2012/06/18

World Trade Center: intervista con la sopravvissuta italiana Gina Lippis

di Hammer

Tra i sopravvissuti delle Torri Gemelle ci sono, come è ovvio, diversi cittadini italiani, il cui racconto è per noi particolarmente toccante in quanto ci riporta le loro dirette emozioni senza la mediazione della traduzione.

Proprio per questi motivi il gruppo Undicisettembre ha raccolto la testimonianza dell'italiana Gina Lippis, le cui parole cariche di emozione e di trasporto rappresentano un tassello molto importante per la ricostruzione degli eventi di quel giorno.

Offriamo di seguito l'intervista ai nostri lettori e ringraziamo Gina per la sua cortesia e disponibilità.


Undicisettembre: Ci puoi fare un breve racconto della tua giornata dell'11/9? Cosa ricordi in generale di quel giorno?

Gina Lippis: Io lavoravo per una società di brokeraggio ed ero al quarantaseiesimo piano della Torre 1. Alla mia destra c’era la finestra di vetro e avevo una vista che era la fine del mondo! C’erano la Statua della Libertà e il Ponte di Verrazzano che rappresentano proprio l'entrata a New York per chi arriva dall'Europa. Osservavo questa visuale sempre con un sentimento particolare perché mi ricordava quando sono arrivata in America la prima volta.

Io sono venuta in America nel 1966, siamo emigrati letteralmente con la valigia di cartone. Siamo arrivati a New York il 16 maggio passando proprio sotto la Statua della Libertà e il Ponte di Verrazzano; quindi quella vista per me rappresentava il momento del cambio della mia vita.

Quando sono emigrata con i miei genitori sono rimasta qui in America dieci anni e venendo da una famiglia molto povera non conoscevo la mia Italia. Quindi dieci anni dopo essere emigrata decisi di tornare in Italia per qualche anno, trovare un lavoro, e girare un po' la mia patria. Questo perché a quel tempo purtroppo (e mi spiace dire questo!) gli unici Italiani che c'erano qua in America erano persone molto povere come noi. E io mi ribellavo a queste gente che si metteva a lavorare senza andare a scuola perché dovevano solo guadagnare per comprarsi il “carro”, come chiamavano le automobili italianizzando “the car”. Io mi sono detta “No, questa non è l'Italia. L'Italia deve essere diversa.” e così decisi di tornare. Arrivai a Milano senza conoscere nessuno e trovai un lavoro in borsa per puro caso, mi buttai con entusiasmo in questo lavoro che mi piaceva tantissimo e rimasi in Italia 17 anni.

Dopo 17 anni avendo tutti i parenti in America (oltre ai genitori ho un fratello e una sorella sposati con bambini) per me non aveva più senso rimanere in Italia da sola e decisi di rientrare. Cominciai a lavorare in borsa qui a New York, ma avevo tutta la clientela in Europa: Londra, Madrid, Parigi, Lugano e Milano principalmente.

Quindi, anche a causa del fuso orario, io dovevo arrivare in ufficio presto la mattina. Di solito arrivavo tra le 5:30 e le 6 e lo stesso successe la mattina dell'11 settembre; arrivavo in ufficio sempre per prima e sempre da sola.

Quella mattina era indescrivibile! Un chiarore, una limpidezza, un sole splendido! Quando aprii la porta mi trovai davanti alla finestra del mio ufficio, con la Statua della Libertà e il Ponte di Verrazzano e le navi che entravano nel porto. Era più bello di una cartolina e ho pensato “Che meraviglia! Che peccato non avere una macchina fotografica.”

Mi sono messa a lavorare, cominciai con le solite telefonate in Italia e in Europa. In ogni stanza avevamo un monitor per controllare l’andamento delle borse in Europa. Alle 9 meno un quarto eravamo in ufficio in 6, il mio capo aveva l'ufficio proprio a fianco al mio. Mi alzai per andare a prendere un caffè al self service al quarantaquattresimo piano; ho poggiato la mia borsa sulla scrivania e ho preso il portafoglio. C'era un collega con me che era venuto a vedere sul monitor come andavano i futures in Europa e abbiamo sentito un botto incredibile. Ricordo con chiarezza che mi è mancato il terreno sotto ai piedi.

A quel punto arrivò il mio capo di corsa, lui che non bestemmia mai, e urlò “Let's get the fuck out of here!”. Presi il mio zainetto, me lo misi sulle spalle e cominciammo a scendere. Ovviamente come noi fece tutto il resto del palazzo.

Nel palazzo c'erano quattro scale e in ogni scala c'era un sacco di gente. Abbiamo cominciato a scendere, ti garantisco, con una lentezza estrema e a ogni piano affluiva altra gente. Tutti chiedevano “Cos'è successo?” ma nessuno sapeva niente.

Quando facevamo le prove di evacuazione (ora si fanno ogni mese, al tempo si facevano un po' meno frequentemente) ci dicevano sempre di non prendere l'ascensore, ma di usare le scale. Quindi ci siamo tutti catapultati in queste scale e abbiamo cominciato a scendere piano piano. Puoi immaginare le urla, i pianti... Io però sono rimasta in me, non ho urlato, non ho pianto, quasi come se non avessi paura: ero gelata.

Arrivati al trentaduesimo piano, e ci arrivammo dopo tanto tempo, il mio capo disse “Proviamo a cambiare scala”, perché eravamo completamente fermi e dai bocchettoni cominciava a uscire del fumo. Io mi aggrappai alla cintura del mio capo che è un omone di due metri e cinque e continuavo a ripetergli “Bob, don't leave me. Don't leave me”, “Non mi lasciare. Non mi lasciare.”

Provammo un'altra scala, ma la situazione era la stessa. Provammo la terza ma era piena anche quella. Ci stavamo portando alla quarta scala e passammo davanti a un ufficio con la porta di vetro. Provammo ad entrare per vedere se c'era qualcuno che magari sapeva cos'era successo. Tutti provavamo a chiamare con i cellulari, ma non c'era telefono che funzionasse lì dentro.

Entrammo in quell'ufficio e trovammo due persone che giravano come due zombie, abbiamo chiesto se avessero un televisore ma non l'avevano. Un mio collega per caso provò a telefonare a casa e riuscì a parlare con la moglie la quale gli disse che un aereo si era abbattuto sulla Torre però oltre il settantesimo piano. Lui disse “Non ti preoccupare, noi siamo al trentaduesimo, stiamo scendendo e non abbiamo nessuna intenzione di risalire. Stai tranquilla che sto bene.”

Non ci siamo rilassati, però ci siamo detti che poteva essere un aereo da turismo e se fossimo scesi non ci sarebbero stati problemi. Il mio capo disse “Gina, fermatevi qui un attimo, io arrivo subito.”

“No, tu non mi lasci qua” risposi.

“Stai qua, devo andare un attimo in bagno. Arrivo subito.”

Scoprii dopo che era andato a prendere della carta bagnata per coprirci la bocca, visto che dai bocchettoni usciva fumo. Nel frattempo ebbi la brillante idea di andarmi ad affacciare alla finestra per vedere fuori. Mentre ero alla finestra una donna si buttò dai piani alti, mi passò davanti e si spiaccicò su un tetto sotto di me.

Questa cosa mi paralizzò. Non ho pianto, non ho urlato, sono rimasta pietrificata davanti a questa finestra.

Tornò il mio capo, mi venne vicino e mi disse “Vieni via di qua! Vieni via di qua!” perché aveva visto anche lui questa donna spiaccicata come una pelle di leone sotto al tavolino del soggiorno con le braccia spalancate. Quella figura l'ho avuta davanti agli occhi non sai per quanto tempo.

Ricominciammo a scendere e dopo poco, ma proprio poco, sentimmo una scossa incredibile e sentimmo la Torre oscillare. Tutti pensammo “Adesso crolla”, anche se ce lo siamo detti dopo. In quel momento ci guardammo l'un l'altro ma nessuno disse niente, perché ciascuno non voleva spaventare gli altri. Dopo capimmo che fu lo schianto del secondo aereo.

Continuammo a scendere e oltre al fumo che usciva dai bocchettoni c'era dell'acqua per terra. A un certo punto incontrammo una signora di colore molto grassa che occupava tutta la scala (che non era poi così larga, in due ci si stava ma in tre si era stretti) e mi ricordo che piangeva e invitava gli altri a passarle avanti. Noi le dicevamo “Ma no, scendiamo insieme lentamente” ma lei rispondeva “No, blocco troppa gente.” e ci lasciò passare.

Scendendo, scendendo e scendendo incontrammo un uomo sulla sedia a rotelle. Incontravo questo signore ogni mattina perché evidentemente facevamo gli stessi orari di lavoro. Anche lui come la signora di colore ci diceva “Andate, andate.” e c'era un amico che gli spingeva la carrozzina. Noi gli dicevamo “Vai, noi veniamo dietro di te.” ma rispose “No, mi ci vuole troppo tempo.” Insomma, portare una sedia a rotelle giù dalle scale non è una cosa facile.

Questo signore lavorava per la Port Authority e ogni mattina scambiavamo qualche parola: “Buon giorno”, “Come sta?”, “Ah che bel tempo oggi”, “Oggi fa freddo”, “Oggi fa caldo”. Dopo tanto tempo lessi su un settimanale che sia lui che l'amico morirono nel crollo. Uno dei due era al telefono con i genitori quando la Torre è crollata. Lui voleva che l'amico scendesse, ma questo gli disse “No. O ci salviamo tutti e due, o moriamo tutti e due.”

Noi continuavamo a scendere piano piano e a un certo punto cominciarono a salire i pompieri. Una scena che non hai idea! Questi pompieri che salivano carichi di tutta l'attrezzatura che si portano addosso... Noi chiedevamo loro “Ma cosa è successo?”, ma non ci dicevano niente. Dicevano solo “Non lo sappiamo, non vi preoccupate. Voi scendete, tenete la destra e andrà tutto bene.”

Ci hanno fatto uscire al secondo piano dove abbiamo preso la scala mobile per portarci sotto dove c'erano i negozi. Lì c'era una tale folla che io, il mio capo e io miei colleghi ci siamo persi. C'erano varie uscite: chi usciva di qua, chi usciva di là, e io persi i miei colleghi.

Ci hanno fatto risalire e ci portarono sulla strada. Dalle scale scendeva quasi mezzo metro d'acqua. Immagina come eravamo conciati, tutti bagnati! Da lì uscii fuori: non chiedermi dove perché non ne ho idea. Ancora oggi non so dove sono uscita. L'unica cosa che ricordo è che mi trovavo in questo slargo e mi bloccai completamente davanti a una gamba con una scarpa rossa che è stata la mia tortura per tanti, tanti, tanti mesi.

Continuavo a chiedere aiuto ma nessuno si fermava, eravamo tutti sulla stessa barca ovviamente.

A un certo punto sentii il mio capo, Bob, che mi chiamava da lontano: “Gina, corri!” Io gli dissi: “Vieni qua, Bob, aiutiamo questa gente.” Lui corse verso di me e si accorse che ero paralizzata. Non sentivo le gambe, non reagivo, non una lacrima: niente! Ero un sasso. E ti dico che io dentro ancora oggi mi sento così.

Se chiudo gli occhi e penso a quel giorno, non sento rumori, non sento urla. Come un film muto. A distanza di dieci anni non sento niente. Non sento urla: niente!

Ero un pezzo di ghiaccio, non sentivo niente. Lui mi ha strattonata. “Corri, corri, via di qui.” Ricordo bene che lui disse “E' Broadway e qui sotto c'è la metropolitana.”. Cominciammo a camminare verso nord; io abito sulla cinquantaquattresima, all'altezza a cui si trova il palazzo delle Nazioni Unite.

Camminammo a lungo, ci fermammo in un bar. Ricordo particolarmente la solidarietà di questa città. Tutti i bar erano aperti e offrivano da bere. Tutti i televisori erano accesi, addirittura qualche bar aveva messo il televisore sulla porta.

Quando io e Bob eravamo già a una certa distanza dal World Trade Center, la Torre Nord crollò e con essa sparirono le Torri Gemelle. Abbiamo sentito il boato e le urla della gente, ci siamo girati e le Torri non c'erano più.

Il mio capo mi ha accompagnato fino a casa e con il computer ha tentato di mettersi in contatto con la moglie, perché abita nel New Jersey. Lui poi andò da sua sorella che abita qui vicino. Io decisi che sarei andata dai miei genitori nel Queens, oltre il Queensboro Bridge sulla cinquantanovesima. Verso le due il mio telefono squillò ed era mio fratello che finalmente era riuscito a mettersi in contatto con me. A quel punto scoppiai in urla e pianti sentendo la voce di mio fratello che urlava e piangeva a sua volta.

Mi cambiai e uscii per andare dai miei. Arrivai nel Queens verso le cinque, mio fratello era venuto a prendermi oltre il ponte. Mentre attraversavo il ponte ero proprio afflitta, con il mio zainetto sulle spalle. A volte quando ci penso mi vedo e mi faccio pena. Vedo questa figura triste che attraversa il ponte con questo dolore dentro.

A metà del ponte guardai a destra e vidi una massa di fumo nero che si spostava verso est, perché il vento soffiava da quella parte quel giorno, e sono svenuta. Nessuno mi ha soccorsa perché c'era questa fiumana di gente che voleva solo uscire da Manhattan. A un certo punto sono rinvenuta e ho sentito un urlo: “Gii-naa, Gii-naa!” Mi guardavo intorno per vedere chi mi stava chiamando ed era mio fratello che si era arrampicato sul ponte e in mezzo a quella marea di gente mi aveva riconosciuta.

Da lì è cominciata la mia tragedia. Volevo tornare a New York per donare il sangue, non ho mangiato per una settimana, avevo incubi tutte le notti. Sono venuti due giornalisti mandati dalla televisione italiana a intervistarmi. Mi fecero sedere e mi chiesero di raccontare la mia giornata. La raccontai come la sto adesso raccontando a te, ma essendo il giorno appena seguente furono solo pianto e singhiozzi, non riuscivo neanche a parlare. L’intervista fu trasmessa in prima serata e fu un bene perché molti parenti miei non riuscivano a mettersi in contatto con me e vedendomi in televisione sapevano che almeno ero viva.

Per un certo periodo mi sembrava di stare bene anche se non sono andata a lavorare per un paio di mesi perché non ce la facevo, avevo paura. Sono andata avanti così fino a gennaio, poi ho cominciato a stare male, male, male; al punto che temevo di avere un tumore alle ossa perché non riuscivo a camminare, mi faceva male sotto i piedi. Non dormivo, non mangiavo. Avevo quello che chiamano “Post-traumatic stress”.

Il giovedì successivo una persona che lavora per la Croce Rossa mi trovò seduta che piangevo sulla quinta Avenue e mi ha letteralmente portata all'ospedale. Là lo psicologo mi ha fatto parlare con la manager che mi ha detto: “Signora, abbiamo dei grossi problemi. C'è una lista di attesa di almeno un anno.” Puoi immaginare quanta gente sconvolta ci fosse.

Io ero sconvolta dalle lacrime, dai singhiozzi, dai tremolii, dalle paure e il lunedì sera ho iniziato la terapia di gruppo. Eravamo in otto e ti garantisco che eravamo come otto neonati che piangevano. Però devo dire che mi ha aiutato molto, perché in quei momenti la famiglia non basta. Io ero contro la mia famiglia perché secondo me non mi ascoltavano abbastanza; invece non era così, è che un familiare in quella situazione non sa come trattarti. Invece una persona esterna e del mestiere sa come trattarti e iniziai con gli antidepressivi. Dovevo prenderne 10 milligrammi, ma dopo un mese ne prendevo 50 milligrammi al giorno.

Io volevo solo andare a Saint Patrick a vedere i funerali e piangere, mi sentivo in colpa perché troppi padri e troppe madri erano morti e io che non ho figli mi chiedevo “Perché sono sopravvissuta?”

Sentivo il bisogno di farmi del male. Era una sensazione che non so descrivere.

Io avevo bisogno di guardare la televisione, perché guardando quelle immagini io stavo male e stare male mi faceva sentire bene. Era come se fosse il pegno che io dovevo pagare per essere sopravvissuta. Ero davanti alla televisione 24 ore al giorno, non la mollavo per niente.

Per far contenta mia madre le dicevo che andavo a letto, poi appena sentivo che lei chiudeva la porta tornavo davanti al televisore.

Anche adesso ogni volta che lo racconto io vivo quel momento, anche oggi per me è l'11 settembre. Sento dentro quella sensazione, il voler far qualcosa a tutti i costi e non poter fare niente.

Una mia amica di Bari aveva due figli: una figlia di 34 anni e un figlio di 38 anni sposato con due bambini. Erano una nella Torre 1 e l'altro nella Torre 2, sono morti entrambi.

Negli anni successivi sono stata ospite alla televisione varie volte. In una di queste occasioni, non ricordo bene quale trasmissione fosse, c'era in collegamento un giornalista inviato in Afghanistan (che se ne stava comodamente in albergo) e io dissi qualcosa relativamente al fatto che io non sono a favore della guerra (e se mettiamo in fila un milione di persone, nessuno dice “Sì, io voglio la guerra”), però proviamo a chiedere a quella mamma che aveva due figli e che sono morti entrambi... Quella donna non vuole la guerra, vuole giustizia. E questo giornalista mi attaccò dicendo che il sangue di quegli Americani che sono morti nelle Torri è rosso esattamente come quello di chi sta morendo a causa della guerra in Iraq e in Afghanistan.

Io gli dissi: “Sì, sicuramente. Perché la guerra uccide tantissimi innocenti e andrebbe evitata.” Ma in un momento del genere io non sono in grado di dire qual è la cosa giusta. Certo, io non voglio la guerra, vorrei che tutto il mondo fosse in pace, ma purtroppo non è così.

Un'amica di una mia collega, che lavora ancora con me, era sulla Torre 2 e il marito sai dov'era!? Era sull'aereo che ci si è schiantato contro!

E un signore di Staten Island ha corso per prendere il traghetto per tornare dalla sua famiglia con tre figli, è arrivato sulla banchina quando il traghetto si era appena spostato. Ha saltato per prendere il traghetto, ma ha battuto la testa ed è morto: l'11 settembre, non perché era nella Torri, ma nel tentativo di tornare dalla sua famiglia.

Tutto questo perché?!?!

Perché dei pazzi sono saliti su un aereo e sono venuti a infilarsi nel nostro cuore alle 9 meno un quarto dell'11 settembre! Io non ho fatto niente a nessuno e mi hanno rovinato la vita. Non sono più la stessa.

Non sorrido più, magari sorrido con il viso, ma dentro non sorrido più; non ricordo da quando il mio cuore non sorride veramente.

Non sento più niente. Mi ricordo quando è morto mio padre ho sentito un dolore fortissimo dentro perché avevo perso il mio papà e dopo l’11 settembre non ho più sentito nulla del genere anche se ho perso molti amici e amiche.

Questo grazie a loro e alla loro religione!

Non sento più niente, sono come un automa, come uno di quei giocattolini a cui tiri la corda e camminano.

Ho perso tutti i clienti perché non ce la facevo più a lavorare. Non ci andavo e quando ci andavo non ero la stessa di prima. Avevamo un altro ufficio nel New Jersey e il mio capo mi disse “Abbiamo due scrivanie libere, scegli quella che vuoi.” Ne scelsi una, mi sedetti e iniziai a piangere come una disperata. Avevo un computer e un telefono e mi chiesi “E adesso cosa faccio? Chi chiamo?”. Non avevo più niente.

Da lì poi sono ripartita, piano piano. Ma non ero più quella di una volta, facevo fatica.

Sono stata in terapia due anni e mezzo, poi mi sono accorta che non serviva più a niente. Poi ho fatto la terapia individuale e a un certo punto la psicologa mi ha detto “Gina, quello che hai dentro ormai non te lo toglie più nessuno. Devi imparare a conviverci.” e aggiunse una cosa che si avvera giorno dopo giorno, cioè che magari un giorno mi alzo e sono tranquilla e vivo normalmente, il giorno dopo sono depressa da morire anche senza nessun motivo.

Sono gli strascichi che mi porto dietro. Magari un giorno andranno via, non lo so, ma oggi ci sono ancora. Io dopo l'11 settembre non sono più quella che ero una volta.

Un'altra storia che ti posso raccontare è questa. Durante le analisi del DNA sui resti trovati a Ground Zero, nel momento in cui identificavano qualcuno ne informavano la famiglia; c'era una signora che sperava con tutta sé stessa che trovassero i resti del marito per potergli fare un funerale e di questo signore hanno trovato solo il cuore. E il funerale è stato fatto solo con il cuore nella bara.


Undicisettembre: Quando vi siete resi conto che era un attentato terroristico e non un incidente?

Gina Lippis: Ce ne siamo resi conto quando ci stavamo allontanando dalle Torri andando verso Nord, siamo entrati in un bar perché io dovevo bere e andare in bagno, nel bar c'era il televisore e per la prima volta vidi i due aerei che si infilavano nelle Torri. A quel punto era chiaro per tutti che era un attentato.


Undicisettembre: Ti ricordi chi diede le istruzioni di evacuare e in che modo?

Gina Lippis: Nessuno. Nella Torre 1 non furono date istruzioni. Quando siamo usciti dalla scala al trentaduesimo piano c'era un telefono di emergenza, ma non funzionava neanche quello. A noi non ha detto niente nessuno, non abbiamo sentito la voce di nessuno.

A meno che non sia io a non ricordarmelo, ma non credo perché ero lucida. Mi rendevo benissimo conto di ciò che stava avvenendo attorno a me. Mi ricordo della signora che si è dovuta togliere le scarpe con i tacchi e si è tagliata un piede e sanguinava, o di quell'altra signora che aveva tutta la camicia bagnata perché pioveva dentro.

Tutto questo macello dentro la scala me lo ricordo chiaramente, però – ripeto – non ricordo una voce, non ricordo un urlo, non ricordo niente. Come un film muto, anche a distanza di dieci anni.

Quando History Channel ha realizzato il documentario Gli Italiani nelle Torri ci ha intervistati uno per volta, quindi io non sapevo cosa avessero detto gli altri. Quando poi mi hanno inviato il DVD ho riscontrato che dicevamo tutti le stessissime cose. Anche Francesco Ambruoso ha detto che per lui era come un film muto, non ricorda le voci, non ricorda i suoni.


Undicisettembre: Una cosa che non ho capito dal tuo racconto è dov'eri quando è crollata la Torre Sud.

Gina Lippis: Eravamo già per strada, ma non ho visto il crollo della Torre Sud. Abbiamo sentito il boato e abbiamo visto la polvere che usciva da tutte le parti, ma non abbiamo capito cosa stesse succedendo perché a New York i palazzi sono molto alti e se ti trovi sul marciapiede non vedi il palazzo successivo a quello che hai più vicino.


Undicisettembre: Puoi confermare o smentire che ci sia stato un lungo blackout nei giorni precedenti all'11 settembre?

Gina Lippis: No, io non ricordo nulla del genere.


Undicisettembre: Cosa pensi delle teorie del complotto secondo cui le Torri Gemelle sarebbero state demolite con esplosivi dal governo americano?

Gina Lippis: Ho letto di tutto, anche questa teoria. Non sono un esperto, quindi non lo so. Non sono in grado di dire se credo a una teoria o a un'altra: non lo so.


Undicisettembre: Dopo quanto tempo sei tornata a Ground Zero?

Gina Lippis: Subito! Dopo due giorni sono andata lì a piangere come una disperata e ci sono tornata due o tre volte a settimana.


Undicisettembre: Cosa pensi del nuovo World Trade Center attualmente in costruzione?

Gina Lippis: Io avrei rivoluto le due Torri. Il nuovo progetto è bello, ma io avrei rivoluto le due Torri lì al loro posto. Erano il nostro simbolo, il simbolo di questa città.

Sebbene io mi senta molto italiana e adoro la mia patria, la mia gente e la mia lingua, dopo l'11/9 mi sento anche molto americana. Infatti dopo l'11/9 ho preso la cittadinanza americana e adesso ho i due passaporti. Non rinuncerei né all'uno né all'altro per niente al mondo.


Undicisettembre: Come si vive a New York dieci anni dopo l'accaduto?

Gina Lippis: New York si è rimboccata le maniche. I primi tempi questa città era devastata: non c'era turismo, non c'era nessuno in giro. Era veramente triste. Adesso la città ha un po' rialzato la testa, anche se la crisi la sentiamo anche qui in America.

Abbiamo un ottimo presidente. Ma come dico sempre, New York non è l'America. L'America è un'altra cosa.

Sì è ripresa un po', ma c'è sempre quell'ombra scura su di noi. Quando c'è qualche evento, ad esempio la maratona, c'è sempre un po' di paura. Ogni tanto quando prendi la metropolitana e vedi una gran flotta di poliziotti ti chiedi “Oddio, cos'è successo? Perché ci sono così tanti poliziotti?” e allora vai a chiedere “Excuse me, cosa è successo?” e loro ovviamente e giustamente ti rispondono “Non c'è niente, signora. Tutto okay.”

Quella che era una volta la vita di New York non lo è più. Va un pochino meglio dopo dieci anni, cominciamo a convivere con ciò che è successo.