Undicisettembre offre oggi ai suoi lettori il racconto personale dell'ex Capitano della Marina degli Stati Uniti William Toti che era nel suo ufficio al Pentagono quando l'aereo si schiantò contro il palazzo. Essendo sopravvissuto allo schianto, Toti divenne da subito uno dei primi soccorritori sulla scena.
Ringraziamo William Toti per la sua cortesia e disponibilità.
Undicisettembre: Puoi farci un racconto generale di ciò che ti è successo l'11 settembre?
William Toti: Quella mattina ero nel mio ufficio, che era l'ufficio esterno del mio capo che era un secondo ammiraglio responsabile della Marina, il Vice Capo delle Operazioni Navali. Questo ufficio era nell'anello esterno, l'E-ring, al quarto piano del Pentagono. Avevamo un televisore costantemente acceso, stavo lavorando quando uno dei nostri uomini urlò "Oh mio Dio, guardate!" Guardai la TV e vidi la prima torre del World Trade Center in fiamme. È così che scoprimmo ciò che stava accadendo.
William Toti |
Alla CNN dicevano che un piccolo aereo aveva avuto un problema con il sistema di navigazione. Avevo esperienza di guida di aerei, quindi sapevo non era possibile schiantarsi accidentalmente contro un edificio del genere in una giornata così limpida. Sapevo che era un gesto intenzionale, o qualcuno che voleva suicidarsi o un attacco terroristico; capimmo per certo che era terrorismo quando vedemmo in diretta l'impatto del secondo aereo. Un mio amico, un compagno di corso dell'Accademia di Annapolis, era in servizio quel giorno al Centro di Comando della Marina, chiamò al telefono e parlò con un collega che era nell'ufficio con me per dire che l'FAA aveva contattato il Centro di Comando Militare Nazionale [centro di comando e comunicazione per diramare gli ordini militari all'interno del Pentagono, NdT] per comunicare che pensavano che fossero stati dirottati molti aerei, non solo i due di cui già sapevamo. Ma non ne erano sicuri.
Poco dopo, richiamò e disse che erano ragionevolmente sicuri che un aereo fosse stato dirottato dall'aeroporto di Dulles, che è vicino a Washington, e che avesse invertito la rotta e stesse tornando verso la capitale; ma non sapevano quale fosse l'obiettivo. Pensavo alle due torri del World Trade Center, avevano detto in TV che c'erano circa 20.000 persone e mi chiesi "Cosa c’è a Washington di abbastanza grande da poter essere visto da un aereo?" perché avevo volato sopra a Washington. Qualcuno ipotizzava la Casa Bianca e io dissi: "No, la Casa Bianca è troppo piccola per essere vista dall'alto a distanza. Il Campidoglio si vede da molto lontano, ma non ci sono molte persone in quell'edificio; non è occupato continuamente da migliaia di persone, il Congresso si riunisce saltuariamente. Cosa si vede dall'alto che ospita decine di migliaia di persone? Il Pentagono!" E lo dissi ad alta voce.
C'erano otto o nove persone nel mio ufficio, la maggior parte civili. Non appena lo dissi, una delle segretarie iniziò ad andare nel panico. Mi dissi: "Sono un idiota. Non avrei dovuto dire niente, non serve a nulla dire cose del genere se sto solo facendo ipotesi". Ma un minuto dopo sentimmo il rumore di un aereo. Il Pentagono è vicino all'aeroporto Reagan e gli aerei decollano costantemente; quando decollano, dall’interno del Pentagono si sente il motore spingere alla massima potenza e poi il rumore diminuisce man mano che l'aereo sale. Sentimmo l’aereo alla massima potenza, ma il rumore aumentava invece che diminuire. Ed è stato così che capimmo cosa stava succedendo. Trascorsero dieci o quindici secondi da quando avevamo iniziato a sentire l'aereo a quando colpì, quindi non ci fu tempo di reagire. Anche perché non sapevamo in che zona del Pentagono si sarebbe schiantato. Sentivamo solo il rumore sempre più forte.
Quando il Pentagono venne colpito, l'edificio tremò. Il mio ufficio era a un centinaio di metri dal punto d'impatto e sentimmo il pavimento vibrare. Sentii il boom come un suono a bassa frequenza e non ad alta frequenza, riverberava nel corridoio più che dall'esterno dalle finestre, il suono viaggiava nel corridoio come in un tunnel che lo intrappola. Mentre fuori il suono si espande. Non me lo sarei aspettato.
All’epoca ero già capitano della Marina, quando sei su una nave se qualcuno si ferisce gravemente non puoi chiamare i pompieri, sei tu i pompieri. In Marina addestrano a correre verso la scena di un incidente, e fu quello che feci.
Corsi lungo il corridoio verso il luogo da cui veniva il rumore al quarto piano insieme ad altri due colleghi del mio ufficio, arrivammo a un punto in cui il fumo era troppo denso, non vedevo niente e non riuscivo a respirare, vidi solo una luce intensa. Il che era un brutto segno. Perché non ci sono finestre nel corridoio, sono tutte nelle stanze e le porte avrebbero dovuto essere chiuse. Quindi, se c'era una luce intensa, significava che c'era un buco nell'edificio e rischiavamo di finire dentro al buco e cadere dal quarto piano, perché non vedevamo dove stavamo andando. Ero sorpreso dal fatto che l'allarme antincendio non fosse partito, corsi davanti a un pulsante per attivarlo e lo premetti in modo che venisse dato il segnale acustico di evacuazione. Dopo averlo fatto corsi via, perché non vedevo e non riuscivo a respirare.
Arrivai a una scala, scesi di corsa fino all'uscita antincendio e uscii dall'edificio a livello del suolo e iniziai a correre verso il punto di impatto dall'esterno. Era lontano, perché è un edificio vasto; dal punto da cui ero uscito dovetti fare tutto il giro. Il punto di impatto era di fronte all’eliporto. Lì davanti c'era quello che noi chiamiamo un piccolo edificio separato che contiene tutta l'attrezzatura antincendio per l’elicottero. Iniziai a vedere frammenti dell'aereo mentre stavo ancora correndo. Ad esempio, vidi pezzi di alluminio verniciato della fusoliera. Vidi un pezzo di alluminio argentato con una "A" rossa dipinta dal logo dell'American Airlines.
Dalla diretta di ABC News dell'11 settembre 2001. |
La maggior parte dei pezzi di alluminio erano ridotti a frammenti, avevano le dimensioni di un foglio di carta, ma c'erano altri pezzi più grandi: pezzi di ala, carrello di atterraggio, gondola del motore. Non vidi i sedili e in seguito capii perché. Il giorno dopo scoprii che i sedili avevano continuato a volare dentro l'edificio. Erano tutti ammucchiati dove il muso dell'aereo aveva fatto un buco tra gli anelli B e C, c'era un buco di circa un metro e mezzo e i sedili erano tutti ammucchiati lì. Li vidi quando andai al Pentagono dopo che l'incendio era stato spento nell'area distrutta.
Usciva molto fumo. Il fumo saliva in volute sopra il tetto dell'edificio, non verso di noi ma verso l’alto. Quindi riuscivamo ad avvicinarci all'edificio verso il punto dell'impatto fino a dove il calore diventava troppo intenso e dovevamo fermarci. C'erano un paio di uscite antincendio da cui usciva gente e pensai che finché c’era qualcuno che usciva andava bene. Poi ogni tanto usciva del fumo nero spesso e arrivavano persone che tossivano e che si vedeva che non riuscivano a respirare.
Lasciami aggiungere una cosa: a questo punto avevo perso il senso del tempo. Non so dirti quanti minuti dopo l'impatto sia successo, so solo che era poco dopo. Il primo camion dei pompieri non era ancora arrivato. C'era costantemente un camion dei pompieri lì, vicino all’eliporto nel caso in cui l'elicottero stesso si fosse incendiato: quel camion dei pompieri era lì quando arrivai ma era in fiamme. Era stranissimo: il camion dei pompieri era esso stesso in fiamme. Guardai dentro e vidi un corpo, pensai "Chi è? È un pompiere? Cosa sta succedendo?" La prima cosa che feci fu aprire la portiera del camion dei pompieri che stava bruciando per far uscire quest’uomo, non sapevo nemmeno se fosse vivo o morto. Aprii la porta, lo afferrai e lui fece un salto. Non seppe che ero io finché non lo reincontrai nel 2015, si stava chiedendo chi fosse il pazzo che stava cercando di tirarlo fuori. Era un pompiere, ora siamo buoni amici. Teneva la testa abbassata nel camion dei pompieri vicino all'altoparlante della radio perché stava cercando di chiamare aiuto e con tutti i rumori dell'incendio e le mini esplosioni del Pentagono non riusciva a sentire. Ad ogni modo, una volta che capii che stava bene, smisi di tentare di tirarlo fuori, guardai verso le porte dell'edificio e vidi il fumo che usciva dalla porta.
Il fumo usciva a momenti alterni. Tra uno sbuffo e l'altro, mi parve di vedere una persona che stava cercando di uscire. Corsi verso l'ingresso, non vedevo nulla, entrai per qualche metro e inciampai su una persona che era a terra. Trattenendo il respiro, afferrai questa persona per i vestiti e cercai di trascinarla fuori, ma non riuscivo. Corsi fuori, c'erano un paio di ufficiali dell'esercito, urlai per chiedere aiuto e tornarono dentro con me. In tre la prendemmo per una gamba, per la cintura e per le spalle e la trascinammo fuori, capimmo che era una donna. La portammo fuori, la poggiammo a terra perché riprendesse fiato perché non respirava, la risollevammo e la portammo a circa venticinque metri dalla porta e quindi la rimettemmo giù perché le si stava staccando la pelle nelle nostre mani, soprattutto dalle braccia. Aveva i pantaloni bruciacchiati, lei stessa era tutta bruciata. L'adagiammo prima a faccia in giù perché non riuscivamo a girarla, la mettemmo su un fianco e poi riuscimmo a girarla.
Tornammo indietro di corsa, perché pensavo che ci fossero altre persone all'interno. Trovammo un uomo steso a terra da solo che era ustionato peggio di quella donna, era steso sulla schiena come un granchio, con le mani e le ginocchia sollevate. Il suo viso era tutto bruciato, sbatteva le palpebre ma le cornee erano bruciate ed erano bianche. Stava urlando, era cosciente. Ci dicemmo "Okay, dobbiamo portare via anche quest'uomo" Qualcuno portò una barella che non so da dove venisse, immagino che la prima ambulanza fosse arrivata a quel punto. Facemmo rotolare l'uomo sulla barella e lo portammo via dall'edificio.
Uscivano altre persone. La maggior parte dei feriti riusciva a camminare da sola e c'erano altre persone che li aiutano. C'erano bottiglie d'acqua da cinque litri per gli erogatori nella struttura esterna della pista di atterraggio degli elicotteri, un uomo le stava portando fuori per versare acqua sulle persone che uscivano dal Pentagono per rinfrescarle.
Dopo un po’ c'era più nessuno che usciva dal Pentagono. Tornai indietro di corsa ancora una volta, entrai tanto quanto riuscivo con un respiro solo. Non vedevo bene e francamente avevo anche paura di perdermi e scappai fuori. Tossivo fortissimo. Mi coprii bocca e naso con la maglietta e provai a respirare, ma non serviva a niente. Caddi su mani e ginocchia e sputai della roba tossendo. Appena smisi di tossire tornai verso la strada perché vidi che c'erano molte persone che erano state trasportate o che venivano curate al bordo della strada e c'erano delle ambulanze che si fermavano. In Marina avevo fatto formazione da tecnico di medicina d'emergenza; la fa quanta più gente debba andare sui sottomarini possibile perché in quelle situazioni non ci sono i medici. Quindi avevo un po' di formazione medica e pensai che sarei andato a cercare di aiutare, perché in quel momento c'erano solo una o due ambulanze. Questo avvenne forse venti minuti dopo l'impatto e fu allora che iniziarono ad arrivare i primi camion dei pompieri.
L'ambulanza aveva un paramedico, un tecnico di medicina d'emergenza e un autista, quindi c'erano tre o quattro soccorritori e cinquanta o sessanta persone ferite a terra o in piedi. Ricordo una donna afroamericana in piedi, con le mani bruciate, che urlava disperata. Le dissi "Sopravviverai, stai bene. Capisco che hai dolore, ma dobbiamo concentrarci su queste persone che sono ferite peggio di te", quindi iniziammo a esaminare gli altri. Trovai la donna che avevamo portato fuori dall'edificio, non c'era nessuno vicino a lei, era sdraiata lì da sola su una barella. Mi chinai per vedere se stava bene. Le feci il test di ricarica capillare: premi l'unghia, lasci andare e vedi quanto tempo impiega l'unghia a diventare di nuovo rosa, per capire se sta prendendo bene ossigeno. Avevo imparato a farlo alla scuola di medicina d'emergenza, ma non l'avevo mai fatto su un afroamericano. Non riuscivo a capire quale fosse la normalità per lei. Quindi guardai sotto le labbra per vedere se erano rosa e vidi che stava diventando blu, quindi capii che non prendeva abbastanza ossigeno. Chiesi a uno degli uomini sull'ambulanza di darmi bombola di ossigeno e gliela attaccai. C'era un uomo con un'uniforme della Marina come la mia che indossava un giubbotto con la scritta "Medico del Pentagono", gli dissi "Dobbiamo farle una flebo"; non facevo una flebo da otto o nove anni e pensavo che quell'uomo sapesse come fare. Prese una sacca per flebo e non sapeva bene come si usasse, gli dissi "Senti, dobbiamo mettere un laccio emostatico. Sei tu il medico", mi disse "In realtà sono un dentista. Dovrei fare semplicemente il triage." Avrei riso, ma non era divertente.
Non sapeva fare la flebo meglio di come l'avrei fatta io. Inserimmo la flebo, c'era una donna dell'esercito e le chiesi di tenere su la sacca. La donna ferita non stava bene, le chiesi il nome, si chiamava Antoinette ma non capii il cognome perché non riusciva a parlava bene. Comunque, sapevamo che sarebbe arrivato un elicottero MedEvac [servizio di trasporto delle persone ferite, NdT]. Tra i feriti c'era anche l'uomo gravemente ustionato. Lo avevano già messo sulla barella e stavano per caricarlo sull'ambulanza. Nessuno si prendeva cura della donna che avevo accanto e così quando arrivò l'elicottero MedEvac dissi "Guardate, non prende ossigeno. Dobbiamo metterla sull'elicottero". Non c'era nessuno lì che avesse l'autorità di sovvertire le decisioni, era l'ironia del momento. Nessuno era a capo e ciascuno degli equipaggi delle ambulanze si occupava semplicemente delle persone che incontravano e che decidevano di curare, questa donna aveva solo me.
Chiamai altre cinque persone, tra cui un pompiere e un Marine, e dissi "Prendiamo la barella e portiamola sull'elicottero" perché c'era un elicottero che stava atterrando lungo la strada. La trasportammo attraverso il campo, oltre il guardrail e nel parcheggio fino all'elicottero. La caricammo e urlai "Ci vediamo all'ospedale" ma non credo che abbia sentito perché il motore dell'elicottero era acceso.
William Toti, secondo a sinistra, trasporta Antoinette con altre cinque persone. |
Corsi indietro e quando arrivai le guardie di sicurezza e gli agenti di polizia del Pentagono gridavano a tutti di andare via perché avevano sentito alla radio che stava arrivando un altro aereo. All'interno del Pentagono presso il Centro di Comando Militare Nazionale sapevano che un quarto aereo aveva virato da qualche parte tra Cleveland e Indianapolis e stava tornando indietro, nessuno sapeva che si trattava di United 93 e che si era già schiantato in Pennsylvania, quindi presumevano che si stesse dirigendo verso Washington perché due aerei avevano colpito il World Trade Center e quindi sarebbe stato logico che due aerei colpissero il Pentagono.
Volevano che andassimo via e pensai "Che stupidaggine, dove andiamo?" Dall'altra parte della strada rispetto al Pentagono c'è un'area boschiva di proprietà del cimitero di Arlington, quindi non c'era nessun posto dove andare. La polizia voleva che ci spostassimo vicino al muro di contenimento in cemento alto quindici metri che c'era dall'altra parte della strada, sono un ingegnere e so che non è una buona idea mettersi davanti a un muro se sta per esserci una concussione. Dissi: "Mi dispiace, non ci vado, resto qui", perché credevamo che ci fossero ancora persone da soccorrere. Alla fine caricammo quante più persone potevamo sulle ambulanze disponibili, avevamo circa cinque ambulanze nelle quali caricammo una trentina persone, e le ambulanze se ne andarono.
Passò altro tempo e non uscirono altri feriti; non ce lo aspettavamo, pensavamo di poter tornare indietro e trovare altre persone da aiutare. Arrivavano anche camion dei pompieri con vigili del fuoco dotati di Scott Air Packs [autorespiratore a circuito aperto trasportabile, NdT]. Ma da quel momento in poi non feci più nulla di utile, anche se rimasi lì fino alle 20:00. Non volevamo andarcene, convinti di poter ancora aiutare qualcuno.
Non potevo tornare a casa perché avevo lasciato le chiavi in ufficio, così alle 19 chiamai mia moglie con un telefono preso in prestito da qualcuno per dirle di venire a prendermi. La batteria del mio telefono si era esaurita molto prima, quindi non potevo usarlo. Le dissi "Vai a nord lungo l'Interstate 395 e ci troveremo". Iniziai a camminare lungo l'autostrada che era stata chiusa da tempo, quindi non c'erano macchine. Camminavo verso sud nella corsia che va verso nord fino a quando un agente di polizia mi vide e pensò che fossi fuori di testa. Mi disse di salire in macchina ma gli risposi: "Non posso, altrimenti io e mia moglie non ci ritroveremo mai". Continuai a camminare e lui mi seguì in macchina guidando verso sud nella corsia in direzione nord dietro di me. Mia moglie, mia madre e i miei due figli arrivarono con il minivan di mia sorella, il piano aveva funzionato! Mi trovarono perché ero l'unico idiota che camminava in autostrada, e così tornai a casa.
Undicisettembre: Cosa accadde nei giorni successivi?
William Toti: La Marina aveva perso molti uffici così decisero che avremmo usato un edificio sulla collina del Pentagono chiamato Navy Annex. Mi presentai e il capo delle operations della Marina disse che avevamo bisogno di qualcuno che si incaricasse del recupero, non era un lavoro normale ma lo avrebbero dovuto creare apposta. Mi chiesero se fossi disposto a farlo e mi offrii volontario per quel ruolo perché il mio lavoro abituale, che era una specie di attività di comunicazione verso l'esterno, non serviva in quel momento. Tornai al Pentagono perché avevo bisogno di capire l'entità del danno, ci voleva un permesso speciale per rientrare, ma avevo l'autorità del Capo della Marina per fare tutto ciò che dovevo fare e la usai.
Una volta spenti gli incendi, tre giorni dopo, fui uno dei primi lavoratori del Pentagono a recarsi nelle aree distrutte per valutare l’entità del danno alle aree della Marina. Entrai con altre quattro persone. C'era un ingegnere strutturale che doveva valutare in quali aree era sicuro entrare e in quali no. C'era un ingegnere ambientale che stava testando l'amianto e il particolato, indossavamo infatti respiratori e tute bianche. C'era anche un agente dell'FBI, perché era la scena di un crimine e l'FBI stava conducendo un'indagine criminale, infatti non permisero che nulla fosse toccato o spostato o che nessuno dei corpi venisse recuperato; quest'uomo si assicurava che non danneggiassimo nulla che avrebbe potuto essere utile per le indagini. E c'era anche una persona che segnava i corpi o parti di corpi. Il mio compito era individuare dove si trovassero gli uffici della Marina e identificare le uniformi della Marina sui resti umani.
Dopo circa una settimana che l'FBI valutava la scena del crimine, arrivarono dei soldati da Fort Myers con il compito di mettere i resti umani nei sacchi per i cadaveri e di portarli su camion frigoriferi, operazione che eseguirono insieme alle forze dell'ordine in modo che i corpi fossero identificati; naturalmente erano interessati anche all'identificazione dei corpi dei terroristi. Ma in questo non venni coinvolto.
Il tredicesimo o quattordicesimo giorno dopo lo spegnimento degli incendi entrammo e vedemmo i sedili dell'aereo ammucchiati nel punto di uscita, dove il muso dell'aereo aveva fatto un buco nel muro tra gli anelli B e C. Il resto era tutto in frammenti: il carrello, i rotori del motore, i cavi, l'alluminio.
Dalla diretta di ABC News dell'11 settembre 2001. |
Undicisettembre: Per quanto tempo hai lavorato al Pentagono dopo l'attacco?
William Toti: Ho lavorato al Pentagono per un altro anno. Inizialmente, mentre gestivo le operazioni di ricostruzione, avevo allestito il mio ufficio nei locali di una fotocopiatrice vicino all'area distrutta. C'erano ancora detriti di ogni tipo a terra, polvere, cenere, era un posto pessimo dove mettersi a lavorare infatti soffro ancora oggi di problemi ai polmoni. Ma era l'unica stanza che potevo usare perché le porte degli uffici erano chiuse e non potevo aprirle inserendo i codici nelle tastiere perché non c'era corrente elettrica. L'unica stanza che trovai aperta era quel locale. Ci portai una scrivania, portai la corrente con una prolunga, mi portai un computer e un telefono e lavorai lì per sei settimane supervisionando le operazioni di recupero.
Ero arrabbiato, volevo vendetta: dei miei amici erano stati uccisi. Ho avuto la fortuna di sopravvivere, quindi avrei fatto tutto il possibile per rimetterci nelle condizioni di combattere. Ma dopo sei settimane di lavoro sette giorni su sette, non riuscivo ad andare avanti, ero esausto mentalmente, emotivamente e fisicamente. Avevo una brutta tosse, avevo un'infezione ai polmoni, mi stavano curando con antibiotici per via endovenosa perché pensavano che avessi l'antrace. Pensavano che i terroristi avrebbero potuto avere con sé l'antrace a bordo dell'aereo, ma avevo una normale polmonite. Cominciai a cedere fisicamente, così mi creai un nuovo lavoro: suggerii di istituire una squadra per i piani di guerra a supporto del Capo della Marina. Di norma il Capo della Marina non ha uno staff di pianificazione della guerra perché è preparato dal Comandante Combattente a Tampa, in Florida. Ma io pensavo: "Cosa ci aspettiamo che faccia? I Capi di Stati Maggiori Riuniti devono approvare i piani di guerra che qualcun altro prepara. Il Capo della Marina si limiterà a approvare il piano o vuole davvero valutarlo?" Così creammo uno staff che chiamammo Deep Blue con il compito di valutare i piani di guerra, e io ne sono stato nominato primo vicedirettore.
Undicisettembre: In che modo l'11 settembre influenza la tua vita quotidiana anche oggi?
William Toti: Beh, per i primi quindici anni circa, ci pensavo tutti i giorni. Mi restano impressi due ricordi vividi. Il primo è il rumore del boom che risuona nel corridoio. Il secondo è l'immagine del buco e del fuoco mentre giravo intorno all'edificio.
Anche in questi giorni, guardando cosa sta succedendo in Israele, so che ciò può accadere di nuovo anche qui. Mi spezzano il cuore i ragazzi che allora non erano nemmeno nati che trovano una lettera di Osama bin Laden su TikTok e sono troppo stupidi per capire che è totalmente insensata o sono troppo ignoranti per capire il fenomeno per cui ci sono delle persone che vogliono ucciderci non è ancora finito. Ci sono ancora molte persone che vogliono ucciderci.
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