder Craig Mazzara who was deployed to Ground Zero a few days after the attack and had worked there for months in the debris field.
We would like to thank Craig Mazzara for his kindess and his time.
Undicisettembre: Can you give us an account of what happened to you on 9/11 and the following days?
Craig Mazzara: On 9/11 I was home after working the night shift. At the time I had seven years on as a police officer with the NYPD, I was working in a city wide disorder control unit, our unit was a rapid mobilization unit for emergencies that local precincts couldn’t handle on their own: riots, demonstrations, protests, natural disasters, things like that.
I was sleeping when the first tower was struck and I got a phone call from my wife that woke me up. She said “Do you know what’s happening?”, I said “I was sleeping, I have no idea”, she said “Turn on the TV, you have to see”. I got up, I turned on the TV immediately and I saw the panic, the fear, the complete chaos that was happening at and around the World Trade Center. The first tower had been struck, the second tower hadn’t been struck yet. As the second tower was struck, I watched that on TV. My son was four at the time and he told me “Dad, what movie are you watching?” because he couldn’t believe that was a real thing. I started crying and said “Sam, this is real, this is happening”. At that moment my wife called me again and said “Do you have to go to work?” because she knew I was in the rapid response unit, I said “I haven’t got the call yet, but you have to go to Logan’s school”, Logan is my older daughter who was six, “and get her out” because at that point we had no idea what was going to be considered a hard or a soft target. The general idea was that wherever there was a group of civilians, that was a soft target; anywhere there was a big commercial hub, governmental facilities or military facilities would be a hard target. I was in panic, I was screaming.
I hung up with my wife, she was going to get our daughter out of school, I turned my attention back to the TV and I watched the first tower come down. I continued to fall into deeper stages of disbelief, continuing not to believe that this was happening. I called my unit and got the training sergeant on the phone and asked “Steve, what are we doing?”. With my unit there are different levels of mobilization that go from one to four which is the most critical that means that all personnel assigned to the unit and all off duty personnel have to respond. Steve said "There’s no word yet, we are in contact with headquarters, we’ll let you know as soon as we receive an order.” When my wife got home I was ready to suit up and go downtown myself if my unit wasn’t going to call me in. As frightening as it was, I wanted to be there, I was hit by a feeling of regret that I was not there to respond and help civilians.
Not long after my phone rang. Steve said “Craig, level four. You have to get down here.” I was ready to go and both my wife and I were very tearful because we didn’t know if I was going to come back. I kissed my wife and my children as if I was never going to see them again. I jumped in my car and I was listening to the radio, as anyone else was doing, and I realized the highways were shut down because Manhattan had been sealed off. People leaving were either being ferried out or walking out of the Manhattan through bridges or tunnels, but no car could leave. So as I got to the parkway I realized I was not going to get through and I started to see a stream of cars driving fifty or sixty miles an hour on a grassy shoulder on the right side definitely not meant for traffic.
I thought “They all must be first responders, they must be military, cops, firefighters” so I worked my way through traffic to get in that lane. When I got to my precinct it was more chaotic than I’ve ever seen: people flying into the parking lot, running out of their cars, scrambling into the station to immediately grab their gear, everything. Whoever had a second gun took their second gun, whoever had a third gun would grab their third gun. We were sure we were going to be suited up and go to Ground Zero. There were sixty of us there but we were told by our commanding officer that because we had two airports that were hard targets, JFK and LaGuardia, in our borough Queens South, we had to stay there to guard those hard targets. That news was like getting hit in the head with a bat, it was devastating, we felt useless.
Before we deployed to the airport there was this guy we worked with, his name is Mitch, who was a few blocks away from the World Trade Center off duty but in uniform, but instead of reporting to a commander on scene he walked out of Manhattan with the civilians, it took him six or seven hours. He was white covered with dust. He opened the door and we looked at him as if he was a spirit from the grave, we couldn’t believe what we were looking at because we wanted to go there so desperately and here was a guy who was there and chose to leave instead of helping. I was disgusted.
For the next few days we were guarding our hard targets. Then on Friday they said “Look, we are looking for volunteers to go boots on the ground at Ground Zero to assist in search and recovery efforts”. I immediately jumped on the opportunity because I wanted to go and feel like I was doing something. I went with another cop, Matt, and our sergeant Dan; the three of us reported Sunday early morning not knowing how long we would have been there.
For the first few months after 9/11 we worked sixteen hours shifts. When you saw the debris field and the scope of the destruction, it knocks the wind out of you, as if you are trying to breath in a vacuum. It was days later and they had found no survivors, but I was convinced that people buried alive could have been found even then, as it happens days later in earthquakes or mudslides. We reported to a gathering point, we received filtration respirators and we were given instructions to go to a site commander at Ground Zero and they would instruct us from there. We did that and we ended up in what we called the “bucket brigade”, a line of a couple of hundred cops at least snaking from the tip of the pile of debris till the far end of the site. At that point they hadn’t brought in any heavy equipment because I think there still was the thought “Maybe we’ll find somebody alive or a dead body intact that we can recover. Or even just a memento such as a wallet, a watch, a wedding ring.”
At night it was very cold. I was the second person from the top of the pile, the point, and I remember someone tapped the officer on the point on his shoulder and said “You’re done”. He stood up with a shell shock look in his eyes, his body was there but mentally he was 100% not with us there. That look in his eyes, that hollowness, so frightened the officer in front of me that he said “I can’t do this, I’m not doing this” and he left too. At that moment, they called me forward and I took my place on the point of the debris pile. Even though it was very cold, you started pouring sweat because, as I found out later, there were still fires raging under us. So we were sweating from head to feet but at the same time we were freezing cold.
I can’t tell you how long I had been there, because I also disassociated like the officer in front of me. I had left my body behind and didn’t even realize where I was. Someone tapped on my shoulder as well and told me “It’s okay son, you’re done.” This guy was younger than me and he called me “son”. That was comforting somehow. I blankly gave him the shovel and bucket I was using and I wandered off the pile totally aimlessly, no direction, I felt like I couldn’t see and here is where it starts getting spotty for me because I remember walking down the pile but I don’t truly remember anything other than my friend Matt coming up to me, grabbing me and saying “Craig, are you okay?”. I was unresponsive and I don’t remember answering to him.
For some time after there was a rescue boat docked at the pier. It was a place for first responders to go to get hot coffee, a hot meal or clean clothes. Matt took me there, in that condition I would have never found it on my own, and there was a young brunette girl whom I never forget because of her kindness; she said “Officer, you look terrible and you have to be cold, we are going to help you” and she gave me a red Champion sweatshirt which I immediately put on. Twenty-one years later I still have that sweatshirt.
The hope that we might find a survivor or something useful was shattered once we got to the pile and understood the scope of what had happened. It was crushing, it was a debilitating hopelessness. From that day, that first disassociation, was the onset of my post traumatic stress disorder but I would go untreated for eighteen years.
Undicisettembre: How does 9/11 affect your life even today?
Craig Mazzara: I was recently, three years ago, diagnosed with post traumatic stress disorder but even before that I knew something was wrong, I knew I was no longer the same person. I wasn’t sure how and what had changed, but I was a lot angrier and constantly in a rage. I could fly into a rage for the smallest thing, I was always hyper-vigilant.
We worked sixteen hours shifts for several months after 9/11 and then we went to twelve hours shifts for about a year, and when you live with that constant pressure it becomes such an internal part of you that you carry it with you for the rest of your life. For the rest of your life you have to be aggressive and hyper-vigilant, you can’t show sign of letting up because you don’t want to be the weak link in the chain.
I was having nightmares, that rage that I couldn’t control and as a police officer as you can imagine it’s not a great thing. I had bouts of depression and I think that ties in with the hopelessness and helplessness that I felt. I definitely had what they call the survivor’s guilt, because two of my friends died in the rescue efforts in Ground Zero and I wondered “Why am I here when these other 2.600 other people lost their lives on that day?”. I felt guilty for being alive and that’s something I only recently started dealing with in a positive way with my therapist and my psychiatrist.
In 2019 I was having a conversation with a neighbor of mine and out of the blue she asked me “You were a cop in New York, right? Were you at Ground Zero?” I had disassociation again, I was off someplace else, very much like my physical body was able to continue that conversation with her, even a pretty coherent one, but it triggered something that caused for months a greater frequency of disassociation. I was having many more flashbacks and nightmares which were particularly graphic, violent and disturbing. So a few months later I thought it was PTSD and I took online quizzes and in everyone my score was off the charts, I had severe PTSD.
I had to do something, I couldn’t live like this; while driving I could suffer disassociation and I would be gone for like one mile, like space out and then jump back into my body. I could have killed somebody, I had to get help. I asked my physician what he knew about PTSD and I burst into tears, he put his hand on my shoulder and said “I don’t know much about it, but I know I’m going to get you some help”. He set me up a couple of appointments with a psychiatrist and a therapist, but as is pretty common the first mental health professional is not the right one for your specific case. I later found a psychiatrist who was a twenty-five year combat veteran who is exceptionally well versed in PTSD with military and first responders, and I also found a therapist who has six years experience with US military as a contractor and working mostly with first responders now. Both has been tremendously helpful to me in trying to live as a normal life as I can now.
9/11 unfortunately still is very haunting to me. I still have what is known in PTSD as “intrusive thoughts”, randomly through the day I would think of things such as the girl with the red sweatshirt, or if a cold breeze would hit me I remember how cold it was at Ground Zero, or the smell of an outdoor wood fire can remind me of the fires at Ground Zero. There are a lot of things that can trigger me and a lot of triggers that I’m not aware of that I’m trying to recognize. It hasn’t been easy for my family either, they have been very brave and loving as they try to help me work through this; I appreciate what they do, I’m sure I was not an easy guy to live with before 9/11 but PTSD takes your worst possible attributes and turns them all the way up.
Undicisettembre: Have you been to the 20th anniversary celebrations last year?
Craig Mazzara: I have not. But one of the things that we do here is we have commemorative ceremonies at our base of operations. We would get dressed in our uniforms, go out, salute the flag and have moment of silence for the people who lost their lives. This is what we do, but I have never attended one of the big celebrations.
After the clean up process at Ground Zero was finished, I couldn’t get myself in the vicinity of the World Trade Center until 2015 when I went to the memorial with my daughter. No surprise, I just cried thinking about everyone that was lost. But also, just being at that sacred ground brought back the memories of how it was; I was there looking at the pools but I could still see the pile and the debris field. It was beautiful and terrifying at the same time.
Would I go back? No, I would not.
Undicisettembre is offering today its readers the personal account of first responder Craig Mazzara who was deployed to Ground Zero a few days after the attack and had worked there for months in the debris field.
We would like to thank Craig Mazzara for his kindess and his time.
Undicisettembre: Can you give us an account of what happened to you on 9/11 and the following days?
Craig Mazzara: On 9/11 I was home after working the night shift. At the time I had seven years on as a police officer with the NYPD, I was working in a city wide disorder control unit, our unit was a rapid mobilization unit for emergencies that local precincts couldn’t handle on their own: riots, demonstrations, protests, natural disasters, things like that.
I was sleeping when the first tower was struck and I got a phone call from my wife that woke me up. She said “Do you know what’s happening?”, I said “I was sleeping, I have no idea”, she said “Turn on the TV, you have to see”. I got up, I turned on the TV immediately and I saw the panic, the fear, the complete chaos that was happening at and around the World Trade Center. The first tower had been struck, the second tower hadn’t been struck yet. As the second tower was struck, I watched that on TV. My son was four at the time and he told me “Dad, what movie are you watching?” because he couldn’t believe that was a real thing. I started crying and said “Sam, this is real, this is happening”. At that moment my wife called me again and said “Do you have to go to work?” because she knew I was in the rapid response unit, I said “I haven’t got the call yet, but you have to go to Logan’s school”, Logan is my older daughter who was six, “and get her out” because at that point we had no idea what was going to be considered a hard or a soft target. The general idea was that wherever there was a group of civilians, that was a soft target; anywhere there was a big commercial hub, governmental facilities or military facilities would be a hard target. I was in panic, I was screaming.
I hung up with my wife, she was going to get our daughter out of school, I turned my attention back to the TV and I watched the first tower come down. I continued to fall into deeper stages of disbelief, continuing not to believe that this was happening. I called my unit and got the training sergeant on the phone and asked “Steve, what are we doing?”. With my unit there are different levels of mobilization that go from one to four which is the most critical that means that all personnel assigned to the unit and all off duty personnel have to respond. Steve said "There’s no word yet, we are in contact with headquarters, we’ll let you know as soon as we receive an order.” When my wife got home I was ready to suit up and go downtown myself if my unit wasn’t going to call me in. As frightening as it was, I wanted to be there, I was hit by a feeling of regret that I was not there to respond and help civilians.
Not long after my phone rang. Steve said “Craig, level four. You have to get down here.” I was ready to go and both my wife and I were very tearful because we didn’t know if I was going to come back. I kissed my wife and my children as if I was never going to see them again. I jumped in my car and I was listening to the radio, as anyone else was doing, and I realized the highways were shut down because Manhattan had been sealed off. People leaving were either being ferried out or walking out of the Manhattan through bridges or tunnels, but no car could leave. So as I got to the parkway I realized I was not going to get through and I started to see a stream of cars driving fifty or sixty miles an hour on a grassy shoulder on the right side definitely not meant for traffic.
I thought “They all must be first responders, they must be military, cops, firefighters” so I worked my way through traffic to get in that lane. When I got to my precinct it was more chaotic than I’ve ever seen: people flying into the parking lot, running out of their cars, scrambling into the station to immediately grab their gear, everything. Whoever had a second gun took their second gun, whoever had a third gun would grab their third gun. We were sure we were going to be suited up and go to Ground Zero. There were sixty of us there but we were told by our commanding officer that because we had two airports that were hard targets, JFK and LaGuardia, in our borough Queens South, we had to stay there to guard those hard targets. That news was like getting hit in the head with a bat, it was devastating, we felt useless.
Before we deployed to the airport there was this guy we worked with, his name is Mitch, who was a few blocks away from the World Trade Center off duty but in uniform, but instead of reporting to a commander on scene he walked out of Manhattan with the civilians, it took him six or seven hours. He was white covered with dust. He opened the door and we looked at him as if he was a spirit from the grave, we couldn’t believe what we were looking at because we wanted to go there so desperately and here was a guy who was there and chose to leave instead of helping. I was disgusted.
For the next few days we were guarding our hard targets. Then on Friday they said “Look, we are looking for volunteers to go boots on the ground at Ground Zero to assist in search and recovery efforts”. I immediately jumped on the opportunity because I wanted to go and feel like I was doing something. I went with another cop, Matt, and our sergeant Dan; the three of us reported Sunday early morning not knowing how long we would have been there.
For the first few months after 9/11 we worked sixteen hours shifts. When you saw the debris field and the scope of the destruction, it knocks the wind out of you, as if you are trying to breath in a vacuum. It was days later and they had found no survivors, but I was convinced that people buried alive could have been found even then, as it happens days later in earthquakes or mudslides. We reported to a gathering point, we received filtration respirators and we were given instructions to go to a site commander at Ground Zero and they would instruct us from there. We did that and we ended up in what we called the “bucket brigade”, a line of a couple of hundred cops at least snaking from the tip of the pile of debris till the far end of the site. At that point they hadn’t brought in any heavy equipment because I think there still was the thought “Maybe we’ll find somebody alive or a dead body intact that we can recover. Or even just a memento such as a wallet, a watch, a wedding ring.”
At night it was very cold. I was the second person from the top of the pile, the point, and I remember someone tapped the officer on the point on his shoulder and said “You’re done”. He stood up with a shell shock look in his eyes, his body was there but mentally he was 100% not with us there. That look in his eyes, that hollowness, so frightened the officer in front of me that he said “I can’t do this, I’m not doing this” and he left too. At that moment, they called me forward and I took my place on the point of the debris pile. Even though it was very cold, you started pouring sweat because, as I found out later, there were still fires raging under us. So we were sweating from head to feet but at the same time we were freezing cold.
I can’t tell you how long I had been there, because I also disassociated like the officer in front of me. I had left my body behind and didn’t even realize where I was. Someone tapped on my shoulder as well and told me “It’s okay son, you’re done.” This guy was younger than me and he called me “son”. That was comforting somehow. I blankly gave him the shovel and bucket I was using and I wandered off the pile totally aimlessly, no direction, I felt like I couldn’t see and here is where it starts getting spotty for me because I remember walking down the pile but I don’t truly remember anything other than my friend Matt coming up to me, grabbing me and saying “Craig, are you okay?”. I was unresponsive and I don’t remember answering to him.
For some time after there was a rescue boat docked at the pier. It was a place for first responders to go to get hot coffee, a hot meal or clean clothes. Matt took me there, in that condition I would have never found it on my own, and there was a young brunette girl whom I never forget because of her kindness; she said “Officer, you look terrible and you have to be cold, we are going to help you” and she gave me a red Champion sweatshirt which I immediately put on. Twenty-one years later I still have that sweatshirt.
The hope that we might find a survivor or something useful was shattered once we got to the pile and understood the scope of what had happened. It was crushing, it was a debilitating hopelessness. From that day, that first disassociation, was the onset of my post traumatic stress disorder but I would go untreated for eighteen years.
Undicisettembre: How does 9/11 affect your life even today?
Craig Mazzara: I was recently, three years ago, diagnosed with post traumatic stress disorder but even before that I knew something was wrong, I knew I was no longer the same person. I wasn’t sure how and what had changed, but I was a lot angrier and constantly in a rage. I could fly into a rage for the smallest thing, I was always hyper-vigilant.
We worked sixteen hours shifts for several months after 9/11 and then we went to twelve hours shifts for about a year, and when you live with that constant pressure it becomes such an internal part of you that you carry it with you for the rest of your life. For the rest of your life you have to be aggressive and hyper-vigilant, you can’t show sign of letting up because you don’t want to be the weak link in the chain.
I was having nightmares, that rage that I couldn’t control and as a police officer as you can imagine it’s not a great thing. I had bouts of depression and I think that ties in with the hopelessness and helplessness that I felt. I definitely had what they call the survivor’s guilt, because two of my friends died in the rescue efforts in Ground Zero and I wondered “Why am I here when these other 2.600 other people lost their lives on that day?”. I felt guilty for being alive and that’s something I only recently started dealing with in a positive way with my therapist and my psychiatrist.
In 2019 I was having a conversation with a neighbor of mine and out of the blue she asked me “You were a cop in New York, right? Were you at Ground Zero?” I had disassociation again, I was off someplace else, very much like my physical body was able to continue that conversation with her, even a pretty coherent one, but it triggered something that caused for months a greater frequency of disassociation. I was having many more flashbacks and nightmares which were particularly graphic, violent and disturbing. So a few months later I thought it was PTSD and I took online quizzes and in everyone my score was off the charts, I had severe PTSD.
I had to do something, I couldn’t live like this; while driving I could suffer disassociation and I would be gone for like one mile, like space out and then jump back into my body. I could have killed somebody, I had to get help. I asked my physician what he knew about PTSD and I burst into tears, he put his hand on my shoulder and said “I don’t know much about it, but I know I’m going to get you some help”. He set me up a couple of appointments with a psychiatrist and a therapist, but as is pretty common the first mental health professional is not the right one for your specific case. I later found a psychiatrist who was a twenty-five year combat veteran who is exceptionally well versed in PTSD with military and first responders, and I also found a therapist who has six years experience with US military as a contractor and working mostly with first responders now. Both has been tremendously helpful to me in trying to live as a normal life as I can now.
9/11 unfortunately still is very haunting to me. I still have what is known in PTSD as “intrusive thoughts”, randomly through the day I would think of things such as the girl with the red sweatshirt, or if a cold breeze would hit me I remember how cold it was at Ground Zero, or the smell of an outdoor wood fire can remind me of the fires at Ground Zero. There are a lot of things that can trigger me and a lot of triggers that I’m not aware of that I’m trying to recognize. It hasn’t been easy for my family either, they have been very brave and loving as they try to help me work through this; I appreciate what they do, I’m sure I was not an easy guy to live with before 9/11 but PTSD takes your worst possible attributes and turns them all the way up.
Undicisettembre: Have you been to the 20th anniversary celebrations last year?
Craig Mazzara: I have not. But one of the things that we do here is we have commemorative ceremonies at our base of operations. We would get dressed in our uniforms, go out, salute the flag and have moment of silence for the people who lost their lives. This is what we do, but I have never attended one of the big celebrations.
After the clean up process at Ground Zero was finished, I couldn’t get myself in the vicinity of the World Trade Center until 2015 when I went to the memorial with my daughter. No surprise, I just cried thinking about everyone that was lost. But also, just being at that sacred ground brought back the memories of how it was; I was there looking at the pools but I could still see the pile and the debris field. It was beautiful and terrifying at the same time.
Would I go back? No, I would not.
World Trade Center: intervista a Craig Mazzara, membro delle squadre di primo intervento
di Leonardo Salvaggio. L'originale inglese è disponibile qui.
Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori il racconto personale dell'agente dell'NYPD Craig Mazzara che fu inviato a Ground Zero pochi giorni dopo gli attacchi e che vi rimase per mesi partecipando ai lavori di sgombero.
Ringraziamo Craig Mazzara per la sua gentilezza e la sua disponibilità.
Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l’11 settembre e nei giorni seguenti?
Craig Mazzara: L’11 settembre ero a casa dopo aver fatto il turno di notte. Al tempo lavoravo da sette anni come agente di polizia dell’NYPD, ero in un’unità di controllo dei disordini che operava in tutta la città, la nostra era un’unità di mobilitazione rapida per le emergenze che i distretti locali non potevano gestire da soli: rivolte, manifestazioni, proteste, disastri naturali, cose del genere.
Stavo dormendo quando venne colpita la prima torre e ricevetti una telefonata da mia moglie che mi svegliò. Mi disse “Sai cosa sta succedendo?”, le dissi “Stavo dormendo, non ne ho idea”, disse “Accendi la TV, devi vedere”. Mi alzai, accesi immediatamente la TV e vidi il panico, la paura, il caos totale di ciò che stava avvenendo intorno al World Trade Center. La prima torre era stata colpita, la seconda torre non ancora. Quando venne colpita anche la seconda torre lo vidi in TV. Mio figlio all’epoca aveva quattro anni e mi disse “Papà, che film stai guardando?” perché non riusciva a credere che fosse una cosa reale. Iniziai a piangere e dissi “Sam, è reale, sta succedendo davvero”. In quel momento mia moglie mi chiamò di nuovo e mi disse: “Devi entrare in servizio?” poiché sapeva che ero nell’unità di risposta rapida, dissi “Non ho ancora ricevuto la chiamata, ma vai alla alla scuola di Logan”, Logan è mia figlia maggiore che aveva sei anni, “e portala a casa” perché in quel momento non avevamo idea di cosa sarebbe stato considerato un obiettivo sensibile o uno non sensibile. L’idea generale era che ovunque ci fosse un gruppo di civili era un obiettivo non sensibile; ovunque ci fosse un grande centro commerciale, strutture governative o militari era un obiettivo sensibile. Ero in preda al panico, urlavo.
Chiusi la telefonata con mia moglie, avrebbe portato mia figlia a casa da scuola, riportai l’attenzione alla TV e vidi la prima torre crollare. Stavo cadendo in stadi di incredulità sempre più profondi, continuando a non credere che ciò stesse accadendo davvero. Chiamai la mia unità e chiesi di parlare con il sergente responsabile della formazione e chiesi “Steve, cosa facciamo?”. Nella mia unità ci sono diversi livelli di mobilitazione che vanno da uno a quattro, che è il più critico e che significa che tutto il personale in servizio e tutto il personale fuori servizio deve rispondere. Steve disse “Non lo sappiamo ancora, siamo in contatto con la sede, ti facciamo sapere non appena riceviamo un ordine”. Quando mia moglie tornò a casa, stavo per prepararmi ad andare sulla scena da solo se la mia unità non mi avesse chiamato. Per quanto fosse spaventoso, volevo essere lì, mi sentivo in colpa per il fatto di non stare andando lì ad aiutare.
Poco dopo il mio telefono squillò. Steve disse “Craig, livello quattro. Devi venire qua.” Ero pronto per andare e sia io sia mia moglie eravamo in lacrime perché non sapevamo se sarei tornato. Baciai mia moglie e i miei figli come se ci dovessimo più rivedere. Saltai in macchina e accesi la radio della polizia, come stava facendo chiunque altro, e scoprii che le autostrade erano chiuse perché Manhattan era stata isolata. Le persone uscivano con i traghetti o a piedi attraverso ponti o tunnel, ma nessuna macchina poteva uscire. Così, quando arrivai sulla strada statale, mi resi conto che non sarei potuto passato e vidi un flusso di macchine che andavano a ottanta o cento chilometri orari su una banchina erbosa sul lato destro che di sicuro non era destinata al traffico.
Pensai “Devono essere tutti soccorritori, militari, poliziotti, vigili del fuoco”, quindi mi feci strada nel traffico per infilarmi in quella corsia. Quando arrivai al mio distretto era più caotico che mai: persone che arrivavano freneticamente nel parcheggio, correvano fuori dalle loro auto ed entravano nella stazione per prendere immediatamente la loro attrezzatura, qualunque cosa. Chiunque avesse una seconda pistola prendeva la seconda pistola, chiunque avesse una terza pistola prendeva la terza pistola. Eravamo sicuri che avremmo dovuto preparaci e andare a Ground Zero. Eravamo in sessanta, ma il nostro ufficiale in comando ci disse che poiché c’erano due aeroporti che erano obiettivi sensibili, JFK e LaGuardia, nel nostro distretto di Queens South, dovevamo rimanere lì a proteggere quegli obiettivi. Quella notizia fu come essere colpiti in testa con una mazza, fu devastante, ci sentimmo inutili.
Prima che uscissimo per andare agli aeroporti arrivò un nostro collega che si chiama Mitch e che si era trovato a pochi isolati dal World Trade Center fuori servizio ma in uniforme, e invece di riferire a un comandante sul posto era uscito da Manhattan con i civili e gli ci erano volute sei o sette ore per arrivare alla stazione. Era bianco coperto di polvere. Aprì la porta e lo guardammo come se fosse uno spirito dall’oltretomba, non potevamo credere a quello che stavamo guardando perché noi volevamo disperatamente andare sulla scena e lui che era lì aveva scelto di andarsene invece che di aiutare. Ero disgustato.
Nei giorni successivi rimanemmo di guardia agli obiettivi sensibili che ci erano stati assegnati. Poi venerdì ci dissero “Stiamo cercando volontari per andare sul campo a Ground Zero ad aiutare nei lavori di ricerca e recupero”. Colsi al volo l’opportunità perché volevo andare e sentirmi come se stessi facendo qualcosa. Andai con un altro poliziotto, Matt, e il nostro sergente Dan; ci presentammo domenica mattina presto senza sapere per quanto tempo saremmo stati lì.
Per i primi mesi dopo l’11 settembre lavorammo su turni di sedici ore. La vista del campo di detriti e la dimensione della distruzione toglieva il respiro, era come cercare di respirare nel vuoto. Erano passati giorni e non avevano trovato sopravvissuti, ma ero convinto sarebbe stato possibile trovare persone sepolte vive anche allora, come accade giorni dopo nei casi di terremoti o smottamenti di fango. Ci presentammo a un punto di raccolta, ci vennero dati respiratori filtranti e ci diedero istruzioni di riferire a un comandante a Ground Zero e da lì ci avrebbero dato indicazioni. Facemmo così e finimmo in quella che venne denominata la “brigata del secchio”, una fila di circa duecento poliziotti che serpeggiava dalla punta della pila di detriti fino all’estremità del sito. In quel momento non erano state portate attrezzature pesanti perché ancora si pensava “Forse troveremo qualcuno vivo o un cadavere intatto che possiamo recuperare. O anche solo un ricordo come un portafoglio, un orologio, una fede nuziale”.
Di notte faceva molto freddo. Ero la seconda persona in cima alla pila e ricordo che qualcuno toccò la spalla dell’ufficiale davanti a me e gli disse “Hai finito”. Lui si alzò con uno sguardo scioccato negli occhi, il suo corpo era lì ma mentalmente non era del tutto lì con noi. Quello sguardo nei suoi occhi, quel vuoto, spaventò così tanto l’ufficiale di fronte a me che disse “Non riesco, me ne vado” e anche lui se ne andò. In quel momento mi chiamarono per farmi avanzare e presi il posto sulla punta del cumulo di detriti. Anche se faceva molto freddo, cominciai a sudare perché, come scoprii in seguito, c’erano ancora dei fuochi che bruciavano sotto di noi. Quindi stavamo sudando dalla testa ai piedi ma allo stesso tempo stavamo gelando.
Non so dirti da quanto tempo rimasi lì, perché anche io mi dissociavo come l’ufficiale che era davanti a me. Mi separavo dal mio corpo e non mi rendevo nemmeno conto di dove fossi. Qualcuno toccò anche me sulla spalla e mi disse “Va tutto bene figliolo, hai finito”. Questo ragazzo era più giovane di me e mi chiamava “figliolo”. In qualche modo era confortante. Gli diedi subito la pala e il secchio che stavo usando e mi allontanai dal mucchio senza meta, senza direzione, mi sentivo come se non vedessi ed è qui che inizia a diventare difficile da ricordare per me perché ricordo di essere sceso dal mucchio ma non ricordo nient’altro che il mio amico Matt che mi si è avvicinò, mi prese e mi disse “Craig, stai bene?”. Non ero responsivo e non ricordo di avergli risposto.
C’è stato per un po’ di tempo un battello di salvataggio attraccato al molo. Era un posto dove i primi soccorritori si recavano per prendere un caffè caldo, un pasto caldo o vestiti puliti. Matt mi portò lì, in quelle condizioni non l’avrei mai trovato da solo, e c’era una giovane ragazza bruna che non dimenticherò mai per la sua gentilezza; mi disse “Agente, hai un aspetto terribile e credo che tu abbia freddo, siamo qui per aiutarti” e mi ha diede una felpa rossa della Champion che indossai subito. Ventun anni dopo ho ancora quella felpa.
La speranza che avremmo potuto trovare qualche sopravvissuto o qualcosa di utile andò in frantumi quando arrivammo alla pila e capimmo la portata di ciò che era successo. Era schiacciante, era una disperazione debilitante. Quel giorno, quella prima dissociazione, fu l’inizio del mio disturbo da stress post traumatico, ma non mi sono curato per altri diciotto anni.
Undicisettembre: In che modo l’11 settembre influisce sulla tua vita anche oggi?
Craig Mazzara: Recentemente, tre anni fa, mi è stato diagnosticato il disturbo da stress post traumatico, ma anche prima sapevo che c’era qualcosa che non andava, sapevo di non essere più la stessa persona. Non ero sicuro di cosa e come fosse cambiato, ma ero molto rabbioso e costantemente in collera. Potevo andare su tutte le furie per la cosa più piccola, ero sempre molto suscettibile.
Abbiamo lavorato su turni di sedici ore per molti mesi dopo l’11 settembre e poi passammo a turni di dodici ore per circa un anno, e quando vivi con quella pressione costante diventa una parte così intima di te che te la porti appresso per il resto del la tua vita. Per il resto della tua vita devi essere aggressivo e ipervigile, non puoi mostrare segni di cedimento perché non vuoi essere l’anello debole della catena.
Avevo incubi, una rabbia che non riuscivo a controllare e per un agente di polizia come puoi immaginare non va per niente bene. Avevo attacchi di depressione e penso che si ricollegasse alla disperazione e all’impotenza che ho provato. Ho sicuramente avuto il cosiddetto "senso di colpa del sopravvissuto", perché due miei amici sono morti durante i soccorsi a Ground Zero e mi chiedevo “Perché sono qui quando altre 2.600 altre persone hanno perso la vita quel giorno?”. Mi sentivo in colpa di essere vivo ed è una cosa che solo di recente ho iniziato ad affrontare in modo positivo con il mio terapeuta e il mio psichiatra.
Nel 2019 stavo parlando con una mia vicina e di punto in bianco mi chiese “Eri un poliziotto a New York, giusto? Sei stato a Ground Zero?” Ho avuto di nuovo la dissociazione, ero fuori di me da qualche altra parte, il mio corpo fisico era in grado di continuare quella conversazione, anche in modo abbastanza coerente, ma ha innescato qualcosa che ha causato per mesi una maggiore frequenza di dissociazione. Avevo molti altri flashback e incubi particolarmente espliciti, violenti e inquietanti. Alcuni mesi dopo pensai che potesse essere stress post traumatico, ho fatto dei test online e in tutti ottenevo un punteggio fuori scala, avevo un grave disturbo da stress post-traumatico.
Dovevo fare qualcosa, non potevo vivere così; mentre guidavo potevo soffrire di dissociazione e avrei potuto guidare per un miglio mentre ero fuori di me e poi tornare nel mio corpo. Avrei potuto uccidere qualcuno, dovevo chiedere aiuto. Chiesi al mio medico cosa sapesse del disturbo da stress post-traumatico e scoppiai in lacrime, mi mise una mano sulla spalla e disse “Non ne so molto, ma so che ti aiuterò”. Mi ha fissato un paio di appuntamenti con uno psichiatra e un terapista, ma come è abbastanza comune il primo professionista per la salute mentale può non essere quello giusto per il tuo caso specifico. In seguito ho trovato uno psichiatra che era un veterano di guerra con venticinque anni di esperienza che è sorprendentemente esperto nel trattare lo stress post traumatico con militari e primi soccorritori, e ho anche trovato un terapeuta che ha sei anni di esperienza con le forze armate statunitensi come appaltatore e che ora lavora principalmente con i soccorritori. Entrambi mi sono stati incredibilmente utili nell’aiutarmi a vivere una vita normale come faccio oggi.
Sfortunatamente, l’11 settembre è ancora molto ossessionante per me. Ho ancora quelli che sono conosciuti nell’ambito dello stress post-traumatico come “pensieri intrusivi”, improvvisamente durante il giorno mi vengono in mente cose come la ragazza con la felpa rossa, o se sento una brezza fredda mi ricordo quanto faceva freddo a Ground Zero, o l’odore di un fuoco di legna all’aperto mi ricorda gli incendi di Ground Zero. Ci sono molte cose che possono farmi scattare e molti fattori scatenanti di cui non sono consapevole e che sto cercando di riconoscere. Non è stato facile nemmeno per la mia famiglia, sono stati molto coraggiosi e amorevoli mentre cercavano di aiutarmi a superare questo problema; apprezzo quello che fanno, sono sicuro che non ero una persona facile con cui convivere già prima dell’11 settembre, ma il disturbo da stress post-traumatico esaspera gli aspetti negativi di una persona.
Undicisettembre: Sei stato alle celebrazioni per il ventesimo anniversario l’anno scorso?
Craig Mazzara: No, non ci sono andato. Ma una cosa che facciamo qui è tenere cerimonie commemorative alla nostra base operativa. Indossiamo le divise, usciamo, salutiamo la bandiera e osserviamo un momento di silenzio per le persone che hanno perso la vita. Questo è ciò che facciamo, ma non ho mai partecipato a una delle grandi celebrazioni.
Dopo che è finito il lavoro di sgombero a Ground Zero, non mi sono sentito di andare nelle vicinanze del World Trade Center fino al 2015, quando sono andato al memoriale con mia figlia. Come era ovvio ho pianto pensando a tutti quelli che sono morti. Ma anche il solo fatto di essere su quel terreno sacro mi ha riportato alla mente i ricordi di come era; ero lì a guardare le fontane ma vedevo ancora la pila e la distesa dei detriti. È stato bello e terrificante allo stesso tempo.
Ci tornerei? No, non tornerei.
Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori il racconto personale dell'agente dell'NYPD Craig Mazzara che fu inviato a Ground Zero pochi giorni dopo gli attacchi e che vi rimase per mesi partecipando ai lavori di sgombero.
Ringraziamo Craig Mazzara per la sua gentilezza e la sua disponibilità.
Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l’11 settembre e nei giorni seguenti?
Craig Mazzara: L’11 settembre ero a casa dopo aver fatto il turno di notte. Al tempo lavoravo da sette anni come agente di polizia dell’NYPD, ero in un’unità di controllo dei disordini che operava in tutta la città, la nostra era un’unità di mobilitazione rapida per le emergenze che i distretti locali non potevano gestire da soli: rivolte, manifestazioni, proteste, disastri naturali, cose del genere.
Stavo dormendo quando venne colpita la prima torre e ricevetti una telefonata da mia moglie che mi svegliò. Mi disse “Sai cosa sta succedendo?”, le dissi “Stavo dormendo, non ne ho idea”, disse “Accendi la TV, devi vedere”. Mi alzai, accesi immediatamente la TV e vidi il panico, la paura, il caos totale di ciò che stava avvenendo intorno al World Trade Center. La prima torre era stata colpita, la seconda torre non ancora. Quando venne colpita anche la seconda torre lo vidi in TV. Mio figlio all’epoca aveva quattro anni e mi disse “Papà, che film stai guardando?” perché non riusciva a credere che fosse una cosa reale. Iniziai a piangere e dissi “Sam, è reale, sta succedendo davvero”. In quel momento mia moglie mi chiamò di nuovo e mi disse: “Devi entrare in servizio?” poiché sapeva che ero nell’unità di risposta rapida, dissi “Non ho ancora ricevuto la chiamata, ma vai alla alla scuola di Logan”, Logan è mia figlia maggiore che aveva sei anni, “e portala a casa” perché in quel momento non avevamo idea di cosa sarebbe stato considerato un obiettivo sensibile o uno non sensibile. L’idea generale era che ovunque ci fosse un gruppo di civili era un obiettivo non sensibile; ovunque ci fosse un grande centro commerciale, strutture governative o militari era un obiettivo sensibile. Ero in preda al panico, urlavo.
Chiusi la telefonata con mia moglie, avrebbe portato mia figlia a casa da scuola, riportai l’attenzione alla TV e vidi la prima torre crollare. Stavo cadendo in stadi di incredulità sempre più profondi, continuando a non credere che ciò stesse accadendo davvero. Chiamai la mia unità e chiesi di parlare con il sergente responsabile della formazione e chiesi “Steve, cosa facciamo?”. Nella mia unità ci sono diversi livelli di mobilitazione che vanno da uno a quattro, che è il più critico e che significa che tutto il personale in servizio e tutto il personale fuori servizio deve rispondere. Steve disse “Non lo sappiamo ancora, siamo in contatto con la sede, ti facciamo sapere non appena riceviamo un ordine”. Quando mia moglie tornò a casa, stavo per prepararmi ad andare sulla scena da solo se la mia unità non mi avesse chiamato. Per quanto fosse spaventoso, volevo essere lì, mi sentivo in colpa per il fatto di non stare andando lì ad aiutare.
Poco dopo il mio telefono squillò. Steve disse “Craig, livello quattro. Devi venire qua.” Ero pronto per andare e sia io sia mia moglie eravamo in lacrime perché non sapevamo se sarei tornato. Baciai mia moglie e i miei figli come se ci dovessimo più rivedere. Saltai in macchina e accesi la radio della polizia, come stava facendo chiunque altro, e scoprii che le autostrade erano chiuse perché Manhattan era stata isolata. Le persone uscivano con i traghetti o a piedi attraverso ponti o tunnel, ma nessuna macchina poteva uscire. Così, quando arrivai sulla strada statale, mi resi conto che non sarei potuto passato e vidi un flusso di macchine che andavano a ottanta o cento chilometri orari su una banchina erbosa sul lato destro che di sicuro non era destinata al traffico.
Pensai “Devono essere tutti soccorritori, militari, poliziotti, vigili del fuoco”, quindi mi feci strada nel traffico per infilarmi in quella corsia. Quando arrivai al mio distretto era più caotico che mai: persone che arrivavano freneticamente nel parcheggio, correvano fuori dalle loro auto ed entravano nella stazione per prendere immediatamente la loro attrezzatura, qualunque cosa. Chiunque avesse una seconda pistola prendeva la seconda pistola, chiunque avesse una terza pistola prendeva la terza pistola. Eravamo sicuri che avremmo dovuto preparaci e andare a Ground Zero. Eravamo in sessanta, ma il nostro ufficiale in comando ci disse che poiché c’erano due aeroporti che erano obiettivi sensibili, JFK e LaGuardia, nel nostro distretto di Queens South, dovevamo rimanere lì a proteggere quegli obiettivi. Quella notizia fu come essere colpiti in testa con una mazza, fu devastante, ci sentimmo inutili.
Prima che uscissimo per andare agli aeroporti arrivò un nostro collega che si chiama Mitch e che si era trovato a pochi isolati dal World Trade Center fuori servizio ma in uniforme, e invece di riferire a un comandante sul posto era uscito da Manhattan con i civili e gli ci erano volute sei o sette ore per arrivare alla stazione. Era bianco coperto di polvere. Aprì la porta e lo guardammo come se fosse uno spirito dall’oltretomba, non potevamo credere a quello che stavamo guardando perché noi volevamo disperatamente andare sulla scena e lui che era lì aveva scelto di andarsene invece che di aiutare. Ero disgustato.
Nei giorni successivi rimanemmo di guardia agli obiettivi sensibili che ci erano stati assegnati. Poi venerdì ci dissero “Stiamo cercando volontari per andare sul campo a Ground Zero ad aiutare nei lavori di ricerca e recupero”. Colsi al volo l’opportunità perché volevo andare e sentirmi come se stessi facendo qualcosa. Andai con un altro poliziotto, Matt, e il nostro sergente Dan; ci presentammo domenica mattina presto senza sapere per quanto tempo saremmo stati lì.
Per i primi mesi dopo l’11 settembre lavorammo su turni di sedici ore. La vista del campo di detriti e la dimensione della distruzione toglieva il respiro, era come cercare di respirare nel vuoto. Erano passati giorni e non avevano trovato sopravvissuti, ma ero convinto sarebbe stato possibile trovare persone sepolte vive anche allora, come accade giorni dopo nei casi di terremoti o smottamenti di fango. Ci presentammo a un punto di raccolta, ci vennero dati respiratori filtranti e ci diedero istruzioni di riferire a un comandante a Ground Zero e da lì ci avrebbero dato indicazioni. Facemmo così e finimmo in quella che venne denominata la “brigata del secchio”, una fila di circa duecento poliziotti che serpeggiava dalla punta della pila di detriti fino all’estremità del sito. In quel momento non erano state portate attrezzature pesanti perché ancora si pensava “Forse troveremo qualcuno vivo o un cadavere intatto che possiamo recuperare. O anche solo un ricordo come un portafoglio, un orologio, una fede nuziale”.
Di notte faceva molto freddo. Ero la seconda persona in cima alla pila e ricordo che qualcuno toccò la spalla dell’ufficiale davanti a me e gli disse “Hai finito”. Lui si alzò con uno sguardo scioccato negli occhi, il suo corpo era lì ma mentalmente non era del tutto lì con noi. Quello sguardo nei suoi occhi, quel vuoto, spaventò così tanto l’ufficiale di fronte a me che disse “Non riesco, me ne vado” e anche lui se ne andò. In quel momento mi chiamarono per farmi avanzare e presi il posto sulla punta del cumulo di detriti. Anche se faceva molto freddo, cominciai a sudare perché, come scoprii in seguito, c’erano ancora dei fuochi che bruciavano sotto di noi. Quindi stavamo sudando dalla testa ai piedi ma allo stesso tempo stavamo gelando.
Non so dirti da quanto tempo rimasi lì, perché anche io mi dissociavo come l’ufficiale che era davanti a me. Mi separavo dal mio corpo e non mi rendevo nemmeno conto di dove fossi. Qualcuno toccò anche me sulla spalla e mi disse “Va tutto bene figliolo, hai finito”. Questo ragazzo era più giovane di me e mi chiamava “figliolo”. In qualche modo era confortante. Gli diedi subito la pala e il secchio che stavo usando e mi allontanai dal mucchio senza meta, senza direzione, mi sentivo come se non vedessi ed è qui che inizia a diventare difficile da ricordare per me perché ricordo di essere sceso dal mucchio ma non ricordo nient’altro che il mio amico Matt che mi si è avvicinò, mi prese e mi disse “Craig, stai bene?”. Non ero responsivo e non ricordo di avergli risposto.
C’è stato per un po’ di tempo un battello di salvataggio attraccato al molo. Era un posto dove i primi soccorritori si recavano per prendere un caffè caldo, un pasto caldo o vestiti puliti. Matt mi portò lì, in quelle condizioni non l’avrei mai trovato da solo, e c’era una giovane ragazza bruna che non dimenticherò mai per la sua gentilezza; mi disse “Agente, hai un aspetto terribile e credo che tu abbia freddo, siamo qui per aiutarti” e mi ha diede una felpa rossa della Champion che indossai subito. Ventun anni dopo ho ancora quella felpa.
La speranza che avremmo potuto trovare qualche sopravvissuto o qualcosa di utile andò in frantumi quando arrivammo alla pila e capimmo la portata di ciò che era successo. Era schiacciante, era una disperazione debilitante. Quel giorno, quella prima dissociazione, fu l’inizio del mio disturbo da stress post traumatico, ma non mi sono curato per altri diciotto anni.
Undicisettembre: In che modo l’11 settembre influisce sulla tua vita anche oggi?
Craig Mazzara: Recentemente, tre anni fa, mi è stato diagnosticato il disturbo da stress post traumatico, ma anche prima sapevo che c’era qualcosa che non andava, sapevo di non essere più la stessa persona. Non ero sicuro di cosa e come fosse cambiato, ma ero molto rabbioso e costantemente in collera. Potevo andare su tutte le furie per la cosa più piccola, ero sempre molto suscettibile.
Abbiamo lavorato su turni di sedici ore per molti mesi dopo l’11 settembre e poi passammo a turni di dodici ore per circa un anno, e quando vivi con quella pressione costante diventa una parte così intima di te che te la porti appresso per il resto del la tua vita. Per il resto della tua vita devi essere aggressivo e ipervigile, non puoi mostrare segni di cedimento perché non vuoi essere l’anello debole della catena.
Avevo incubi, una rabbia che non riuscivo a controllare e per un agente di polizia come puoi immaginare non va per niente bene. Avevo attacchi di depressione e penso che si ricollegasse alla disperazione e all’impotenza che ho provato. Ho sicuramente avuto il cosiddetto "senso di colpa del sopravvissuto", perché due miei amici sono morti durante i soccorsi a Ground Zero e mi chiedevo “Perché sono qui quando altre 2.600 altre persone hanno perso la vita quel giorno?”. Mi sentivo in colpa di essere vivo ed è una cosa che solo di recente ho iniziato ad affrontare in modo positivo con il mio terapeuta e il mio psichiatra.
Nel 2019 stavo parlando con una mia vicina e di punto in bianco mi chiese “Eri un poliziotto a New York, giusto? Sei stato a Ground Zero?” Ho avuto di nuovo la dissociazione, ero fuori di me da qualche altra parte, il mio corpo fisico era in grado di continuare quella conversazione, anche in modo abbastanza coerente, ma ha innescato qualcosa che ha causato per mesi una maggiore frequenza di dissociazione. Avevo molti altri flashback e incubi particolarmente espliciti, violenti e inquietanti. Alcuni mesi dopo pensai che potesse essere stress post traumatico, ho fatto dei test online e in tutti ottenevo un punteggio fuori scala, avevo un grave disturbo da stress post-traumatico.
Dovevo fare qualcosa, non potevo vivere così; mentre guidavo potevo soffrire di dissociazione e avrei potuto guidare per un miglio mentre ero fuori di me e poi tornare nel mio corpo. Avrei potuto uccidere qualcuno, dovevo chiedere aiuto. Chiesi al mio medico cosa sapesse del disturbo da stress post-traumatico e scoppiai in lacrime, mi mise una mano sulla spalla e disse “Non ne so molto, ma so che ti aiuterò”. Mi ha fissato un paio di appuntamenti con uno psichiatra e un terapista, ma come è abbastanza comune il primo professionista per la salute mentale può non essere quello giusto per il tuo caso specifico. In seguito ho trovato uno psichiatra che era un veterano di guerra con venticinque anni di esperienza che è sorprendentemente esperto nel trattare lo stress post traumatico con militari e primi soccorritori, e ho anche trovato un terapeuta che ha sei anni di esperienza con le forze armate statunitensi come appaltatore e che ora lavora principalmente con i soccorritori. Entrambi mi sono stati incredibilmente utili nell’aiutarmi a vivere una vita normale come faccio oggi.
Sfortunatamente, l’11 settembre è ancora molto ossessionante per me. Ho ancora quelli che sono conosciuti nell’ambito dello stress post-traumatico come “pensieri intrusivi”, improvvisamente durante il giorno mi vengono in mente cose come la ragazza con la felpa rossa, o se sento una brezza fredda mi ricordo quanto faceva freddo a Ground Zero, o l’odore di un fuoco di legna all’aperto mi ricorda gli incendi di Ground Zero. Ci sono molte cose che possono farmi scattare e molti fattori scatenanti di cui non sono consapevole e che sto cercando di riconoscere. Non è stato facile nemmeno per la mia famiglia, sono stati molto coraggiosi e amorevoli mentre cercavano di aiutarmi a superare questo problema; apprezzo quello che fanno, sono sicuro che non ero una persona facile con cui convivere già prima dell’11 settembre, ma il disturbo da stress post-traumatico esaspera gli aspetti negativi di una persona.
Undicisettembre: Sei stato alle celebrazioni per il ventesimo anniversario l’anno scorso?
Craig Mazzara: No, non ci sono andato. Ma una cosa che facciamo qui è tenere cerimonie commemorative alla nostra base operativa. Indossiamo le divise, usciamo, salutiamo la bandiera e osserviamo un momento di silenzio per le persone che hanno perso la vita. Questo è ciò che facciamo, ma non ho mai partecipato a una delle grandi celebrazioni.
Dopo che è finito il lavoro di sgombero a Ground Zero, non mi sono sentito di andare nelle vicinanze del World Trade Center fino al 2015, quando sono andato al memoriale con mia figlia. Come era ovvio ho pianto pensando a tutti quelli che sono morti. Ma anche il solo fatto di essere su quel terreno sacro mi ha riportato alla mente i ricordi di come era; ero lì a guardare le fontane ma vedevo ancora la pila e la distesa dei detriti. È stato bello e terrificante allo stesso tempo.
Ci tornerei? No, non tornerei.
2022/09/11
World Trade Center: an interview with first responder David Blacksberg
di Leonardo Salvaggio. An Italian translation is available here.
On the twenty-first anniversary of the attacks of 9/11, Undicisettembre is offering its readers the personal account of first responder David Blacksberg who back then was working an EMT for the Fire Department of New York City as was deployed to the scene before the crash of the second plane.
We would like to thank David Blacksberg for his kindness and availability.
Undicisettembre: Can you give me a general account of what you saw and experienced on 9/11?
David Blacksberg: At that time I worked for the EMS of the Fire Department of New York as an EMT. I was not supposed to be working that day, but the day prior a colleague of mine told me she was not going to be at work because she had a doctor’s appointment and she asked if I could fill in for her, of course I said yes.
On the morning of September 11, 2001 I was parked in the ambulance with my partner close to the Brooklyn Bridge, facing Manhattan. We were just waiting for any calls that might come in; we had an ALS unit, a paramedic ambulance, right next to us.
While we were facing Manhattan we saw the first plane go into the first building, we saw it in the sky even before it hit the building. We were all shocked by that, I called on the radio and told the dispatcher what happened and said we were responding. I knew my father was working in Manhattan that day so I called him and let know not to go downtown, something happened and it wasn’t safe and I would be in touch. After we crossed the Brooklyn Bridge, my partner and I along with the ALS unit were first on the west side. I was the driver and I parked underneath the pedestrian walkway going from Winter Garden to 2 World Financial Center.
We set up an incident command post there, we put our helmets and turnout coats on and we were going to get into Tower 2 to coordinate the response and to get people to evacuate, because the building that was hit was so close. I was just outside the South Tower when we felt some rumbling so we looked up, and there was the second plane coming in. It looked like we could touch it because it was so close and so big. The ground started shaking and there was a very loud noise, I’m still affected by the noises and the shaking, I still remember them very clearly. At that point we started to rush everybody out.
There were people running all over the place, many of them were running towards us and away from the towers. I started coordinating ambulances. I worked to help triage and treat people, among whom a person who was very badly burned, then I went over the radio to inform everybody where the incident command post was set up and that we had started receiving people that were coming out of the buildings. I don't know whether they heard me or not, because there was a whole lot of chaos.
The ALS unit took the burn victim to the Burn center at Cornell Hospital, I wouldn’t see those colleagues for at least two weeks, we all thought the other had perished and embraced each other when we finally met. My partner and I remained at the scene by ourselves just getting overloaded with a whole lot of patients, and we had no idea if we were going to get more help. People were arriving with different kind of injuries: burns, cuts, bruises and some people were running just scared.
Everybody was saying “There's more people coming” or “There's somebody down in front of the building”. I tried getting closer to the building, but there was a whole lot of debris coming down. We didn't even know what it was. I guess it was metal, and papers and computers, I remember seeing computer stuff on the ground. There were bodies everywhere. We saw and heard people jumping from the building and everyone who was running away was screaming, it was a helpless feeling. Someone said, "There's somebody that's still moving. Somebody is alive" and I also saw a dog that was tied up in front of the building, so I got closer again. I got hit with some debris and I decided not to go.
A couple of units started approaching, I told them where we had set up the staging area, I went back with them and once the vehicles were set up we heard some rumbling. There were already a lot of rumors that a third plane was coming in, so we looked up but there was no plane. It was the South Tower which started to collapse. My partner and I started running together with other people. I looked back, it was like an avalanche, because you could see the smoke and everything tumbling right at you. You couldn't see up, you couldn't see back, and no matter how fast you ran, you wouldn't be able to out run it. It felt like we had run a mile but it was slightly more than just across the street, we went into a building and ducked next to an interior wall. When the rumbling seemed to be over, we went outside to help more people, providing treatment where we could with the little equipment we had in our emergency bags.
Everybody was panicking and we tried to calm people down. One girl was telling me she was from the 63rd floor, and another one was from the 84th. They told me that they ran down and they were still wearing high heels. We tried to joke around a little bit like “How in the world are you running with these shoes on?” even though it wasn't really a joking situation, but you had to calm everybody down.
After a while we heard the rumbling again and people started grabbing my arms. A person was holding my left arm, another person was holding my right arm and a line of people were behind us. I started running and I led them south towards the ferries. We found buses in Battery Park City, I put people on those buses and told them “You’ll be safe!”. I ran back to the command post, but I had to leave it again to take more people away to safety. I took them to the ferries where they were taken to Ellis Island, Jersey City and Staten Island. Then I again I went back.
From this moment my timeline becomes very blurred and it’s difficult to remember when things took place and how.
I was there the first 48 hours: all day on the 11th and all day on the 12th straight, with no rest. On the night of the 11th I tried to rest on the second floors of one of the buildings at Ground Zero. I tried to sit back and relax but there was so much going on that I didn’t sleep at all, so I went back and started to help again. I did have a personal communications plan and my cellphone was working so I contacted two people: my sister, who contacted my family, and my best friend, who contacted all my friends. I was also deeply touched that some close friends reached out to check on me those first two days.
I was on the east side treating patients and we also had a lot of firefighters and police officers from NYPD that we were treating as well. We were very hungry and thirsty, and for the first days we had no equipment like masks, it was very difficult to see and breathe. Everything was stuck in our noses and throats, eyes, mouths, face and everything; so we were taking water and washing everybody as much as we could. After two days I found my ambulance, completely covered in dust, I put my shirt over my face and my nose and I drove back to the station; I could not find anybody else from my station because in the chaos we got separated. When I got there it was a scary moment because we didn’t know who was alive and who wasn’t, I was welcomed with open arms; everyone thought that I had perished.
I had been there at least three days a week till March. During that time we were able to check in with some of the supervisors, lieutenants and captains to let them know we were okay.
Undicisettembre: Did you see World Trade Center 7 collapsing?
David Blacksberg: I did not see it, but I heard it and felt it. I was treating people and we assumed there were more buildings that would be coming down, we thought we were at a safe distance. But I did feel the ground moving.
Undicisettembre: While there on 9/11 when did you guys understand it wasn’t an accident but a terrorist attack?
David Blacksberg: We knew, or at least we felt it was intentional right away. When we saw the first plane going in it looked to us it was intentional, just from the angle the plane was turning. When we were at the site and saw the second plane coming in, that was the confirmation for everybody.
Undicisettembre: Were you guys expecting the towers to collapse? Or maybe you didn’t even have time to think of this possibility?
David Blacksberg: In all the experiences I had of responding to disasters and emergencies there are things we don’t really think about, but plan for and prepare for. I never expected the towers to come down, but I was conscious it was possible. If you have a huge jetliner going into a huge building, there’s the potential for almost anything to happen.
I responded to many different fires, explosions and medical emergencies and this was unique because of the magnitude.
Undicisettembre: You had been to Ground Zero till March, which is seven months. What did you guys do in that period?
David Blacksberg: Our role was to help treat any of the first responders, such as firefighters, police officers, and others who may become injured during the search and rescue and eventually search and recovery efforts. There were times that we were also part of the bucket brigade, but that wasn’t our main function; they were picking up remains we took those remains and brought them to the coordination of on-site morgue.
Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life even today?
David Blacksberg: I am reminded of it all the time, because I did get sick from the air and I retired on disability.
We didn’t have masks and equipment that EMS and firefighters have today, so I went through a number of medical exams afterward, also because I had some minor injury to my knee and my elbow. They followed me for a couple of years and saw how I was becoming affected, I was informed that I had developed some lung issues because of the breathing and I was then retired on disability. I have to take medicine everyday and I follow up with the doctors every year.
Undicisettembre: Now that you live in California do you ever go back to the site?
David Blacksberg: Yes, I go back to New York every year. When I go back to see my family and my friends I make an effort to go back to the site. I bring my children, my son is ten and my daughter is eight, and I explain to them what happened. They have no problems asking me questions and I have no problems telling them about it.
I already went twice this year, one of the times was on New Year’s Day. I brought my children, my nephews and my niece. My nephews and niece don’t know all the details from me, so I started to share more with them about what I experienced.
I go back because of the people that I know and knew who are suffering through injuries or illness or my colleagues and others who perished. I don’t have to go back to keep them in my mind and heart, I go back to keep the memory and meaning of what we did and how we came together as a nation afterwards. While I was there last December I received a notice that another colleague of mine had passed that week from cancer caused by 9/11. I go back to memorialize and to make sure I don’t forget. Nobody should forget and we should all work together. After 9/11 the United States of America truly became united, but the more distant you become from an incident that brought people together the more people get separated. I try to make sure that people stay together with any role that I can play. I moved to California seven years ago and it’s very interesting from what I share to know how people here tell me how they were affected, even if they were all the way across the country they were united with their communities. I speak at my children’s elementary school and any other engagement to share my experience of responding and being prepared.
Undicisettembre: How do you think the nation lives today? Is it more secure than in 2001 or do you think something of the sort can happen again?
David Blacksberg: It doesn’t matter where you live. In the Unites States or the rest of North America, in Europe, in Asia, so long as someone thinks differently or wants power, some may resort to terrorism or war to gain what they feel is right. Absolutely an intentional, terrorist incident or war of this magnitude or worse can happen again, there’s no doubt. It’s just a matter of being prepared, aware and alert, and making sure everybody is working together. Being ready starts from the individual and involves local entities as well as state and federal agencies. It truly is vital to have a collaborative working relationship. It improves everyday.
Injuries and death don’t necessarily require using a physical weapon anymore, they can be caused by cyberattacks. If somebody uses a cyberattack to affect the electrical grid or other infrastructure society relies on, they can affect millions of people. Turning off the electricity affects everyone: businesses and healthcare systems down to the individual who relies on electrical medical aid, they can perish. So it’s not necessarily face-to-face combat, but also someone behind a computer who can cause harm. The same can be done by infiltrating water supplies to create illness. There are so many different ways to affect the health, safety and wellbeing of the individual and the country.
It is really important to know the various hazards you may be vulnerable to in your home community or where you may be visiting. I want to encourage everyone to have a communications plan, health and safety plan, at least one bag with essential supplies and documents and to test that plan. There is so much you can do to help yourself, your family and your community. Just one thing a day can make a difference in how you may be affected by a man-made or natural disaster.
If somebody wants do to something harmful there’s always a way, but it’s a matter of being ready to respond to that.
On the twenty-first anniversary of the attacks of 9/11, Undicisettembre is offering its readers the personal account of first responder David Blacksberg who back then was working an EMT for the Fire Department of New York City as was deployed to the scene before the crash of the second plane.
We would like to thank David Blacksberg for his kindness and availability.
Undicisettembre: Can you give me a general account of what you saw and experienced on 9/11?
David Blacksberg: At that time I worked for the EMS of the Fire Department of New York as an EMT. I was not supposed to be working that day, but the day prior a colleague of mine told me she was not going to be at work because she had a doctor’s appointment and she asked if I could fill in for her, of course I said yes.
On the morning of September 11, 2001 I was parked in the ambulance with my partner close to the Brooklyn Bridge, facing Manhattan. We were just waiting for any calls that might come in; we had an ALS unit, a paramedic ambulance, right next to us.
While we were facing Manhattan we saw the first plane go into the first building, we saw it in the sky even before it hit the building. We were all shocked by that, I called on the radio and told the dispatcher what happened and said we were responding. I knew my father was working in Manhattan that day so I called him and let know not to go downtown, something happened and it wasn’t safe and I would be in touch. After we crossed the Brooklyn Bridge, my partner and I along with the ALS unit were first on the west side. I was the driver and I parked underneath the pedestrian walkway going from Winter Garden to 2 World Financial Center.
We set up an incident command post there, we put our helmets and turnout coats on and we were going to get into Tower 2 to coordinate the response and to get people to evacuate, because the building that was hit was so close. I was just outside the South Tower when we felt some rumbling so we looked up, and there was the second plane coming in. It looked like we could touch it because it was so close and so big. The ground started shaking and there was a very loud noise, I’m still affected by the noises and the shaking, I still remember them very clearly. At that point we started to rush everybody out.
Photo credit: David Blacksberg |
There were people running all over the place, many of them were running towards us and away from the towers. I started coordinating ambulances. I worked to help triage and treat people, among whom a person who was very badly burned, then I went over the radio to inform everybody where the incident command post was set up and that we had started receiving people that were coming out of the buildings. I don't know whether they heard me or not, because there was a whole lot of chaos.
The ALS unit took the burn victim to the Burn center at Cornell Hospital, I wouldn’t see those colleagues for at least two weeks, we all thought the other had perished and embraced each other when we finally met. My partner and I remained at the scene by ourselves just getting overloaded with a whole lot of patients, and we had no idea if we were going to get more help. People were arriving with different kind of injuries: burns, cuts, bruises and some people were running just scared.
Everybody was saying “There's more people coming” or “There's somebody down in front of the building”. I tried getting closer to the building, but there was a whole lot of debris coming down. We didn't even know what it was. I guess it was metal, and papers and computers, I remember seeing computer stuff on the ground. There were bodies everywhere. We saw and heard people jumping from the building and everyone who was running away was screaming, it was a helpless feeling. Someone said, "There's somebody that's still moving. Somebody is alive" and I also saw a dog that was tied up in front of the building, so I got closer again. I got hit with some debris and I decided not to go.
A couple of units started approaching, I told them where we had set up the staging area, I went back with them and once the vehicles were set up we heard some rumbling. There were already a lot of rumors that a third plane was coming in, so we looked up but there was no plane. It was the South Tower which started to collapse. My partner and I started running together with other people. I looked back, it was like an avalanche, because you could see the smoke and everything tumbling right at you. You couldn't see up, you couldn't see back, and no matter how fast you ran, you wouldn't be able to out run it. It felt like we had run a mile but it was slightly more than just across the street, we went into a building and ducked next to an interior wall. When the rumbling seemed to be over, we went outside to help more people, providing treatment where we could with the little equipment we had in our emergency bags.
Everybody was panicking and we tried to calm people down. One girl was telling me she was from the 63rd floor, and another one was from the 84th. They told me that they ran down and they were still wearing high heels. We tried to joke around a little bit like “How in the world are you running with these shoes on?” even though it wasn't really a joking situation, but you had to calm everybody down.
Photo credit: David Blacksberg |
After a while we heard the rumbling again and people started grabbing my arms. A person was holding my left arm, another person was holding my right arm and a line of people were behind us. I started running and I led them south towards the ferries. We found buses in Battery Park City, I put people on those buses and told them “You’ll be safe!”. I ran back to the command post, but I had to leave it again to take more people away to safety. I took them to the ferries where they were taken to Ellis Island, Jersey City and Staten Island. Then I again I went back.
From this moment my timeline becomes very blurred and it’s difficult to remember when things took place and how.
I was there the first 48 hours: all day on the 11th and all day on the 12th straight, with no rest. On the night of the 11th I tried to rest on the second floors of one of the buildings at Ground Zero. I tried to sit back and relax but there was so much going on that I didn’t sleep at all, so I went back and started to help again. I did have a personal communications plan and my cellphone was working so I contacted two people: my sister, who contacted my family, and my best friend, who contacted all my friends. I was also deeply touched that some close friends reached out to check on me those first two days.
I was on the east side treating patients and we also had a lot of firefighters and police officers from NYPD that we were treating as well. We were very hungry and thirsty, and for the first days we had no equipment like masks, it was very difficult to see and breathe. Everything was stuck in our noses and throats, eyes, mouths, face and everything; so we were taking water and washing everybody as much as we could. After two days I found my ambulance, completely covered in dust, I put my shirt over my face and my nose and I drove back to the station; I could not find anybody else from my station because in the chaos we got separated. When I got there it was a scary moment because we didn’t know who was alive and who wasn’t, I was welcomed with open arms; everyone thought that I had perished.
I had been there at least three days a week till March. During that time we were able to check in with some of the supervisors, lieutenants and captains to let them know we were okay.
Photo credit: David Blacksberg |
Undicisettembre: Did you see World Trade Center 7 collapsing?
David Blacksberg: I did not see it, but I heard it and felt it. I was treating people and we assumed there were more buildings that would be coming down, we thought we were at a safe distance. But I did feel the ground moving.
Undicisettembre: While there on 9/11 when did you guys understand it wasn’t an accident but a terrorist attack?
David Blacksberg: We knew, or at least we felt it was intentional right away. When we saw the first plane going in it looked to us it was intentional, just from the angle the plane was turning. When we were at the site and saw the second plane coming in, that was the confirmation for everybody.
Undicisettembre: Were you guys expecting the towers to collapse? Or maybe you didn’t even have time to think of this possibility?
David Blacksberg: In all the experiences I had of responding to disasters and emergencies there are things we don’t really think about, but plan for and prepare for. I never expected the towers to come down, but I was conscious it was possible. If you have a huge jetliner going into a huge building, there’s the potential for almost anything to happen.
I responded to many different fires, explosions and medical emergencies and this was unique because of the magnitude.
Undicisettembre: You had been to Ground Zero till March, which is seven months. What did you guys do in that period?
David Blacksberg: Our role was to help treat any of the first responders, such as firefighters, police officers, and others who may become injured during the search and rescue and eventually search and recovery efforts. There were times that we were also part of the bucket brigade, but that wasn’t our main function; they were picking up remains we took those remains and brought them to the coordination of on-site morgue.
Undicisettembre: How does 9/11 affect your everyday life even today?
David Blacksberg: I am reminded of it all the time, because I did get sick from the air and I retired on disability.
We didn’t have masks and equipment that EMS and firefighters have today, so I went through a number of medical exams afterward, also because I had some minor injury to my knee and my elbow. They followed me for a couple of years and saw how I was becoming affected, I was informed that I had developed some lung issues because of the breathing and I was then retired on disability. I have to take medicine everyday and I follow up with the doctors every year.
Photo Credit: David Blacksberg |
Undicisettembre: Now that you live in California do you ever go back to the site?
David Blacksberg: Yes, I go back to New York every year. When I go back to see my family and my friends I make an effort to go back to the site. I bring my children, my son is ten and my daughter is eight, and I explain to them what happened. They have no problems asking me questions and I have no problems telling them about it.
I already went twice this year, one of the times was on New Year’s Day. I brought my children, my nephews and my niece. My nephews and niece don’t know all the details from me, so I started to share more with them about what I experienced.
I go back because of the people that I know and knew who are suffering through injuries or illness or my colleagues and others who perished. I don’t have to go back to keep them in my mind and heart, I go back to keep the memory and meaning of what we did and how we came together as a nation afterwards. While I was there last December I received a notice that another colleague of mine had passed that week from cancer caused by 9/11. I go back to memorialize and to make sure I don’t forget. Nobody should forget and we should all work together. After 9/11 the United States of America truly became united, but the more distant you become from an incident that brought people together the more people get separated. I try to make sure that people stay together with any role that I can play. I moved to California seven years ago and it’s very interesting from what I share to know how people here tell me how they were affected, even if they were all the way across the country they were united with their communities. I speak at my children’s elementary school and any other engagement to share my experience of responding and being prepared.
Undicisettembre: How do you think the nation lives today? Is it more secure than in 2001 or do you think something of the sort can happen again?
David Blacksberg: It doesn’t matter where you live. In the Unites States or the rest of North America, in Europe, in Asia, so long as someone thinks differently or wants power, some may resort to terrorism or war to gain what they feel is right. Absolutely an intentional, terrorist incident or war of this magnitude or worse can happen again, there’s no doubt. It’s just a matter of being prepared, aware and alert, and making sure everybody is working together. Being ready starts from the individual and involves local entities as well as state and federal agencies. It truly is vital to have a collaborative working relationship. It improves everyday.
Injuries and death don’t necessarily require using a physical weapon anymore, they can be caused by cyberattacks. If somebody uses a cyberattack to affect the electrical grid or other infrastructure society relies on, they can affect millions of people. Turning off the electricity affects everyone: businesses and healthcare systems down to the individual who relies on electrical medical aid, they can perish. So it’s not necessarily face-to-face combat, but also someone behind a computer who can cause harm. The same can be done by infiltrating water supplies to create illness. There are so many different ways to affect the health, safety and wellbeing of the individual and the country.
It is really important to know the various hazards you may be vulnerable to in your home community or where you may be visiting. I want to encourage everyone to have a communications plan, health and safety plan, at least one bag with essential supplies and documents and to test that plan. There is so much you can do to help yourself, your family and your community. Just one thing a day can make a difference in how you may be affected by a man-made or natural disaster.
If somebody wants do to something harmful there’s always a way, but it’s a matter of being ready to respond to that.
World Trade Center: intervista al soccorritore David Blacksberg
di Leonardo Salvaggio. L'originale in inglese è disponibile qui.
Nel ventunesimo anniversario degli attentati dell'11/9, Undicisettembre offre ai suoi lettori il racconto personale del soccorritore David Blacksberg che al tempo lavorava nell'unità per le emergenze mediche del dipartimento dei pompieri di New York e che intervenne sulla scena prima dello schianto del secondo aereo.
Ringraziamo David Blacksberg per la sua gentilezza e disponibilità.
Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l'11 settembre?
David Blacksberg: Al tempo lavoravo per il servizio per le emergenze mediche dei vigili fuoco di New York come soccorritore. Quel giorno non avrei dovuto essere al lavoro, ma il giorno prima una mia collega mi disse che non sarebbe venuta al lavoro perché aveva una visita dal medico e mi chiese se potevo sostituirla, ovviamente le dissi di sì.
La mattina dell’11 settembre ero con il mio partner sull’ambulanza parcheggiata vicino al ponte di Brooklyn, e da lì vedevamo Manhattan. Eravamo in attesa di qualunque chiamata che potesse arrivare, c’era un’unità paramedica con un’automedica proprio accanto a noi.
Mentre guardavamo verso Manhattan vedemmo il primo aereo schiantarsi contro il primo palazzo, lo vedemmo in cielo ancor prima che colpisse. Rimanemmo tutti scioccati, chiamai alla radio per dire al centralinista cosa era successo e gli dissi che saremmo intervenuti. Sapevo che mio padre quel giorno era al lavoro a Manhattan quindi lo chiamai per digli di non andare a downtown, era successo qualcosa e sarebbe stato pericoloso, lo avrei richiamato per dare informazioni. Dopo aver attraversato il ponte di Brooklyn, il mio partner e io con l’unità paramedica eravamo i primi soccorritori sul lato occidentale. Io guidavo e parcheggiai sotto il passaggio pedonale che collegava il Winter Garden al 2 World Financial Center.
Allestimmo un posto di comando lì stesso, indossammo gli elmetti e l’equipaggiamento protettivo con l’intenzione di entrare nella Torre 2 per coordinare i soccorsi e per far evacuare le persone, perché l'edificio colpito era vicinissimo. Ero appena fuori dalla Torre Sud quando sentimmo un rombo, alzammo lo sguardo e vedemmo il secondo aereo. Sembrava che potessimo toccarlo perché era così vicino e così grande. Il terreno iniziò a tremare e ci fu un rumore molto forte, mi danno ancora fastidio quel rumore e quel tremore, li ricordo ancora molto chiaramente. A quel punto iniziammo a far uscire tutti più in fretta possibile.
C'era gente che correva dappertutto, molti correvano verso di noi allontanandosi dalle torri. Iniziai a coordinare le ambulanze, aiutai lo smistamento e a curare i feriti, tra cui una persona che era gravemente ustionata, poi comunicai via radio dove era allestito il posto di comando e che avevamo iniziato a ricevere persone che uscivano dagli edifici. Non so se mi sentirono o no, perché c'era un caos enorme.
La nostra unità paramedica portò la vittima ustionata al centro per le ustioni del Cornell Hospital, non rividi quei colleghi per almeno altre due settimane, pensammo tutti che fossero morti e ci abbracciammo quando ci rivedemmo. Io e il mio partner rimanemmo lì da soli e finimmo per essere sommersi di gente da curare e non avevamo idea se avremmo ricevuto aiuto. Le persone arrivavano con diversi tipi di ferite: ustioni, tagli, lividi e alcune persone correvano solo in preda alla paura.
Tutti dicevano "Stanno arrivando altri feriti" o "Ci sono persone a terra davanti alla torre". Provai ad avvicinarmi all'edificio, ma c'erano molti detriti che cadevano. Non sapevamo nemmeno cosa fosse. Immagino fosse metallo, documenti e pezzi di computer, ricordo di aver visto materiale informatico per terra. C'erano corpi dappertutto. Vedemmo e sentimmo persone saltare dall'edificio e tutti gli altri scappavano urlando, mi sentivo impotente. Qualcuno disse: "C'è qualcuno a terra che si muove ancora. Qualcuno è ancora vivo" e vidi anche un cane legato davanti all'edificio, quindi provai ad avvicinarmi di nuovo. Venni colpito da alcuni detriti e decisi di non andarci.
Un paio di altre unità iniziarono ad avvicinarsi, dissi loro dove avevamo allestito l'area di comando perché non la trovavano, tornai con loro e una volta sistemati i veicoli sentimmo un boato. Giravano molte voci sul fatto che ci fosse un terzo aereo in arrivo, quindi alzammo lo sguardo ma non c'era nessun aereo. Era la Torre Sud che iniziava a crollare. Io e il mio collega iniziammo a correre insieme ad altre persone. Mi guardai indietro, era come una valanga, perché si vedeva il fumo e tutto ciò che stava crollando verso di noi. Non vedevamo in alto, non vedevamo indietro, e per quanto velocemente corressimo, non potevamo sfuggirle. Ci sembrò di di correre per un miglio, ma era appena oltre l’altro lato della strada, entrammo in un edificio e ci accovacciammo vicino a un muro interno. Quando il boato sembrò finito, uscimmo per aiutare altre persone, dando cure dove potevamo con la poca attrezzatura che avevamo nelle nostre borse di emergenza.
Tutti erano in preda al panico e cercammo di calmare le persone. Una ragazza mi disse che era scesa dal sessantatreesimo piano, un altra dall'ottantaquattresimo. Mi dissero che erano corse giù e indossavano ancora i tacchi alti. Provammo a scherzare un po' con frasi tipo "Ma come fai a correre con quelle scarpe?" anche se non era proprio una situazione adatta a scherzare, ma cercavamo di portare un po’ di calma.
Dopo un po' sentimmo di nuovo lo stesso boato e alcune persone mi presero un braccio. Una persona mi teneva il braccio sinistro, un'altra persona mi teneva il braccio destro e una fila di persone era dietro di noi. Iniziai a correre e li condussi a sud verso i traghetti. Trovammo degli autobus a Battery Park City, feci salire le persone su quegli autobus e dissi loro "Vi porteranno al sicuro!" Tornai di corsa al posto di comando, ma dovetti allontanarmi di nuovo per portare altre persone al sicuro. Li portai ai traghetti dove da dove furono trasferiti a Ellis Island, Jersey City e Staten Island. Poi tornai di nuovo indietro.
Da qui in poi i miei ricordi sono sfocati ed è difficile per me ricordare quando sono avvenute le cose e come.
Rimasi lì le prime 48 ore: tutto il giorno dell'11 e tutto il giorno del 12 senza sosta. La notte dell'11 cercai di riposare al secondo piano di uno degli edifici vicini a Ground Zero. Ho cercai di sedermi e rilassarmi, ma c'era così tanto da fare che non riuscii a dormire, quindi tornai e ricominciai ad aiutare. Avevo un cellulare personale che funzionava e quindi chiamai due persone: mia sorella, che poi contattò la mia famiglia, e il mio migliore amico, che contattò tutti i miei amici. Mi toccò molto il fatto che molti miei cari amici mi contattarono per sapere come stavo quei primi due giorni.
Ero sul lato est a curare i feriti tra cui cerano anche molti vigili del fuoco e poliziotti. Avevamo fame e sete, e per i primi giorni non avevamo attrezzature come i respiratori, era molto difficile respirare. Avevamo di tutto bloccato in naso, gola, occhi, bocca, viso e ovunque altro; prendevamo l'acqua cercavamo di lavarci tutti il più possibile. Dopo due giorni ritrovai la mia ambulanza, completamente ricoperta di polvere, mi misi la maglietta sul viso e sul naso e tornai alla mia stazione; non avevo trovato nessun altro della mia stazione perché nel caos ci siamo persi. Quando arrivai fu un momento spaventoso perché non sapevamo chi fosse vivo e chi no, fui accolto a braccia aperte perché tutti pensavano che fossi morto.
Rimasi lì tre giorni a settimana fino a marzo. Durante quel periodo potevamo contattare alcuni dei supervisori, luogotenenti e capitani per far loro sapere che stavamo bene.
Undicisettembre: Hai visto il crollo del World Trade Center 7?
David Blacksberg: Non l'ho visto, ma l'ho udito e ne ho sentito le vibrazioni. Stavo curando delle persone e ci aspettavamo che ci sarebbero stati altri edifici che sarebbero crollati, pensavamo di essere a distanza di sicurezza. Ma ho sentito il terreno muoversi.
Undicisettembre: Mentre eravate lì l'11 settembre, quando avete capito che non era un incidente ma un attentato terroristico?
David Blacksberg: Capimmo o ne avemmo la sensazione immediatamente. Quando vedemmo il primo aereo arrivare, ci sembrò che fosse intenzionale, proprio dal modo in cui l'aereo stava virando. Quando arrivammo sulla scena e vedemmo arrivare il secondo aereo, fu la conferma per tutti.
Undicisettembre: Vi aspettavate che le torri crollassero? O forse non hai nemmeno avuto il tempo di pensare a questa possibilità?
David Blacksberg: In tutte le esperienze che ho avuto di reazione a disastri ed emergenze, ci sono cose a cui non pensiamo costantemente, ma per le quali ci prepariamo. Non mi aspettavo che le torri crollassero, ma ero consapevole che fosse una possibilità. Se un enorme aereo di linea si schianta contro un edificio enorme può succedere di tutto.
Sono intervenuto in molti casi di incendi, esplosioni ed emergenze mediche ma questo è stato unico per via della sua grandezza.
Undicisettembre: Sei rimasto a Ground Zero fino a marzo, cioè sette mesi. Cosa avete fatto in quel periodo?
David Blacksberg: Il nostro compito era prestare cure ai soccorritori, come pompieri, agenti di polizia o altri che si erano feriti durante le operazioni di ricerca e soccorso che poi sono diventate ricerca e recupero. Ci sono state occasioni in cui abbiamo partecipato alla brigata del secchio, ma non era la nostra funzione principale; loro raccoglievano resti, noi prendevamo quei resti e li portavamo al coordinamento della gestione dei cadaveri.
Undicisettembre: In che modo l'11 settembre influisce sulla tua vita quotidiana anche oggi?
David Blacksberg: Ce l’ho sempre in mente, perché mi sono ammalato a causa dell’aria che ho respirato e ho avuto la pensione di invalidità.
Non avevamo le mascherine e le attrezzature che i soccorritori e i vigili del fuoco hanno oggi, quindi dovetti fare una serie di esami medici in seguito, anche perché riportai un lieve infortunio al ginocchio e al gomito. Mi seguirono per un paio d'anni e valutarono le mie condizioni, mi informarono che avevo sviluppato dei danni ai polmoni a causa di ciò che avevo respirato e quindi ho avuto la pensione di invalidità. Dovetti prendere medicine ogni anno e fare controlli medici annuali.
Undicisettembre: Ora che vivi in California torni mai al World Trade Center?
David Blacksberg: Sì, torno a New York tutti gli anni. Quando ci torno per andare a trovare la mia famiglia e i miei amici, vado anche al World Trade Center. Porto i miei figli, mio figlio ha dieci anni e mia figlia otto, e racconto loro ciò che è successo. Non hanno problemi a farmi domande e io non ho problemi a rispondere.
Quest’anno ci sono già andato due volte, una delle quali è stata per capodanno. Ci ho portato i miei figli e i miei nipoti. Ai miei nipoti non ho raccontato tutti i dettagli, quindi ho iniziato a raccontare anche a loro ciò che mi è successo.
Torno per via delle persone che conosco o conoscevo che soffrono ancora di infortuni o malattie o i miei colleghi o altri che sono morti. Non devo tornare lì per ricordarmi di loro e tenerli nella mente e nel cuore., torno per mantenere la memoria e il significato di ciò che abbiamo fatto e di come ci siamo uniti come nazione in seguito. Mentre ero lì lo scorso dicembre, ho ricevuto la notizia che un altro mio collega è morto quella settimana a causa di un tumore causato dall'11 settembre. Torno per commemorare e per assicurarmi di non dimenticare. Nessuno dovrebbe dimenticare e dovremmo tutti unirci e collaborare. Dopo l'11 settembre gli Stati Uniti d'America si sono davvero uniti, ma più ci si allontana da un incidente che ha unificato le persone, più le persone si separano. Ho cercato fare in modo che le persone si unissero con qualsiasi contributo potessi dare. Mi sono trasferito in California sette anni fa ed è molto interessante quando racconto cosa mi accadde sapere come le persone della zona mi dicono che si sono sentite colpite, anche se erano dall’altra parte della nazione si sono unite con le loro comunità. Ne parlo nella scuola elementare dove vanno i miei figli o in altre occasioni per condividere la mia esperienza nei soccorsi e nell’essere pronti.
Undicisettembre: Come pensi che viva oggi la nazione? È più sicura rispetto al 2001 o pensi che qualcosa del genere possa accadere di nuovo?
David Blacksberg: Non importa dove vivi. Negli Stati Uniti, nel resto del Nord America, in Europa, in Asia se c’è chi la pensa in modo diverso e vuole il potere, qualcuno può ricorrere al terrorismo o alla guerra per ottenere ciò che pensa sia giusto. Sicuramente un attentato terroristico internazionale o un atto di guerra di questa dimensione o maggiore può avvenire di nuovo, non c'è dubbio. È solo questione di essere preparati, consapevoli e vigili e assicurarsi che tutti collaborino. Essere pronti parte dal singolo e coinvolge le autorità locali come stati o agenzie federali. È fondamentale avere una relazione di fattiva collaborazione. Migliora di giorno in giorno.
Causare danni e morte non richiede più necessariamente l'uso di un'arma fisica, possono essere causati anche da attacchi informatici. Se qualcuno usa un attacco informatico per danneggiare una rete elettrica o un’altra infrastruttura su cui la società si appoggia può danneggiare milioni di persone. Togliere l'elettricità colpisce tutti: aziende e sistemi sanitari fino al singolo che dipende da un'assistenza medica elettrica, può uccidere. Quindi non si tratta necessariamente di un combattimento faccia a faccia, ma anche qualcuno che sta dietro lo schermo di un computer può causare danni. Lo stesso può essere fatto con infiltrazioni nelle riserve d'acqua per causare patologie. Ci sono tanti modi diversi di colpire la sanità e la sicurezza degli individui nella nazione.
È molto importante sapere a quali rischi si è vulnerabile nella propria comunità di origine o dove ci si trova in viaggio. Incoraggio tutti ad avere un piano di comunicazione, un piano per la salute e la sicurezza, almeno una borsa con forniture e documenti essenziali e a testare il proprio piano. C'è molto da fare per aiutare noi stessi, le nostre famiglie e le comunità. Anche una sola cosa al giorno può fare la differenza nel modo in cui si può essere colpiti da un disastro naturale o causato dall'uomo.
Se qualcuno vuole fare qualcosa di dannoso c'è sempre un modo di farlo e il problema è essere pronti a reagire.
Nel ventunesimo anniversario degli attentati dell'11/9, Undicisettembre offre ai suoi lettori il racconto personale del soccorritore David Blacksberg che al tempo lavorava nell'unità per le emergenze mediche del dipartimento dei pompieri di New York e che intervenne sulla scena prima dello schianto del secondo aereo.
Ringraziamo David Blacksberg per la sua gentilezza e disponibilità.
Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che hai visto e vissuto l'11 settembre?
David Blacksberg: Al tempo lavoravo per il servizio per le emergenze mediche dei vigili fuoco di New York come soccorritore. Quel giorno non avrei dovuto essere al lavoro, ma il giorno prima una mia collega mi disse che non sarebbe venuta al lavoro perché aveva una visita dal medico e mi chiese se potevo sostituirla, ovviamente le dissi di sì.
La mattina dell’11 settembre ero con il mio partner sull’ambulanza parcheggiata vicino al ponte di Brooklyn, e da lì vedevamo Manhattan. Eravamo in attesa di qualunque chiamata che potesse arrivare, c’era un’unità paramedica con un’automedica proprio accanto a noi.
Mentre guardavamo verso Manhattan vedemmo il primo aereo schiantarsi contro il primo palazzo, lo vedemmo in cielo ancor prima che colpisse. Rimanemmo tutti scioccati, chiamai alla radio per dire al centralinista cosa era successo e gli dissi che saremmo intervenuti. Sapevo che mio padre quel giorno era al lavoro a Manhattan quindi lo chiamai per digli di non andare a downtown, era successo qualcosa e sarebbe stato pericoloso, lo avrei richiamato per dare informazioni. Dopo aver attraversato il ponte di Brooklyn, il mio partner e io con l’unità paramedica eravamo i primi soccorritori sul lato occidentale. Io guidavo e parcheggiai sotto il passaggio pedonale che collegava il Winter Garden al 2 World Financial Center.
Allestimmo un posto di comando lì stesso, indossammo gli elmetti e l’equipaggiamento protettivo con l’intenzione di entrare nella Torre 2 per coordinare i soccorsi e per far evacuare le persone, perché l'edificio colpito era vicinissimo. Ero appena fuori dalla Torre Sud quando sentimmo un rombo, alzammo lo sguardo e vedemmo il secondo aereo. Sembrava che potessimo toccarlo perché era così vicino e così grande. Il terreno iniziò a tremare e ci fu un rumore molto forte, mi danno ancora fastidio quel rumore e quel tremore, li ricordo ancora molto chiaramente. A quel punto iniziammo a far uscire tutti più in fretta possibile.
Photo credit: David Blacksberg |
C'era gente che correva dappertutto, molti correvano verso di noi allontanandosi dalle torri. Iniziai a coordinare le ambulanze, aiutai lo smistamento e a curare i feriti, tra cui una persona che era gravemente ustionata, poi comunicai via radio dove era allestito il posto di comando e che avevamo iniziato a ricevere persone che uscivano dagli edifici. Non so se mi sentirono o no, perché c'era un caos enorme.
La nostra unità paramedica portò la vittima ustionata al centro per le ustioni del Cornell Hospital, non rividi quei colleghi per almeno altre due settimane, pensammo tutti che fossero morti e ci abbracciammo quando ci rivedemmo. Io e il mio partner rimanemmo lì da soli e finimmo per essere sommersi di gente da curare e non avevamo idea se avremmo ricevuto aiuto. Le persone arrivavano con diversi tipi di ferite: ustioni, tagli, lividi e alcune persone correvano solo in preda alla paura.
Tutti dicevano "Stanno arrivando altri feriti" o "Ci sono persone a terra davanti alla torre". Provai ad avvicinarmi all'edificio, ma c'erano molti detriti che cadevano. Non sapevamo nemmeno cosa fosse. Immagino fosse metallo, documenti e pezzi di computer, ricordo di aver visto materiale informatico per terra. C'erano corpi dappertutto. Vedemmo e sentimmo persone saltare dall'edificio e tutti gli altri scappavano urlando, mi sentivo impotente. Qualcuno disse: "C'è qualcuno a terra che si muove ancora. Qualcuno è ancora vivo" e vidi anche un cane legato davanti all'edificio, quindi provai ad avvicinarmi di nuovo. Venni colpito da alcuni detriti e decisi di non andarci.
Un paio di altre unità iniziarono ad avvicinarsi, dissi loro dove avevamo allestito l'area di comando perché non la trovavano, tornai con loro e una volta sistemati i veicoli sentimmo un boato. Giravano molte voci sul fatto che ci fosse un terzo aereo in arrivo, quindi alzammo lo sguardo ma non c'era nessun aereo. Era la Torre Sud che iniziava a crollare. Io e il mio collega iniziammo a correre insieme ad altre persone. Mi guardai indietro, era come una valanga, perché si vedeva il fumo e tutto ciò che stava crollando verso di noi. Non vedevamo in alto, non vedevamo indietro, e per quanto velocemente corressimo, non potevamo sfuggirle. Ci sembrò di di correre per un miglio, ma era appena oltre l’altro lato della strada, entrammo in un edificio e ci accovacciammo vicino a un muro interno. Quando il boato sembrò finito, uscimmo per aiutare altre persone, dando cure dove potevamo con la poca attrezzatura che avevamo nelle nostre borse di emergenza.
Tutti erano in preda al panico e cercammo di calmare le persone. Una ragazza mi disse che era scesa dal sessantatreesimo piano, un altra dall'ottantaquattresimo. Mi dissero che erano corse giù e indossavano ancora i tacchi alti. Provammo a scherzare un po' con frasi tipo "Ma come fai a correre con quelle scarpe?" anche se non era proprio una situazione adatta a scherzare, ma cercavamo di portare un po’ di calma.
Photo credit: David Blacksberg |
Dopo un po' sentimmo di nuovo lo stesso boato e alcune persone mi presero un braccio. Una persona mi teneva il braccio sinistro, un'altra persona mi teneva il braccio destro e una fila di persone era dietro di noi. Iniziai a correre e li condussi a sud verso i traghetti. Trovammo degli autobus a Battery Park City, feci salire le persone su quegli autobus e dissi loro "Vi porteranno al sicuro!" Tornai di corsa al posto di comando, ma dovetti allontanarmi di nuovo per portare altre persone al sicuro. Li portai ai traghetti dove da dove furono trasferiti a Ellis Island, Jersey City e Staten Island. Poi tornai di nuovo indietro.
Da qui in poi i miei ricordi sono sfocati ed è difficile per me ricordare quando sono avvenute le cose e come.
Rimasi lì le prime 48 ore: tutto il giorno dell'11 e tutto il giorno del 12 senza sosta. La notte dell'11 cercai di riposare al secondo piano di uno degli edifici vicini a Ground Zero. Ho cercai di sedermi e rilassarmi, ma c'era così tanto da fare che non riuscii a dormire, quindi tornai e ricominciai ad aiutare. Avevo un cellulare personale che funzionava e quindi chiamai due persone: mia sorella, che poi contattò la mia famiglia, e il mio migliore amico, che contattò tutti i miei amici. Mi toccò molto il fatto che molti miei cari amici mi contattarono per sapere come stavo quei primi due giorni.
Ero sul lato est a curare i feriti tra cui cerano anche molti vigili del fuoco e poliziotti. Avevamo fame e sete, e per i primi giorni non avevamo attrezzature come i respiratori, era molto difficile respirare. Avevamo di tutto bloccato in naso, gola, occhi, bocca, viso e ovunque altro; prendevamo l'acqua cercavamo di lavarci tutti il più possibile. Dopo due giorni ritrovai la mia ambulanza, completamente ricoperta di polvere, mi misi la maglietta sul viso e sul naso e tornai alla mia stazione; non avevo trovato nessun altro della mia stazione perché nel caos ci siamo persi. Quando arrivai fu un momento spaventoso perché non sapevamo chi fosse vivo e chi no, fui accolto a braccia aperte perché tutti pensavano che fossi morto.
Rimasi lì tre giorni a settimana fino a marzo. Durante quel periodo potevamo contattare alcuni dei supervisori, luogotenenti e capitani per far loro sapere che stavamo bene.
Photo credit: David Blacksberg |
Undicisettembre: Hai visto il crollo del World Trade Center 7?
David Blacksberg: Non l'ho visto, ma l'ho udito e ne ho sentito le vibrazioni. Stavo curando delle persone e ci aspettavamo che ci sarebbero stati altri edifici che sarebbero crollati, pensavamo di essere a distanza di sicurezza. Ma ho sentito il terreno muoversi.
Undicisettembre: Mentre eravate lì l'11 settembre, quando avete capito che non era un incidente ma un attentato terroristico?
David Blacksberg: Capimmo o ne avemmo la sensazione immediatamente. Quando vedemmo il primo aereo arrivare, ci sembrò che fosse intenzionale, proprio dal modo in cui l'aereo stava virando. Quando arrivammo sulla scena e vedemmo arrivare il secondo aereo, fu la conferma per tutti.
Undicisettembre: Vi aspettavate che le torri crollassero? O forse non hai nemmeno avuto il tempo di pensare a questa possibilità?
David Blacksberg: In tutte le esperienze che ho avuto di reazione a disastri ed emergenze, ci sono cose a cui non pensiamo costantemente, ma per le quali ci prepariamo. Non mi aspettavo che le torri crollassero, ma ero consapevole che fosse una possibilità. Se un enorme aereo di linea si schianta contro un edificio enorme può succedere di tutto.
Sono intervenuto in molti casi di incendi, esplosioni ed emergenze mediche ma questo è stato unico per via della sua grandezza.
Undicisettembre: Sei rimasto a Ground Zero fino a marzo, cioè sette mesi. Cosa avete fatto in quel periodo?
David Blacksberg: Il nostro compito era prestare cure ai soccorritori, come pompieri, agenti di polizia o altri che si erano feriti durante le operazioni di ricerca e soccorso che poi sono diventate ricerca e recupero. Ci sono state occasioni in cui abbiamo partecipato alla brigata del secchio, ma non era la nostra funzione principale; loro raccoglievano resti, noi prendevamo quei resti e li portavamo al coordinamento della gestione dei cadaveri.
Undicisettembre: In che modo l'11 settembre influisce sulla tua vita quotidiana anche oggi?
David Blacksberg: Ce l’ho sempre in mente, perché mi sono ammalato a causa dell’aria che ho respirato e ho avuto la pensione di invalidità.
Non avevamo le mascherine e le attrezzature che i soccorritori e i vigili del fuoco hanno oggi, quindi dovetti fare una serie di esami medici in seguito, anche perché riportai un lieve infortunio al ginocchio e al gomito. Mi seguirono per un paio d'anni e valutarono le mie condizioni, mi informarono che avevo sviluppato dei danni ai polmoni a causa di ciò che avevo respirato e quindi ho avuto la pensione di invalidità. Dovetti prendere medicine ogni anno e fare controlli medici annuali.
Photo Credit: David Blacksberg |
Undicisettembre: Ora che vivi in California torni mai al World Trade Center?
David Blacksberg: Sì, torno a New York tutti gli anni. Quando ci torno per andare a trovare la mia famiglia e i miei amici, vado anche al World Trade Center. Porto i miei figli, mio figlio ha dieci anni e mia figlia otto, e racconto loro ciò che è successo. Non hanno problemi a farmi domande e io non ho problemi a rispondere.
Quest’anno ci sono già andato due volte, una delle quali è stata per capodanno. Ci ho portato i miei figli e i miei nipoti. Ai miei nipoti non ho raccontato tutti i dettagli, quindi ho iniziato a raccontare anche a loro ciò che mi è successo.
Torno per via delle persone che conosco o conoscevo che soffrono ancora di infortuni o malattie o i miei colleghi o altri che sono morti. Non devo tornare lì per ricordarmi di loro e tenerli nella mente e nel cuore., torno per mantenere la memoria e il significato di ciò che abbiamo fatto e di come ci siamo uniti come nazione in seguito. Mentre ero lì lo scorso dicembre, ho ricevuto la notizia che un altro mio collega è morto quella settimana a causa di un tumore causato dall'11 settembre. Torno per commemorare e per assicurarmi di non dimenticare. Nessuno dovrebbe dimenticare e dovremmo tutti unirci e collaborare. Dopo l'11 settembre gli Stati Uniti d'America si sono davvero uniti, ma più ci si allontana da un incidente che ha unificato le persone, più le persone si separano. Ho cercato fare in modo che le persone si unissero con qualsiasi contributo potessi dare. Mi sono trasferito in California sette anni fa ed è molto interessante quando racconto cosa mi accadde sapere come le persone della zona mi dicono che si sono sentite colpite, anche se erano dall’altra parte della nazione si sono unite con le loro comunità. Ne parlo nella scuola elementare dove vanno i miei figli o in altre occasioni per condividere la mia esperienza nei soccorsi e nell’essere pronti.
Undicisettembre: Come pensi che viva oggi la nazione? È più sicura rispetto al 2001 o pensi che qualcosa del genere possa accadere di nuovo?
David Blacksberg: Non importa dove vivi. Negli Stati Uniti, nel resto del Nord America, in Europa, in Asia se c’è chi la pensa in modo diverso e vuole il potere, qualcuno può ricorrere al terrorismo o alla guerra per ottenere ciò che pensa sia giusto. Sicuramente un attentato terroristico internazionale o un atto di guerra di questa dimensione o maggiore può avvenire di nuovo, non c'è dubbio. È solo questione di essere preparati, consapevoli e vigili e assicurarsi che tutti collaborino. Essere pronti parte dal singolo e coinvolge le autorità locali come stati o agenzie federali. È fondamentale avere una relazione di fattiva collaborazione. Migliora di giorno in giorno.
Causare danni e morte non richiede più necessariamente l'uso di un'arma fisica, possono essere causati anche da attacchi informatici. Se qualcuno usa un attacco informatico per danneggiare una rete elettrica o un’altra infrastruttura su cui la società si appoggia può danneggiare milioni di persone. Togliere l'elettricità colpisce tutti: aziende e sistemi sanitari fino al singolo che dipende da un'assistenza medica elettrica, può uccidere. Quindi non si tratta necessariamente di un combattimento faccia a faccia, ma anche qualcuno che sta dietro lo schermo di un computer può causare danni. Lo stesso può essere fatto con infiltrazioni nelle riserve d'acqua per causare patologie. Ci sono tanti modi diversi di colpire la sanità e la sicurezza degli individui nella nazione.
È molto importante sapere a quali rischi si è vulnerabile nella propria comunità di origine o dove ci si trova in viaggio. Incoraggio tutti ad avere un piano di comunicazione, un piano per la salute e la sicurezza, almeno una borsa con forniture e documenti essenziali e a testare il proprio piano. C'è molto da fare per aiutare noi stessi, le nostre famiglie e le comunità. Anche una sola cosa al giorno può fare la differenza nel modo in cui si può essere colpiti da un disastro naturale o causato dall'uomo.
Se qualcuno vuole fare qualcosa di dannoso c'è sempre un modo di farlo e il problema è essere pronti a reagire.
2022/09/09
Intervista all'ex agente speciale dell’FBI Mark Rossini
di Leonardo Salvaggio
È disponibile sul mio canale YouTube una nuova intervista all'ex agente speciale dell'FBI Mark Rossini sulle responsabilità saudite negli attentati dell'11 settembre alla luce dei documenti emersi grazie all'ordine esecutivo 14040 con cui il Presidente Biden lo scorso anno ha ordinato la revisione e la desecretazione dei documenti relativi alle indagini sull'11/9.
L'intervista è disponibile solo in inglese.
È disponibile sul mio canale YouTube una nuova intervista all'ex agente speciale dell'FBI Mark Rossini sulle responsabilità saudite negli attentati dell'11 settembre alla luce dei documenti emersi grazie all'ordine esecutivo 14040 con cui il Presidente Biden lo scorso anno ha ordinato la revisione e la desecretazione dei documenti relativi alle indagini sull'11/9.
L'intervista è disponibile solo in inglese.
2022/08/29
Visita al 9/11 Memorial Museum
di Leonardo Salvaggio
Mancavo da New York da cinque anni, troppi. Infatti questo viaggio era previsto inizialmente per il 2020, ma la pandemia mi ha costretto a rimandarlo di due anni. Questa volta ho avuto il primo assaggio del World Trade Center il giorno prima rispetto alla prenotazione che avevo per il museo, quando uno dei sopravvissuti che ho intervistato recentemente mi ha permesso di visitare il suo ufficio all'Empire State Building dalle cui finestre (molto più ampie e luminose di quanto mi aspettassi e di quanto sembrano in foto quelle delle compiante Torri Gemelle) si vede tutta Manhattan nel suo strano connubio tra classico e nuovo che affianca ai palazzi storici come il Chrysler Building o il MetLife Building i nuovissimi supertall della 57esima Strada e il complesso di Hudson Park che si affaccia sul fiume omonimo verso il New Jersey. Le finestre del lato sud dell'Empire State Building offrono una vista mozzafiato, che potremmo definire cinematografica, sulla parte meridionale della città dietro a cui si staglia il nuovo One World Trade Center e il complesso degli altri edifici.
Il giorno dopo la gradita visita all'Empire State Building sono tornato per la terza volta al 9/11 Memorial Museum dove ho trovato la Plaza ancora molto simile a come la ricordavo dal precedente viaggio del 2017, con le due fontane che occupano il posto delle Torri Gemelle e che riportano sui bordi i nomi delle quasi tremila vittime. Attorno ad esse la vita della metropoli ha ripreso il suo ritmo, con la folla che cammina, si incontra o si ferma per una breve sosta. Mancano ancora tre degli edifici che comporranno il complesso definitivo: un performing center disegnato da Santiago Calatrava (autore anche di Oculus, la struttura da cui si accede alle stazioni dei mezzi di trasporto e al centro commerciale sottostante al World Trade Center) che è già in costruzione, e i palazzi 2 e 5 che verranno avviati quando ne verranno affittati gli spazi in modo da poterne finanziare i lavori. Ovviamente il COVID e il lavoro da remoto non hanno aiutato a sbloccare la situazione. Per ora del Two World Trade Center esiste solo la base, colorata esternamente con un allegro graffito, che viene utilizzata dalle società di costruzione per l'ingresso alle fondamenta. La Torre 2 sarà il secondo edificio più alto del complesso e quindi lo skyline della città cambierà ancora notevolmente; in realtà questo non sorprende più di tanto perché New York è in continua evoluzione. Ci sono cantieri praticamente ovunque che demoliscono e creano, e anche edifici storici come l'Hotel Pennsylvania, antistante al Madison Square Garden, sono prossimi alla demolizione per lasciare posto a costruzioni nuove.
L'ingresso al memoriale è al livello stradale, anche se il museo stesso si sviluppa sotto terra, sotto le fontane tra le fondamenta delle Torri Gemelle rimaste dov'erano. Pur essendo stato al memoriale già due volte (la prima nel 2014 poche settimane dopo l'apertura e la seconda tre anni dopo) la forza di quelle immagini e quelle voci arriva sempre forte come la prima volta. Mentre ci si muove tra la narrazione di quei tragici eventi e il ricordo delle vittime e degli eroi di quel giorno si sentono ovunque le registrazioni delle telefonate di chi chiedeva aiuto perché intrappolato tra le fiamme, di chi coordinava i soccorsi e di chi racconta dei propri amici e parenti perduti.
Ricordavo bene quasi tutto il materiale esposto, ma questa volta una cosa mi ha colpito in particolare: una foto di vari metri quadrati di persone che si gettano dalle torri in fiamme, una di loro però non si sta lasciando cadere ma è uscita dalla finestra e afferra con forza una delle colonne della facciata, forse in un disperato tentativo non di uccidersi ma di scendere lungo la parete esterna. Le persone al museo guardano sbigottite le immagini delle distruzione, immagini che magari non vedono da anni e mi chiedo che reazione avrei io se vedessi quell'orrore per la prima volta da quando questi eventi sono passati dalla cronaca alla storia.
A downtown però gli attentati sono solo un ricordo, per quanto vivido e doloroso. Il World Trade Center e l'adiacente Brookfield Place (noto fino al 2014 come World Financial Center) sono posti ricchi di attività commerciali e finanziarie e gli hub di trasporto sono sempre affollati di lavoratori che raggiungono i propri uffici. Se il World Trade Center e Wall Street sono strabordanti di attività, il resto della città non è da meno. New York è tuttora una delle capitali del jazz e del blues, è la città dove è nato l'hip hop ed è l'unica (insieme a Los Angeles) ad avere due squadre per ciascuna lega sportiva professionistica. Times Square è affollatissima a qualunque ora, tanto che è impossibile attraversarla senza prendersi almeno una spallata. Non è tutto oro ovviamente, perché anche senza andare in uno degli altri quattro boroughs la povertà si vede in faccia anche a Manhattan. Ma nonostante le contraddizioni e le commistione di stranezze di questa città, la resilienza dei suoi abitanti e del resto della nazione hanno dimostrato che i diciannove terroristi che ventuno anni fa volevano ucciderne l'economia e la vita hanno fallito nel loro obiettivo.
Mancavo da New York da cinque anni, troppi. Infatti questo viaggio era previsto inizialmente per il 2020, ma la pandemia mi ha costretto a rimandarlo di due anni. Questa volta ho avuto il primo assaggio del World Trade Center il giorno prima rispetto alla prenotazione che avevo per il museo, quando uno dei sopravvissuti che ho intervistato recentemente mi ha permesso di visitare il suo ufficio all'Empire State Building dalle cui finestre (molto più ampie e luminose di quanto mi aspettassi e di quanto sembrano in foto quelle delle compiante Torri Gemelle) si vede tutta Manhattan nel suo strano connubio tra classico e nuovo che affianca ai palazzi storici come il Chrysler Building o il MetLife Building i nuovissimi supertall della 57esima Strada e il complesso di Hudson Park che si affaccia sul fiume omonimo verso il New Jersey. Le finestre del lato sud dell'Empire State Building offrono una vista mozzafiato, che potremmo definire cinematografica, sulla parte meridionale della città dietro a cui si staglia il nuovo One World Trade Center e il complesso degli altri edifici.
La punta meridionale di Manhattan vista dall'Empire State Building |
Il giorno dopo la gradita visita all'Empire State Building sono tornato per la terza volta al 9/11 Memorial Museum dove ho trovato la Plaza ancora molto simile a come la ricordavo dal precedente viaggio del 2017, con le due fontane che occupano il posto delle Torri Gemelle e che riportano sui bordi i nomi delle quasi tremila vittime. Attorno ad esse la vita della metropoli ha ripreso il suo ritmo, con la folla che cammina, si incontra o si ferma per una breve sosta. Mancano ancora tre degli edifici che comporranno il complesso definitivo: un performing center disegnato da Santiago Calatrava (autore anche di Oculus, la struttura da cui si accede alle stazioni dei mezzi di trasporto e al centro commerciale sottostante al World Trade Center) che è già in costruzione, e i palazzi 2 e 5 che verranno avviati quando ne verranno affittati gli spazi in modo da poterne finanziare i lavori. Ovviamente il COVID e il lavoro da remoto non hanno aiutato a sbloccare la situazione. Per ora del Two World Trade Center esiste solo la base, colorata esternamente con un allegro graffito, che viene utilizzata dalle società di costruzione per l'ingresso alle fondamenta. La Torre 2 sarà il secondo edificio più alto del complesso e quindi lo skyline della città cambierà ancora notevolmente; in realtà questo non sorprende più di tanto perché New York è in continua evoluzione. Ci sono cantieri praticamente ovunque che demoliscono e creano, e anche edifici storici come l'Hotel Pennsylvania, antistante al Madison Square Garden, sono prossimi alla demolizione per lasciare posto a costruzioni nuove.
La base del World Trade Center 2 in costruzione |
L'ingresso al memoriale è al livello stradale, anche se il museo stesso si sviluppa sotto terra, sotto le fontane tra le fondamenta delle Torri Gemelle rimaste dov'erano. Pur essendo stato al memoriale già due volte (la prima nel 2014 poche settimane dopo l'apertura e la seconda tre anni dopo) la forza di quelle immagini e quelle voci arriva sempre forte come la prima volta. Mentre ci si muove tra la narrazione di quei tragici eventi e il ricordo delle vittime e degli eroi di quel giorno si sentono ovunque le registrazioni delle telefonate di chi chiedeva aiuto perché intrappolato tra le fiamme, di chi coordinava i soccorsi e di chi racconta dei propri amici e parenti perduti.
Ricordavo bene quasi tutto il materiale esposto, ma questa volta una cosa mi ha colpito in particolare: una foto di vari metri quadrati di persone che si gettano dalle torri in fiamme, una di loro però non si sta lasciando cadere ma è uscita dalla finestra e afferra con forza una delle colonne della facciata, forse in un disperato tentativo non di uccidersi ma di scendere lungo la parete esterna. Le persone al museo guardano sbigottite le immagini delle distruzione, immagini che magari non vedono da anni e mi chiedo che reazione avrei io se vedessi quell'orrore per la prima volta da quando questi eventi sono passati dalla cronaca alla storia.
Un pezzo dell'antenna della Torre Nord recuperato tra le macerie |
A downtown però gli attentati sono solo un ricordo, per quanto vivido e doloroso. Il World Trade Center e l'adiacente Brookfield Place (noto fino al 2014 come World Financial Center) sono posti ricchi di attività commerciali e finanziarie e gli hub di trasporto sono sempre affollati di lavoratori che raggiungono i propri uffici. Se il World Trade Center e Wall Street sono strabordanti di attività, il resto della città non è da meno. New York è tuttora una delle capitali del jazz e del blues, è la città dove è nato l'hip hop ed è l'unica (insieme a Los Angeles) ad avere due squadre per ciascuna lega sportiva professionistica. Times Square è affollatissima a qualunque ora, tanto che è impossibile attraversarla senza prendersi almeno una spallata. Non è tutto oro ovviamente, perché anche senza andare in uno degli altri quattro boroughs la povertà si vede in faccia anche a Manhattan. Ma nonostante le contraddizioni e le commistione di stranezze di questa città, la resilienza dei suoi abitanti e del resto della nazione hanno dimostrato che i diciannove terroristi che ventuno anni fa volevano ucciderne l'economia e la vita hanno fallito nel loro obiettivo.
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